C'eravamo tanto amati
Perché tra sinistra e popolo sembra tutto finito
Diciamo una verità scomoda: il popolo non ama la sinistra. Anzi, gli sta abbastanza antipatica. Del resto neppure la sinistra ama così tanto il popolo e i poveri. Sia chiaro: per poveri non si intendono i mendicanti, i disperati e col termine di popolo non ci si riferisce agli operai o ai lavoratori sindacalizzati. Quando parliamo di popolo pensiamo a quella famiglia che all’Autogrill si ingozza di panini, parla con un tono di voce insopportabile e non risparmia qualche scappellotto ai bambini.
Diciamo una verità scomoda: il popolo non ama la sinistra. Anzi, gli sta abbastanza antipatica. Del resto neppure la sinistra ama così tanto il popolo e i poveri. Sia chiaro: per poveri non si intendono i mendicanti, i disperati e col termine di popolo non ci si riferisce agli operai o ai lavoratori sindacalizzati. Quando parliamo di popolo pensiamo a quella famiglia che all’Autogrill si ingozza di panini, parla con un tono di voce insopportabile e non risparmia qualche scappellotto ai bambini. A quei giovinastri che tengono l’autoradio a tutto volume e se ne sbattono del fracasso che provocano. Alle donne con la busta della spesa che sgomitano e smoccolano in autobus. A tutti quelli che vanno al cinema solo a Natale, forse neppure, e non sanno fare alcuna distinzione fra il gusto dell’aspirina e quello del tartufo.
Ai tanti che bevono il vino meno costoso del supermercato e non lo trovano così diverso dal Barolo più raffinato. Che leggono meno di un libro all’anno – o che non leggono affatto – e si fanno prestare il giornale dal vicino solo per sfogliare le pagine sportive. “Popolo” sono le donne che tengono la televisione accesa tutto il giorno, le ragazze che aspirano al top leopardato, i ragazzi che passano la notte con il telefonino acceso e due birre, la casalinga che strilla al mercato perché l’hanno fregata sul peso della verdura. Lo incontriamo questo popolo e ci pare cafone, maleducato, aggressivo, malvestito. Sgomita e strilla, rubacchia allo stato quando può, non rispetta le file, si arrangia in tutti i modi, anche non sempre legittimi, e tira avanti. I poveri poi – si sa – spesso non sono buoni e qualche volta appaiono anche poco intelligenti.
Per questo la sinistra non li sopporta e cerca di dimenticarli. O meglio, li dimentica fino alle elezioni quando si accorge che “il popolo” non vota più per lei. Che si è rotto qualcosa, e questo ha ripercussioni anche sui consensi.
La straordinaria affermazione nei sondaggi di Marine Le Pen, leader del Front national, a spese dei socialisti francesi e nei luoghi dove erano più forti, ha fatto gridare all’allarme, com’era prevedibile. Ma è solo l’ultimo caso dei tanti che si sono susseguiti in questi anni di spostamento, quasi repentino, dei voti. In Italia la sinistra ha cominciato ad accusare il colpo negli anni Novanta, quando scoprì all’improvviso che gli operai del nord, addirittura anche quelli iscritti alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil, votavano Lega. C’era da riflettere e molto, ma non mi pare che in questi venti anni sia stato fatto. E infatti, alle ultime elezioni politiche, nuovo sbigottimento. Si predicava il cambiamento ma il primo partito del voto operaio non è stato il Pd, bensì il Movimento cinque stelle, seguito dal Pdl (primo fra le casalinghe: anche loro popolo, eccome) mentre al Pd è andato solo il terzo posto.
I voti fuggiti via sono però solo la conseguenza, una delle conseguenze, di questa reciproca antipatia, ciò che la rende evidente. E’ difficile pensare di essere rappresentato da chi ti sta antipatico e che – lo senti – nutre per te un malcelato disprezzo.
