Giulio, in arte Arrigo
Benedetti, l'aspirante romanziere che reinventò i giornali
“Chi non ha mai visto Arrigo Benedetti al tavolo d’impaginazione saprà anche molto su come si dirige un giornale, ma certamente non sa tutto. O almeno ha perso un bel po’”. La gran lezione di Carlo Gregoretti
Lui abitava in via Paisiello numero 10. E la strada che faceva a piedi ogni mattina per raggiungere l’Espresso, in via Po numero 12, passava per via Pinciana, i prati di Villa Borghese sulla destra, i tappeti di margherite che da febbraio in poi dilagavano fin quasi addosso al marciapiede. Lui era Arrigo Benedetti, nome d’arte di un assai famoso giornalista di 45 anni (correva il lontanissimo 1955) che in realtà si chiamava Giulio. E che aveva scelto di chiamarsi Arrigo non già per evitare confusioni con Giulio De Benedetti, a quell’epoca direttore della Stampa (come tutti hanno sempre pensato), ma semplicemente perché gli piaceva di più. Fu lui stesso a dirmelo l’ultima volta che ci siamo visti, più di vent’anni dopo, nel 1976, poche settimane prima che si ammalasse per morire. Eravamo a cena da lui, al residence Aldrovandi di Roma dove si era trasferito quando gli fu affidata la direzione di Paese Sera. La cena l’aveva preparata Rina, sua moglie. E il cenacolo era una stanzetta al piano terra, pochi metri quadri, con annessa piccola cucina, confinante con una stanza da letto e con un bagno: in tutto tre finestre affacciate sulla grande gabbia semisferica del giardino zoologico da cui l’improvviso e violento stridìo di un uccello poteva arrivare a interrompere il nostro conversare. “La solita aquila”, diceva Rina sorridendo. “Non è un’aquila, è un avvoltoio”, la correggeva lui: “Un avvoltoio testarossa, sarcogyps calvus”.
Ecco, se devo pensare a qualcosa che riguardi Arrigo Benedetti e la mia sfacciata fortuna di averlo un giorno incontrato, sono sempre due le immagini che si fanno avanti da sole, quasi con prepotenza. Una è quella di un uomo che percorre a piedi tutte le mattine via Pinciana quando le margherite di Villa Borghese sono ancora chiuse. E’ un bel signore leggermente cicciottello che però cammina risoluto, a passo svelto, e prima di traversare sulle strisce pedonali leva alto l’ombrello che porta sempre con sé (anche se non piove) per intimidire gli automobilisti romani poco versati – secondo lui – al rispetto delle regole del traffico. In ufficio, cioè nella redazione dell’Espresso, non c’è ancora nessuno, a parte Filomena, una signora sarda addetta alle pulizie. Tutti gli altri, o almeno la maggior parte degli altri (i giornalisti) arriveranno più tardi, quando il sole già alto avrà svegliato anche le margherite. Insomma, verso le dieci.
L’altra immagine prepotentemente ancorata al ricordo di Arrigo Benedetti è anch’essa un’immagine di cui ho appena parlato: quell’improvviso stridìo di un avvoltoio durante una cena romana; l’urlo di un uccello rapace come un’aquila, che però è diverso da un’aquila; e non è nemmeno un avvoltoio qualunque perché è un avvoltoio testarossa: dunque, non un avvoltoio monaco, o un capovaccaio, un avvoltoio testarossa. Se uno fa il giornalista deve essere preciso, esauriente. Le persone, uomini o donne che siano, hanno un nome e un cognome, le cose hanno un nome, tutto ciò che esiste ha un nome, gli animali e le piante di nomi ne hanno addirittura due, uno italiano e uno latino. Se ne conosci solo uno, puoi avere successo in moltissimi altri campi ma non puoi fare il giornalista.
