Nemici chiassosi e silenziosi

Claudio Cerasa

Scissioni, minacce, congressi, divorzi, accordi, dimissioni, sfiducie, attacchi, battaglie, conflitti, pacificazioni, numeri, contro numeri e soprattutto botte da orbi: “Matteo è un superficiale! Matteo è un ignorante!”. Le notizie arrivate a Palazzo Vecchio negli ultimi tre giorni – invettiva dalemiana compresa – sono state accolte da Renzi con lo spirito di chi ormai sa qual è il problema di questa delicata stagione politica. Cioè dimostrare di sapersi muovere, con l’atteggiamento di chi ha compreso che gli ostacoli più insidiosi all’orizzonte non sono solo quelli classici e ben distinguibili sul terreno di gioco, ma sono soprattutto quelli invisibili.

    Scissioni, minacce, congressi, divorzi, accordi, dimissioni, sfiducie, attacchi, battaglie, conflitti, pacificazioni, numeri, contro numeri e soprattutto botte da orbi: “Matteo è un superficiale! Matteo è un ignorante!”. Le notizie arrivate a Palazzo Vecchio negli ultimi tre giorni – invettiva dalemiana compresa – sono state accolte da Renzi con lo spirito di chi ormai sa qual è il problema di questa delicata stagione politica. Cioè dimostrare di sapersi muovere, con l’atteggiamento di chi ha compreso che gli ostacoli più insidiosi all’orizzonte non sono solo quelli classici e ben distinguibili sul terreno di gioco, ma sono soprattutto quelli invisibili: quelli che promettono di comparire da un momento all’altro lungo il complicato percorso che separa il sindaco della Leopolda dalle prossime elezioni. Uno dirà: complicato? E come fa a essere complicato il percorso di un ragazzo di trentotto anni che un anno dopo aver perso le primarie per la premiership sta per vincere, probabilmente in modo trionfale, le primarie per diventare segretario di un partito che fino a un anno fa lo considerava grosso modo – ricordate? – come un cavallo di Troia del berlusconismo, come un maledetto fascistoide, come un ragazzino presuntuoso, come un pischelletto senza idee, come un battutista senza stoffa o, nei migliori dei casi, come una meteora senza futuro, e che ora invece lo considera la persona giusta a cui affidare le chiavi di casa? I numeri del congresso (Renzi è arrivato primo nella fase riservata agli iscritti, 46,7 per cento contro i 38,4 di Cuperlo), la carta d’identità del sindaco (Berlusconi, tanto per ricordarlo, ha più o meno la stessa età del papà di Renzi), la fragilità di questo governo (la cui precarietà, a dire il vero, deriva da fattori che si trovano più all’interno che all’esterno dell’esecutivo) e l’inconsistenza palpabile degli avversari nel partito (D’Alema a parte, diciamo) in teoria potrebbero essere indizi sufficienti a immaginare la strada del sindaco come se fosse all’inizio di una lunga discesa, pronto cioè a farsi spingere verso il traguardo dalla semplice forza d’inerzia. Eppure nella marcia di Renzi esiste un discreto numero di mine anti rottamazione già perfettamente distinguibili sul terreno, e che a partire dal prossimo 8 dicembre, giorno di primarie, potrebbero complicare la corsa solitaria del rottamatore fiorentino. Mine visibili, come quelle dalemiane, e mine invisibili, come tutte le altre. Vediamo.