I motivi, quelli veri e profondi, sono altri. In un famoso libro del 2004, più volte aggiornato e tradotto in francese con il titolo “Perché i poveri votano a destra” (in originale “What’s the Matter with Kansas?”), ne ha parlato l’americano Thomas Frank, analista e collaboratore del Monde Diplomatique e di Harper’s Magazine. La sua idea è che negli ultimi decenni il populismo di sinistra rooseveltiano, egualitario, capace di conquistare gli animi, si è trasformato in un populismo di destra fondato sulla paura di tanti di perdere anche quei pochi vantaggi che avevano conquistato e che appaiono insidiati da altri più poveri di loro. Frank fa un’analisi del fenomeno negli Stati Uniti dove la distinzione e l’antipatia fra liberal e popolo sembra netta e la spaccatura è chiara come il sole. L’America da un pezzo è divisa in due, c’è addirittura chi parla di due Americhe: da una parte quella “normale” detta anche “profonda”, che ama la famiglia, crede nei valori della tradizione, omaggia la bandiera a stelle e strisce, dipende dalla tv e dallo junk food; dall’altra ci sono i progressisti, gli intellettuali che abitano sulla costa e che con i primi non hanno nulla a che fare perché trovano che hanno gusti volgari, non leggono, non vanno al cinema e non conoscono buoni ristoranti. Le due parti si riconoscono anche da lontano e si evitano. Thomas Frank ha scritto il suo libro dopo aver scoperto che nella contea più povera degli Stati Uniti Bush aveva ricevuto l’ottanta per cento dei voti. “Come si fa a votare per un repubblicano quando almeno una volta nella vita si è lavorato per un padrone?”, gli ha chiesto un amico, ovviamente di sinistra. E lo scrittore, come molti politici, sociologi, osservatori della sinistra europea ha spiegato il fenomeno a partire dalla “struttura”: la scomparsa delle grandi fabbriche, la crisi verticale dei sindacati, la fine delle sicurezze che derivavano dal lavoro. A tutto questo vanno affiancate le nuove proposte di sicurezza che la destra ha riproposto con nuovo vigore: quelle fondate sulla tradizione, sulla difesa di valori ampiamente riconosciuti e sulla lotta contro coloro che vogliono mettere in crisi l’identità che su questi valori si fonda, che sostengono, per esempio, l’aborto o il matrimonio gay.
Le analisi sulle modifiche della struttura e le conseguenti modifiche sociali sono sicuramente importanti, e si potrebbero aggiungere le considerazioni su quello che ha rappresentato contemporaneamente la fine del comunismo e della identità fra partiti comunisti e popolo. Ma rispondono solo in parte alla domanda di fondo sul perché la sinistra è antipatica ai poveri e perché i poveri la guardano con sospetto e disprezzo. Si può anche perdere la propria base sociale tradizionale per molti importanti motivi, economici e legati agli inevitabili cambiamenti della modernità, e si possono perfino perdere voti ed essere una minoranza. Ma si può rimanere interessanti, stimabili, stimolanti, attraenti. E invece questo non è accaduto.
Con una differenza fra i due atteggiamenti antipatizzanti, quello del popolo verso la sinistra e quello reciproco. Mentre nei poveri l’antipatia provoca distacco e disprezzo, i progressisti per difendere la loro identità e la loro stessa ragione sociale, pretendono di aiutarli e di rappresentarli, di fornire loro le basi di una emancipazione sociale. Devono, quindi, almeno fingere di amarli. E infatti ci provano, ma non ci riescono. E non solo in un’America che, si sa, ama dividere con qualche semplificazione e giudicare rozzamente, ma anche nella più raffinata Europa e persino in quei paesi culturalmente lontani dall’una e dagli altri. Possiamo dire, insomma, che la sinistra con le sue élite intellettuali e i suoi gruppi dirigenti in questi anni è riuscita ad apparire veramente antipatica.
Ci è riuscita perché l’immagine che ha costruito di sé, quella con la quale viene identificata, è ritenuta imbrogliona, bugiarda, ipocrita. Forse l’immagine non corrisponde del tutto alla realtà, ma su quella realtà vince. I progressisti – così si pensa – parlano dei poveri ma vivono da ricchi. Propongono di abolire il privilegio, ma sono privilegiati. Vogliono essere vicini al popolo, ma non lo conoscono. Nella società occupano la parte “alta”, che guarda al “basso” ma non vi entra in contatto. In gran parte, insomma, offrono di sé un’immagine radical chic. Questo termine e questa accusa riassumono bene i motivi dell’antipatia per la sinistra. Per radical chic – dice la Treccani – si intende “ironicamente” il “borghese che, per moda o convenienza, professa tendenze politiche radicali di sinistra, con atteggiamento fortemente snobistico e contrario al proprio ceto di appartenenza”.