Così pensava e parlava il maestro di giornalismo cui è dedicato ora un libro che raccoglie i suoi scritti. Io, per la verità, non posso dire di averli letti tutti, i suoi scritti. Così come non avevo mai letto tutti i giornali che ogni mattina fingevo di aver letto quando, nei primi anni di vita dell’Espresso, lui mi obbligava a un tu per tu quotidiano nella sua stanza, una liturgia a due che aveva per tema il commento dei fatti riportati quel giorno dalla stampa. La televisione ancora non c’era. Radio Radicale nemmeno. I fatti del giorno li conosceva solo lui e dunque sua era l’unica voce che filtrava ogni mattina negli ambienti d’un appartamento destinato a rimanere vuoto ancora per un po’, fino a quando non si svegliavano le margherite.
Quando uscì il primo numero (ottobre 1955), l’Espresso aveva una dozzina di giornalisti, una metà dei quali aveva già lavorato con Benedetti e con Eugenio Scalfari (che otto anni più tardi sarebbe diventato a sua volta direttore). Gli altri venivano da Cronache, erano i naufraghi di un settimanale nato un anno prima per iniziativa dell’editore romano Roberto Tumminelli, titolare di una tipografia dove si stampava la Settimana Incom illustrata (e dove si era stampata per anni l’enciclopedia Treccani). Per dirigere Cronache, Tumminelli aveva scelto Gualtiero Jacopetti, già redattore capo della Settimana Incom, che però, dopo appena pochi mesi, quando il settimanale da lui firmato stava cominciando ad affermarsi, era finito in galera con l’accusa di violenza carnale nei confronti di una zingarella tredicenne. Lo scandalo aveva fatto molto rumore, Cronache stava affondando e i redattori, me compreso che ero capitato in mezzo a loro per caso (Antonio Gambino ed Enrico Rossetti erano stati conosciuti e scritturati da Jacopetti nella trattoria Otello di via della Croce, abituale ritrovo di intellettuali e gente di cinema; Fabrizio Dentice, Sergio Saviane, Franco Lefèvre e Paolo Pernici venivano invece da altre esperienze giornalistiche), stavano tutti annaspando verso la disoccupazione. Cui sarebbero senza dubbio approdati se Benedetti e Scalfari non avessero scelto Tumminelli come stampatore del nuovo settimanale l’Espresso. E se Tumminelli, oltre a ottenere il 20 per cento della proprietà della nuova testata (il restante 80, come tutti sanno, era di Adriano Olivetti) non avesse ottenuto anche il trasferimento all’Espresso di tutto il personale di Cronache.
Accade dunque che un pomeriggio di fine estate 1955 gli ammaccati superstiti di un settimanale il cui direttore langue a Regina Coeli vengano convocati in via Po numero 12 per incontrare nientemeno che Arrigo Benedetti, mostro sacro del giornalismo periodico italiano, l’uomo che ha dato vita al rotocalco, che ha lavorato con Longanesi a Omnibus, ha diretto Oggi, ha fondato e diretto l’Europeo. E che ora, per dirigere l’Espresso, sembra aver bisogno anche di loro. Gli piaceranno? Gli piaceremo?
La prima cosa che ci colpì di quell’incontro fu che anche lui, come Jacopetti, parlava toscano (ma per fortuna tra i due non c’era altro in comune). La seconda fu la chiarezza, la semplicità e insieme la straordinaria forza suggestiva del programma che veniva a illustrarci. I tempi dell’Europeo, cioè del settimanale che aveva fondato nel ’45 e aveva diretto fino a un paio d’anni prima, li considerava finiti, superati, non lo interessavano più. L’Europeo, diceva, nato nell’anno in cui si è chiuso il più grande e sanguinoso conflitto che il mondo abbia mai conosciuto, ha svolto una funzione importantissima. Passata la tempesta, ha spalancato le braccia alla rinascita, ha dato per primo agli italiani il senso di un ritorno a tempi normali, ha registrato con semplicità e rigore cronache vive, ha messo in luce con una serie di memorabili testimonianze (il ritorno di Arturo Toscanini con un grande concerto alla Scala, la rivolta del carcere di San Vittore, l’inchiesta di Tommaso Besozzi sulla morte del bandito Giuliano) il contraddittorio momento in cui viveva la nostra società, ha costruito un giornalismo maturo, capace di non contentarsi mai della realtà ufficiale. Poi però, con il passare degli anni, la tiratura dell’Europeo era cresciuta. E insieme alla tiratura era forse cresciuto nella gente il bisogno di farsi consolare, di credere un po’ di più nella realtà apparente, di usare il giornale – soprattutto il settimanale – come un passatempo il più possibile gratificante, un testimone della felicità della vita (quella che, qualche anno dopo, Fellini e Flaiano avrebbero chiamato dolce vita).