    Effetto D’Alema. Anche ieri mattina, intervenendo ad Agorà, Massimo D’Alema ha dimostrato di essere il portavoce più attivo nel “partito della resistenza democratica”, nonché il più visibile, praticamente la punta dell’iceberg. Il vecchio ayatollah naturalmente sa che questa volta la resistenza contro il sindaco non potrà essere combattuta confrontando il numero di truppe schierate sul campo (non c’è gara), ma potrà essere combattuta invece servendosi di un meccanismo più sottile, simile a quello di successo adottato nel 2005 dall’allora capo della Cei, Camillo Ruini, per far saltare il referendum sulla legge 40: l’astensionismo. Non che D’Alema stia facendo scientificamente campagna contro le primarie – anche se nel Pd, diciamo, qualcuno lo pensa. Ma in una certa misura non c’è dubbio che l’ex presidente del Consiglio si considererebbe soddisfatto se la vittoria di Renzi fosse mutilata da una bassa affluenza e dal mancato raggiungimento di un numero di elettori tale da escludere un flop delle primarie. La soglia minima per Renzi è quota due milioni e qualsiasi risultato sotto questa cifra rischia di essere considerato un disastro, visto che nel 2009 alle primarie tra Bersani e Franceschini parteciparono qualcosa come tre milioni di elettori. Il fatto che il numero di iscritti del Pd che ha espresso il voto a questo congresso (300 mila persone) sia circa la metà del numero di iscritti che ha votato nel 2009 (furono 466.573) e sia grosso modo lo stesso numero dei partecipanti al congresso dei Ds del 2007 è naturalmente un clamoroso campanello d’allarme. E in fondo la vera scissione a cui allude Max non è quella che si verrebbe a creare nell’apparato Pd in caso di vittoria di Renzi, ma è appunto quella più silenziosa, evocata dallo stesso D’Alema in una formidabile intervista rilasciata giovedì all’Unità: “Ma no, nessuna scissione. La gente se ne può andare a casa anche silenziosamente”.

    Ad avere invece avviato una sorta di resistenza armata contro l’inarrestabile cavalcata del barbaro di Firenze non è soltanto D’Alema, ma anche quella parte di Pd che si riconosce in modo fedele nel mondo sindacale e che difficilmente potrà ignorare le parole dell’ayatollah Susanna, in arte Camusso, che pochi giorni fa ha clamorosamente annunciato che l’8 dicembre, anche lei, come Prodi, non voterà alle primarie, portando dunque altra acqua al mulino di chi sogna di delegittimare i gazebo del Pd.
    Alla resistenza di D’Alema e Camusso vanno poi aggiunti i dati arrivati ieri dal primo turno del congresso del Pd. Renzi ha vinto la prima fase con otto punti di distacco sul secondo arrivato, Gianni Cuperlo, ma il dato che viene maliziosamente valorizzato dal fronte anti renziano è che più della metà degli iscritti non si riconosce in Renzi e che in questo senso per il sindaco non sarà una passeggiata fare il segretario del Pd con metà dell’apparato che non lotta insieme a lui (“Renzi – parole di D’Alema – non potrà pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia”). In questo quadro ovviamente la battaglia contro Renzi punta sul fattore tempo, punta sulla durata del governo, punta sul logoramento renziano e punta su uno scenario che oggi può apparire fantapolitico, ma che chiunque negli ultimi tempi abbia fatto due passi dalle parti di largo del Nazareno considera quasi scontato: far durare il governo Letta il più possibile, usurare Renzi, arrivare al 2015 con una “nuova voglia di sinistra” e puntare un domani sulla candidatura dell’ultimo figlio dell’apparato Pd: Nicola Zingaretti.