Definizione giusta, ma non esaustiva, perché su questa figura si possono dire molte altre cose. Il radical chic finge di disprezzare il denaro e il modo in cui la maggior parte della gente se lo procaccia, ma lo guadagna nello stesso modo. E’ convinto della propria superiorità culturale e morale, è noiosamente ricercato nei gusti e volutamente provocatorio nelle affermazioni, ha atteggiamenti fintamente modesti. Un tipo così non può essere simpatico. Ne parlava lo scrittore Tom Wolfe nel famoso articolo, poi divenuto libro, apparso nel giugno del 1970 sul New York Magazine. Si intitolava appunto “Radical chic” e parlava della moda dilagante fra gli intellettuali newyorchesi, ricchi, ricchissimi e importanti, di ospitare nei loro salotti i rivoluzionari dell’epoca, dalle Pantere Nere ai pacifisti, agli hippie di tutti i generi, per mostrare in questo modo il proprio anticonformismo e la propria non adesione al sistema. Wolfe descrive con eccezionale vivacità e veridicità i salotti, le cene, gli inviti all’insegna di “Invita-una-Pantera-Nera-al-Cocktail”. Lo scandalo fu grande: mai prima di allora il progressismo dei ricchi e dei famosi era stato preso in giro con tanta ferocia.
Dal libro di Wolfe sono passati oltre quarant’anni e il fenomeno, in parte modificato, si è esteso.
Non ci sono più i rivoluzionari da invitare a cena nelle grandi case della Milano bene e neppure chi, come Giangiacomo Feltrinelli, prese tutto così sul serio da morire su un traliccio dell’alta tensione. Oggi altri sono i tratti distintivi del radicalismo chic, altri i contenuti che convivono con l’agio sociale e l’osmosi con il potere. Ma suscitano la stessa antipatia e si identificano, ahimè sempre di più, con la sinistra. I radical chic sono diventati antipatici a livello planetario. Non sono certo amati in Francia, dove sono la cosiddetta “gauche caviar”, né in Germania dove, con disprezzo teutonico vengono definiti “Toskanafraktion” (pare che i progressisti di quelle parti amino la Toscana). L’Irlanda benevolmente li addita come “smoked salmon socialist”, mentre in Svezia sono la “rödvinsvänster”, sinistra del vino rosso, in quel paese raro e raffinato.
L’elenco potrebbe continuare, ma quel che stupisce è l’esistenza di una definizione per questa sinistra anche in Brasile che ha la sua “esquerda festiva”, o in Cile dove i nostri radical chic li additano come “red set”, e addirittura in Grecia. La quale, fra tutti i guai di cui soffre, può annoverare la sua canonica “aristerà tu saloniù”, sinistra da salotto.
Per amore di giustizia dobbiamo dire a questo punto che la sinistra non è formata solo da radical chic. E che la destra, accusando la sinistra, tutta la sinistra, di radicalismo chic, dà spesso dimostrazione di volgarità e strumentalismo. Per averne un esempio, basta ricordare il precursore di questo atteggiamento che oggi è stato ereditato da parte consistente del centrodestra. Negli anni Settanta, Indro Montanelli scriveva a Camilla Cederna, che allora indagava sulla strage di piazza Fontana, parole a dir poco volgari, cavalcando l’accusa che poi gran parte della destra avrebbe rivolto alla sinistra: “Ti sei innamorata – le scrisse – dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola ‘amore’ si dia il suo significato cristiano di fratellanza… Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga”.
Ma torniamo all’oggi. Non è dell’antipatia della destra nei confronti della sinistra di cui ci vogliamo occupare, né della immagine che da Montanelli a Brunetta (che, ben conoscendo il popolo, pensa di sputtanare in diretta i giornalisti televisivi che sono di sinistra con l’accusa di guadagnare troppo) si tende a dare di questa. Ognuno nella battaglia politica usa gli strumenti, anche intellettuali, che possiede. Quello di cui la sinistra dovrebbe preoccuparsi è che questa immagine è diffusamente penetrata nel popolo. E la penalizza non poco.