Benedetti era seduto dietro a una scrivania sull’unica sedia presente nella stanza. Tutti noi, tutti gli altri, ascoltavamo in piedi perché i mobili non erano ancora arrivati. Lui parlava guardandoci uno a uno. Il giornale che ora faremo insieme, disse (più o meno), partirà da dove è arrivato l’Europeo ma per percorrere una strada nuova, diversa e difficile. Come abbiamo fatto nel ’45, anche stavolta dobbiamo inventare un giornale che non c’è, un giornale che interessi la classe dirigente e che nello stesso tempo non sia conformista; dobbiamo elaborare uno stile oggettivo e insieme ricco di motivi morali, aggredire di nuovo la realtà italiana, ma orientando la nostra attenzione soprattutto all’area della politica, dell’economia, dei problemi sociali. Dunque, un giornale che risulti indispensabile alla classe dirigente del nostro paese ma che non indulga ai suoi vizi tradizionali, alle sue abitudini comode, stimolandola invece, contraddicendola, magari qualche volta facendola anche soffrire. L’appuntamento è per lunedì prossimo; l’indirizzo è questo, è facile da ricordare, via Po 12; io arriverò tra le 8 e le 8 e un quarto perché così sono abituato, da sempre; voi cercate di esser qui qualche minuto prima delle 9: alle 9 si comincia. Non sapevamo ancora (lo avremmo scoperto ben presto) che entrava al giornale un’ora prima degli altri avendo già letto tutti i principali quotidiani.
Ma eccoci arrivati a un punto in cui mi si pone un piccolo problema. Dovrò fare una cosa che a Benedetti non sarebbe affatto piaciuta: dovrò parlare di me. Magari alla svelta, col minimo delle parole indispensabili, perché a tanti anni di distanza ho ancora attaccata alle orecchie la tonante sfuriata del nostro nuovo direttore contro l’uso del pronome “io” nella scrittura di un articolo. Per un giornalista, urlò una volta non ricordo a chi (forse a Paolo Pernici), il pronome “io” non esiste, tu giornalista non esisti, esistono i fatti, le storie, che devi raccontare al lettore senza coinvolgimenti o valutazioni personali. Se in una stanza fa caldo, non è indispensabile scrivere che fa caldo (valutazione tua, che potrebbe non essere oggettiva), molto meglio descrivere l’ambiente, portare l’attenzione su qualcuno che si sta asciugando il sudore, su qualcun altro che si toglie la giacca, si sbottona il collo della camicia. Insomma, non devi mai parlare di te.
Io invece dovrò farlo, lo faccio, altrimenti non sarebbe facile spiegare lo speciale rapporto che si stabilì quasi subito fra lui e me e che durò per il resto delle nostre vite. Lui era il primo, io ero l’ultimo. Ero l’ultimo fra i reduci di Cronache e l’ultimo, anche perché il più giovane, dell’intera nuova redazione dell’Espresso. Oltretutto non ero manco giornalista. Ero capitato a Cronache senza conoscere nessuno, nemmeno l’editore Tumminelli che pure mi aveva cercato e assunto dopo aver sentito alla radio la cronaca di una cerimonia in Campidoglio durante la quale il sindaco di Roma Rebecchini mi aveva dato una medaglia. Io stavo ancora studiando (Scienze politiche), avevo già una moglie, una figlia, un altro figlio in arrivo, preparavo la mia tesi su Tocqueville e uno stipendio, per piccolo che fosse, mi serviva molto.