    Effetto Alfano. La detonazione del centrodestra innescata dalla scissione voluta da Angelino Alfano, nonostante sia stata interpretata da alcuni giornaloni come fosse il primo e risolutivo atto formale della nota smacchiatura di Silvio Berlusconi, non si può certo dire che sia una buona notizia per tutte le famose sentinelle del bipolarismo, e in primis il sindaco di Firenze. Renzi, si sa, nonostante la professione di fede al governo Letta – ripetuta con una certa malizia domenica sera nel salotto di Fabio Fazio, “il segretario del Pd e il presidente del Consiglio nel 2014 saranno buoni alleati”, nel 2014, non un secondo di più – ha confidato ai suoi collaboratori che un minuto dopo aver ultimato le pratiche per l’elezione alla segreteria del Pd non avrà problemi a prendersi a sportellate con il caro amico Letta. E in questo senso è noto che il suo obiettivo resta quello (a) di provare ad andare a votare prima del semestre europeo, e (b) di inchiodare il caro amico Letta alla promessa fatta il pomeriggio del 2 ottobre a Palazzo Chigi: tranquillo Matteo, questo governo durerà il tempo del semestre europeo, e al massimo il tempo per far partire l’Expo, e poi si vota. Previsioni di questi tempi è impossibile farne, d’accordo, ma di sicuro la certezza matematica che Letta oggi possa governare anche senza i voti di Berlusconi forse è una cattiva notizia per chi ha a cuore il bipolarismo, ed è invece una buona notizia per il governo, che a meno di sorprese clamorose e a meno di nascite di correnti diversamente alfaniane nel partito di Alfano può contare su una maggioranza parlamentare che teoricamente, come in fondo chiede Giorgio Napolitano (“Questo governo non è a scadenza”), potrebbe andare avanti chissà per quanto. La scissione controllata del centrodestra, inoltre, immette il percorso di Renzi su un binario complicato da gestire. Finora la forza del sindaco, anche nei suoi rapporti con Letta, è stata quella di essere l’oppositore unico del governo e di giocarsi con Grillo il ruolo di Fustigatore delle larghe intese. L’uscita (annunciata) di Berlusconi dalla maggioranza schiaccia invece Renzi sulle posizioni governative ed è evidente che dopo la conquista del Pd per il sindaco sarà chiaro qual è il bivio che si trova davanti: o staccare subito la spina al governo per non farsi cuocere a fuoco lento dalle piccole grandi intese; o accettare di diventare l’azionista di maggioranza del governo con il rischio di regalare voti (anche all’Europee) ai due nuovi alleati di fatto delle larghe intese alternative a quelle di governo: da un lato Grillo e dall’altro Berlusconi.

    Effetto Prodi. Romano Prodi, che come si sa ha tra le proprie caratteristiche quella di non portare mai rancore a nessuno, ha annunciato che l’8 dicembre non parteciperà alle primarie per eleggere il segretario del Pd. Al di là delle ragioni che hanno spinto il professore ad annunciare la sua diserzione ai gazebo, ragioni che naturalmente non sono legate al fatto che al Quirinale ci sia un presidente della Repubblica con un cognome che non finisce in “-rodi”, l’effetto Prodi che come una spada pende sopra la testa del Pd di Renzi è legato a due problemi precisi. Da un lato il dato sulla partecipazione alle prossime primarie (vedi anche effetto D’Alema) e dall’altra il filo (imprevedibile) che lega la storia di Renzi con quella del Prof. La scelta di Prodi di lanciare un sostanziale messaggio di disaffezione verso il mondo democratico ha di fatto creato un clima di delegittimazione delle primarie e l’effetto (non si sa quanto volontario) non potrà che essere quello di rendere viziato in partenza il risultato delle consultazioni democratiche. Renzi, in cuor suo, era convinto di poter ricevere invece un sostegno diretto o quantomeno indiretto da parte del professore bolognese e in una certa misura il suo “no, non voto per nessuno” indebolisce il sindaco di Firenze più di chiunque altro. Sia per ragioni legate al rischio, concreto, di bassa partecipazione. Sia perché il sindaco, da quel pomeriggio di aprile quando scelse di sponsorizzare la candidatura di Prodi al Quirinale, ha legato in modo forse fatale il suo nome a quello dell’ex presidente del Consiglio. Prodi, è noto, è sempre stato l’unico della vecchia guardia dell’Ulivo che Renzi ha sempre difeso in modo coerente, ma dal momento stesso in cui il sindaco ha scelto di puntare sulla carta Romano al Quirinale si è innescato un meccanismo che ha allontanato il rottamatore dal mondo dei “delusi di centrodestra”; e che altrettanto automaticamente ha fatto perdere al segretario in pectore del Pd un po’ dello charme di politico capace di sedurre un elettorato diverso dal proprio. A giudicare dai sondaggi, in realtà, il gradimento di Renzi è sempre alto, è il più alto tra tutti i politici, ma paradossalmente la sua scalata al Pd se è vero che sta coincidendo con una crescita di consensi nel mondo democratico è anche vero che sta coincidendo con un crollo di consenso in tutto il resto del paese. E come è noto, e Bersani lo ha vissuto sulla sua pelle, per vincere le elezioni in Italia non basta piacere alla sinistra. Questioni di numeri, e ovviamente Renzi sa che più tardi si andrà a votare più alto sarà il rischio di cadere in una contraddizione simile a quella in cui cadde Bersani: molto popolare a sinistra, poco popolare nel paese.