Sono proprio tutti antipatici? Pare di sì, ma in modo diverso. La “gauche caviar” francese, per esempio, ha una sua antipatia che deriva da una laïcité irrispettosa sia del velo che della croce. Oggi possiamo dire che gli italiani aggiungono due caratteristiche specifiche: sono piagnoni e manettari. Fra i nostri radical chic lamentarsi va di moda, anzi è l’ultima moda. Non che motivi di lagnanza in questo disastrato paese non ce ne siano, ma questi antipatici – proprio loro – non hanno quasi nessun motivo di compiangersi. In gran parte occupano posti di lavoro di prestigio, hanno redditi medio alti, sono egemoni nei luoghi della cultura, continuano a permettersi quelli che oggi sono i veri privilegi, perfino maggiori del denaro: una vita che può non essere contaminata dalla volgarità, dalla grossolanità, dallo stress a cui è sottoposta la gente cosiddetta normale, cioè il popolo e i poveri. I ristoranti dove il cibo è ricercato, il cinema, le buone letture, le conoscenze interessanti, le scuole d’élite per i figli, le vacanze, la grande forza che deriva dalla consapevolezza di vivere al centro e non alla periferia del mondo.
Ma si sa, oggi i poveri stanno male. La crisi li ha colpiti duramente. E se nell’America degli anni Settanta, per essere di sinistra, si doveva invitare a cena un rappresentante dei Black Panter, oggi per dimostrare solidarietà e unità con il popolo ci si lamenta con lui e più di lui. Si aggiungono lagnanze del tutto ingiustificate a quelle di chi se la passa male davvero. In questo modo gli “champagne socialist” (questo è il nome inglese) si mettono a posto la coscienza: nella crisi tutti soffriamo insieme. Ma non è così. E il popolo non la beve. Se sentissero i commenti ai loro piagnistei ne uscirebbero tramortiti. Se osservassero bene gli sguardi di coloro a cui vorrebbero mostrare solidarietà, tacerebbero immediatamente e cambierebbero strada. Lamentarsi perché è aumentata l’Imu sulle seconde e sulle terze case, o sono saliti i prezzi dei ristoranti, di fronte a chi non si permette neppure una pizza suona irrispettoso, oltre che, naturalmente, ipocrita e antipatico.
E poi il “radikal elegance” (definizione norvegese) nostrano è tendenzialmente “manettaro”, tende a pensare che tutti i problemi si possano risolvere con un po’ più di severità e di carcere. Pensa che la moralità possa essere ristabilita con atti forti di distinzione, alzando alte le bandiere del giusto, del legittimo, impugnando la lotta per le regole con veemenza attraverso la continua affermazione delle manette. Il carcere per i nostri radical chic è una panacea che può curare tutti i mali, compresi quelli che derivano da culture radicate e purtroppo assai dure da estirpare. Anche questo è un tentativo goffo e disperato di riconquistare un rapporto col popolo. Si pensa che questa sia la via più facile: i poveri, si sa, sono rozzi e anche esasperati, quindi non possono non seguire chi propone punizioni esemplari, chi addita colpevoli sicuri, chi si mostra deciso nella condanna della pubblica immoralità.
Naturalmente anche questa è un’illusione. Forse il popolo segue, forse si mostra veemente e arrabbiato, ma continua a non amarli. Perché non c’è nulla di peggio ai suoi occhi dei moralisti e dei paladini della legge che poi sono i primi a preferire le vie del compromesso, della raccomandazione, del sotterfugio.
In questi anni, in quanti scandali si sono trovati politici della sinistra? In quante cronache di carriere universitarie abbiamo letto di moglie e figli di baroni rossi che hanno fatto carriera? Il popolo evidentemente – è desolante ma è così – preferisce i malfattori sinceri, i ricchi che ostentano la loro ricchezza, gli evasori di grandi fortune che li fanno sentire meno colpevoli della loro piccola evasione, gli imbroglioni dichiarati. Ma se è così quando e con quali gesti la sinistra si porrà il problema di spezzare una sua immagine tanto radicalmente odiata?
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