Certo, quando cominciai a frequentare via Po numero 12 non potevo immaginare che il visconte francese Alexis de Tocqueville, celebrato autore de “La democrazia in America”, fosse lo studioso più amato da Arrigo Benedetti. Imparai subito qualcosa (non molto) su ciò che Benedetti odiava: per esempio, il fatto che i suoi nuovi redattori arrivassero al giornale in ritardo; oppure che i loro articoli, quando gli venivano consegnati, fossero pieni di cancellature, di correzioni a penna indecifrabili, che avessero un brutto inizio, un incipit noioso, incapace di svolgere la sua funzione che è solo quella di inchiodare il lettore alla voglia di proseguire fino in fondo. La prima riga, diceva, vale più di tutte le altre; e l’unico consiglio che posso darvi è quello di tenere l’indice sospeso sulla tastiera della vostra macchina da scrivere prima di abbatterlo su un tasto che potrebbe rivelarsi sbagliato. Insomma, un polpastrello di Damocle, questo era il suo consiglio.
Innamorato di Tocqueville e profondo conoscitore dei due libri che raccolgono i suoi studi condotti negli Stati Uniti tra il 1831 e il 1832, tuttavia Benedetti ignorava che l’autore francese avesse vissuto anche un’esperienza in Italia. Era stato in Sicilia, aveva visitato le Eolie, soggiornando nelle isole di Stromboli e Vulcano. Che, al contrario dell’America, non gli erano piaciute per niente. L’argomento lo incuriosì e Benedetti non mi trovò impreparato perché io quelle isole le conoscevo e le amo da quando ero ragazzo (pescatore molto prima che giornalista), da quando Rossellini, a Stromboli, non aveva ancora girato “Stromboli” con Ingrid Bergman e Dieterle, a Vulcano, non aveva ancora girato “Vulcano” con Anna Magnani.
Fu forse questa la scintilla che accese un legame molto solido fra il famoso direttore del nuovo settimanale l’Espresso e il meno significante fra quei sei o sette redattori che si era trovato in redazione senza averli scelti. Per la verità una scelta, almeno verso di me, l’aveva subito fatta. Ed era quella di obbligarmi (chissà perché) ad esser lì per primo, tutte le mattine a fargli compagnia, magari trattenendo a stento uno sbadiglio. I nostri incontri quotidiani, dedicati per almeno un’ora ai commenti sull’attualità, approdavano a volte a reciproci ricordi personali. Le altre stanze di via Po erano disabitate, i colleghi ancora non si vedevano (le margherite erano ancora chiuse) lui mi parlava dei suoi primi passi in un mestiere, quello del giornalista, che si può iniziare controvoglia come era successo a lui ma poi bisogna portarlo avanti seriamente, lavorando, soffrendo, imparando (e soffrendo ancora), senza mai accontentarsi. Certo, per imparare ci vogliono i maestri, Giotto senza Cimabue magari diventava un tintore. E lui un maestro lo aveva avuto, si chiamava Longanesi.
Nato qualche anno prima dello scoppio della Grande guerra, Benedetti era arrivato a Roma, da Lucca, qualche anno prima dell’avvio della Seconda. Lo aveva chiamato Mario Pannunzio, suo amico, suo coetaneo, anche lui lucchese, che amava il cinema, voleva diventare regista e nel 1937, a Roma, frequentava il Centro sperimentale di cinematografia. Il suo interesse, invece, cioè l’interesse di Arrigo (che nel ’37 si chiamava ancora Giulio), era la letteratura, voleva diventare scrittore, collaborava a una rivista bibliografica, il Libro italiano, che a Roma aveva la sua sede, in via di Parione. Ma c’era un interesse prevalente, quello di Leo Longanesi che stava preparando un nuovo settimanale, Omnibus, e avendo conosciuto i due amici intorno ai tavolini del Caffè Aragno, aveva deciso di non farseli scappare.