    Il carro del vincitore. “Renzi non può fare il gianburrasca: ha avuto il sostegno di De Luca, di Bassolino, di Veltroni, di Fassino e di Franceschini. Alcuni per convinzioni altri per opportunità. Inoltre ha un grande sostegno da parte dei media e di vari poteri, da Carlo De Benedetti a Flavio Briatore. Sono curioso di vedere quali prezzi dovrà pagare a questo establishment”. Le parole piene di affetto consegnate ieri mattina (ancora) da D’Alema al sindaco di Firenze possono sembrare solo provocatorie, e dettate magari dalla delusione dell’ayatollah Massimo per essere sul punto di perdere il primo congresso della sua carriera politica, ma contengono alcuni ingredienti importanti di un problema che Renzi dovrà dimostrare di saper affrontare senza troppi giri di parole. Un problema che, per esempio, ai tempi di Veltroni l’ex segretario non riuscì a risolvere con tempismo: come scongiurare che la presenza massiccia di pezzi importanti dell’apparato sul proprio carro trasformi il Rottamatore dell’apparato nel nuovo simbolo dell’apparato? Renzi finora se l’è cavata con battute ad effetto – sul carro non si sale, il carro si spinge – e con provocazioni efficaci – “D’Alema pensa che se vinciamo noi distruggiamo la sinistra, dimenticando che l’hanno distrutta loro la sinistra” – ma la verità è che il sindaco sa che esiste solo un modo per tenere insieme tutti i pezzi del mosaico ed evitare che l’eccessivo affollamento sul carro si trasformi in una cessione di sovranità. E il modo ovviamente è solo quello: formare un collante attorno al tema del TTL, il Tutto Tranne le Larghe-intese, e tenere insieme i cocci del Pd promettendo di rottamare la grande coalizione. “La strategia degli avversari di Renzi – dice Giuseppe De Rita nel libro di Giorgio Dell’Arti, “Come sarà il 2014” – è quella, accostandoglisi, di togliergli identità. Alla fine tutti i fiumi portano al mare di Renzi e l’aria di tempesta che c’era prima è bella che evaporata. Ma il grande mare, come sappiamo, non lo controlla in realtà nessuno. Renzi prenderà in mano il partito, ma sarà circondato da gente non sua, gente salita a tutta velocità sul carro del vincitore. Sono quelli, come sai, che ti volteranno le spalle per primi oppure che ti tenderanno ogni sorta di trabocchetto”. Renzi naturalmente potrà anche promettere di rottamare l’apparato, di riscrivere le coordinate della sinistra, di far uscire il Pd dal medioevo, di uccidere le correnti. Ma più si andrà avanti con il tempo e più Renzi risulterà ambiguo nell’essere allo stesso tempo contro le larghe intese ma anche sostenitore delle larghe intese e più i signori delle tessere che hanno permesso al sindaco di vincere le primarie chiederanno il conto (senza AreaDem, per dire, corrente di Dario Franceschini, per Renzi sarebbe stato difficile battere Cuperlo già in questa prima fase congressuale). E così quando a Renzi verrà chiesto di saldare il debito, sarà complicato limitarsi a dire che sul carro non si sale ma che il carro si spinge tutti insieme. L’apparato, si sa, o si rottama subito oppure alla fine ti rottama lui. E se poi l’apparato è quello che ti aiuta a raggiungere numeri da sballo come è successo a Salerno, città del sindaco De Luca (2.566 voti a favore su 2.665 totali), è evidente che poi la rottamazione degli azionisti dell’apparato potrebbe risultare più difficile del previsto. Per credere, chiedere a Veltroni.