Arrigo, questa storia, la raccontava volentieri, l’ha raccontata in più occasioni, la raccontò, per esempio, in un numero speciale dell’Espresso stampato e diffuso nell’ottobre 1965 per festeggiare i primi dieci anni del settimanale. Vi si legge (male, perché la copia ha quasi mezzo secolo di vita) che il titolo Omnibus era stato scelto non da Longanesi ma da Mussolini in persona (lo stesso Mussolini che due anni dopo la nascita di Omnibus ne avrebbe decretato la soppressione per un articolo in cui Alberto Savinio scandalizzò i funzionari del ministero della Cultura popolare scrivendo che Giacomo Leopardi non era morto per la sua cagionevole salute ma per un furibondo attacco di diarrea dovuto a un’ingestione smodata di gelati). “Pannunzio ed io”, vi si legge ancora, “seguimmo un giorno Longanesi, lo accompagnammo fino a largo Argentina, ci fermammo a bere un caffè al bar Egidi, all’angolo di via del Sudario, salimmo una scala semibuia, entrammo in un appartamento luminoso che dava su corso Vittorio…”. E lì cominciò quella che Benedetti avrebbe in seguito chiamato “la lunga distrazione di cui sono rimasto prigioniero per la vita”. Insomma il giornalismo, il Benedetti giornalista.
Pare che il primo compito assegnato da Longanesi ai due giovani amici lucchesi fosse quello di aiutarlo a correggere i testi destinati alla pubblicazione. Longanesi si affacciava alla loro stanza, furioso: “Guardate che roba”, gridava, rovesciando pagine e pagine sul loro tavolino insieme alla raccomandazione di “essere esigenti”. E così, giorno dopo giorno, sera dopo sera, “senza preliminari trattative che prevedessero un qualsiasi compenso, Pannunzio ed io ci ritrovavamo a correggere, limare, smontare, rimontare articoli altrui, ad applicare una rigorosa punteggiatura, a consultare vocabolari per trovare il termine più rigido e proprio, a trasformare decine di ‘sentì’ in ‘udì’, di ‘dovette’ in ‘dové’, di ‘credette’ in ‘credé’. Ma anche a scovare ed eliminare una cacofonia, a cancellare senza pietà qualunque frase fatta, qualunque modo di dire frusto o non indispensabile, a eliminare sempre un ‘cosiddetto’, un ‘d’altronde’, un ‘d’altro canto’”.
Tutto qui? Certo che no, non è affatto tutto qui quello che Benedetti ha imparato lavorando a Omnibus con Longanesi e ha poi trasferito nei giornali che ha diretto. Tuttavia (stavo per dire “d’altro canto”), bisogna essere obiettivi, o almeno più obiettivi possibile. Se è vero, come sanno tutti gli alfabeti, che il padre dei grandi settimanali italiani di attualità si chiama Arrigo Benedetti, è anche vero che questo giovane aspirante romanziere introdotto per caso (lui diceva “per forza”) in un vecchio appartamento romano, ha poi firmato e messo nelle edicole alcune testate straordinarie solo grazie all’incontro con un partner d’eccezione, cioè con Leo Longanesi. E’ Longanesi a insegnargli che cos’è un giornale, a introdurlo nel mondo affascinante della grafica, a fargli riconoscere l’Arte maiuscola nel disegno dei caratteri bodoniani (da Giambattista Bodoni, incisore, tipografo ed editore di due secoli fa), a svelargli i segreti dell’equilibrio di una pagina. E’ da Longanesi che Benedetti apprende come si taglia una fotografia, come si titola un articolo, ma anche e soprattutto come si costruisce quell’articolo.
La collezione di Omnibus è nelle emeroteche, a disposizione di tutti. E tutti possono vedere nelle sue grandi pagine ingiallite non tanto la fronda antifascista o l’anticonformismo (il giornale, per esempio, si batté con marcata convinzione in favore del passo romano “simbolo della forza, la volontà, l’energia delle nuove generazioni littorie…”), quanto l’affermazione di un modello cui i periodici italiani di qualità avrebbero continuato ad attingere per i decenni successivi. E il modello è fatto soprattutto di firme, le grandi firme che, una volta finita la guerra, ritroveremo sulle nuove testate che si chiameranno il Mondo, l’Europeo, l’Espresso. Su Omnibus non manca proprio nessuno: oltre a Benedetti che fa il critico letterario e a Pannunzio che fa il critico cinematografico, ci sono già Elio Vittorini e Mario Soldati, Curzio Malaparte e Riccardo Bacchelli, Vitaliano Brancati ed Ercole Patti, Tommaso Landolfi e Alberto Savinio, Augusto Guerriero e Paolo Monelli, Corrado Alvaro e Alberto Moravia, senza dire di Gorresio, di Emanuelli, di Alicata, di Stille e di tanti altri. Oppure senza dire che il modello di giornale sul quale si è formato Arrigo Benedetti (insieme a Mario Pannunzio) è fatto anche, e forse soprattutto, di eleganza intellettuale, di accurata selezione dei temi, di rifiuto sistematico della corrività, di uso originale della fotografia come momento di comunicazione autonoma e compiuta. Ed è fatto di commenti satirici affidati al magico segno di pittori che si chiamano Amerigo Bartoli o Mino Maccari.
Torniamo allora in via Po numero 12, nei mesi e negli anni del regno di Arrigo Benedetti sull’Espresso. Lui può avere una matita in mano (non un lapis qualunque, una matita portamine con mina morbida numero 2) e farsi trovare al tavolo d’impaginazione, seduto sullo sgabello girevole a scarabocchiare pagine su pagine che più tardi qualcuno (a volte anch’io) dovrà tradurre in bella copia. L’elettronica ancora non c’era, a quei tempi, e i giornali si facevano così, artigianalmente. Se poi uno era un artigiano pignolo, esigente – o semplicemente si chiamava Benedetti – allora poteva succedere che nessuno dei mille caratteri di stampa presenti sul mercato gli sembrasse degno di venir usato per i titoli del settimanale da lui diretto. L’Espresso si presentava con due tipi di caratteri: un Bodoni per i titoli di argomento “lieve” (cultura, arte, spettacolo) e un Bastoni per quelli di argomento “greve” (politica, inchieste). Per i Bodoni non c’erano mai stati problemi, Benedetti si accontentava. Ma per i Bastoni, non ce n’era uno che gli piacesse (i Bastoni, per chi non lo sappia, sono caratteri dalle linee molto marcate, di spessore costante, senza l’occhio rotondo o le grazie dei bodoniani). E poiché l’unico Bastoni che il nostro direttore giudicasse accettabile era quello usato dal settimanale Time, per anni tutti i titoli dell’Espresso vennero composti a mano incollando con la Coccoina, lettera per lettera, le riproduzioni fotografiche dei caratteri del settimanale americano.
Chi non ha mai visto Arrigo Benedetti al tavolo d’impaginazione saprà anche molto su come si dirige un giornale, ma certamente non sa tutto. O almeno ha perso un bel po’. Non sa, per esempio, distinguere una pagina equilibrata da quella che non lo è; quella che è troppo pesante a destra e fragile a sinistra, o viceversa; che rispetta o tradisce la regola degli equilibri su tre gambe (rinuncio a spiegare, per pietà verso chi non la conosce). Non sa che le fotografie brutte non esistono, perché Benedetti, maneggiando degli speciali cerotti, riuscirà sempre a isolarne un particolare di fronte al quale nessuno potrà non dire “ma che bella foto”.
Poi c’erano i titoli. E sbalorditiva, nella redazione dell’Espresso, oltre alla rapidità con la quale il direttore risolveva un problema su cui l’autore dell’articolo (che aveva il dovere di sottoporgli una proposta) aveva speso inutilmente molto tempo, era la sua facilità di trovare sempre il titolo più giusto, più appropriato, più efficace, oppure più elegante, più divertente, spesso anche colto. Un’indagine sulla politica industriale della Fiat di Vittorio Valletta nei primi anni del boom: “Fiat voluntas mea”; la denuncia delle sofisticazioni alimentari che portavano sulle tavole degli italiani bottiglie di olio d’oliva ottenuto utilizzando il grasso di carogne animali: “L’asino in bottiglia”; l’inchiesta di Manlio Cancogni sulle grandi speculazioni immobiliari a Roma: “Cicicov in Campidoglio” . E se non tutti i lettori dell’Espresso conoscevano il personaggio di Gogol? Se non avevano mai letto “Le anime morte”? “Peggio per loro”, aveva risposto Benedetti a chi gli faceva queste domande la sera in cui il testo di Cancogni venne spedito alla tipografia. “I lettori però non sono scemi”, aveva aggiunto, “senza dubbio capiranno che questa città è piena di gente che, come Cicicov, usa la sua energia e la sua astuzia solo per scopi egoistici, perché né la scuola né la vita educano a sentimenti più nobili e morali. Forse noi possiamo aiutarli”. Poi aveva preso il soprabito e l’ombrello e ci aveva salutato: “Sono le sette, è l’ora del desinare, arrivederci”.
Sono passati molti anni, forse troppi. Di Arrigo Benedetti dovremmo parlare ancora a lungo, ricordare tutto quello che fin qui non ho ancora ricordato. Ma per farlo bisognerebbe essere vaccinati contro la nostalgia. E io non lo sono, sono fragile, ho una certa età. Vivendo a Roma, ogni volta che passo in auto davanti a quel portone di via Po, mi viene spontaneo di pensare ad altro per non lasciarmi travolgere dalla tentazione di rivedere personaggi e scene di un teatro che ha avuto Arrigo Benedetti come regista e primattore (lo spettacolo, “Scuola di giornalismo”, tenne il cartellone otto anni). Per non sentirlo gridare quando si arrabbiava con qualcuno che non recitava bene la sua parte (“I giornalisti, Cristo Dio, non devono andare a cena con i politici”); quando ci spiegava o rispiegava il nostro mestiere (“voi siete dei manovali”, diceva, “e ogni tasto che battete sulla vostra macchina da scrivere è un mattone che portate alla costruzione di una società migliore, più giusta”); quando ci perdonava sorridendo e magari ci abbracciava; quando ci faceva ridere, perché era anche molto spiritoso: il giorno in cui Paolo Milano, prestigioso critico letterario dell’Espresso, ebreo, anziano e noto in società per essere un po’ troppo disinvolto di mano con le signore che frequentavano i salotti culturali, giudicò negativamente il suo ultimo romanzo (“Il passo dei Longobardi”), Benedetti reagì a bocca stretta: “Non importa”, disse, “Milano non è il Vangelo, è solo l’Antico Tastamento”. E Mino Guerrini, altro indimenticabile giornalista che arrivava sempre in redazione racchiuso in zimarre e lunghe sciarpe pappagallesche, per lui era “il pervestito”.
La chiarezza, la pulizia, il rigore, il fascino del suo sapere e della sua severità pietosa. Ci manca molto tutto questo. Ci manca ogni mattina quando recitiamo le nostre orazioni sfogliando giornali sempre più strombazzanti e sempre meno utili. Ci manca ogni sera, ogni notte, quando il nostro dormicchiare davanti a una tv viene brutalmente strapazzato dalle grida improvvise di avvoltoi che si sovrappongono una all’altra. Senza neppure darci modo di capire di che avvoltoio si tratta.
di Carlo Gregoretti
Il Foglio sportivo - in corpore sano