    Legge elettorale. Il vero nemico invisibile che forse minaccia la corsa solitaria di Renzi (persino più di D’Alema) è quello che si nasconde dietro il modello di legge elettorale che verrà suggerita dal governo per superare il porcellum. I tempi sono noti: giovedì la Consulta dovrà decidere se accettare o rigettare l’esame sulla costituzionalità della Legge Calderoli ed entro il tre dicembre si capirà se la Corte dichiarerà illegittimo o no il premio di maggioranza previsto dalla legge attuale. Renzi ha promesso che entro la fine del mese (entro il 20 addirittura) presenterà alla Camera la sua proposta, su “modello dei sindaci”, a cui sta lavorando il professor Roberto D’Alimonte (doppio turno di coalizione). E da anni ripete che un Pd a vocazione maggioritaria può vivere solo con una legge capace di favorire il bipolarismo e di disincentivare l’effetto spezzatino. Al di là poi delle possibilità concrete che una legge del genere possa passare (il doppio turno di coalizione è stato già bocciato la scorsa settimana in commissione affari costituzionali al Senato) il senso della battaglia di Renzi è chiara ed è una battaglia che il sindaco combatte contro i pilastri delle larghe intese: Giorgio Napolitano, Enrico Letta, Angelino Alfano. Per varie ragioni né il presidente della Repubblica, né il presidente del Consiglio, né il vicepremier sono fan sfegatati del maggioritario (anzi) e alla fine Renzi è convinto che gli azionisti di maggioranza della grande coalizione orienteranno la propria proposta su un modello proporzionale (specie poi se il nuovo partito di Alfano volesse davvero vivere di luce propria e specie poi se la Corte costituzionale dovesse esprimersi con severità sul premio di maggiorana del Porcellum). I tempi però, stando ad alcune indiscrezioni, potrebbero anche slittare, la Corte il tre dicembre potrebbe prendere tempo e lo stesso Enrico Letta, che in un primo momento era intenzionato a proporre una “legge ponte” per modificare preventivamente il Porcellum prima che questo fosse vivisezionato dalla Consulta, è intenzionato ad aspettare che a inizio dicembre la Camera approvi in quarta lettura il disegno di legge sull’istituzione del comitato per le riforme costituzionali ed elettorali prima di intervenire sulla materia. In caso di voto favorevole, Letta chiederà di affidare la pratica della Legge elettorale al comitato delle riforme e si terrà come carta estrema per non andare alle urne con il Porcellum la possibilità di tornare al Mattarellum, come d’altronde il presidente aveva promesso durante il suo discorso d’insediamento (“Permettetemi di esprimere a livello personale che certamente migliore della legge attuale sarebbe almeno il ripristino della legge elettorale precedente”). Un modello che Renzi considera non adatto a superare il rischio di ritrovarsi con nuove larghe intese e che il sindaco osserva con preoccupazione per le stesse ragioni spiegate domenica sul Sole 24 Ore dal professor D’Alimonte: con il Mattarellum non c’è maggioranza. Per questo Renzi su questo punto non mollerà, presenterà il suo “Matteollum”, e sarà proprio cavalcando la questione della legge elettorale che il sindaco di Firenze azionerà i cannoni per colpire l’amico Enrico un minuto dopo la conquista della segreteria del Pd. Il percorso per Renzi, dopo il risultato dei circoli di ieri, è ovviamente in discesa. Ma più andrà avanti questo governo più per il Rottamatore aumenteranno le possibilità di incontrare ostacoli sul proprio percorso.

    Il sindaco nasce come il principe dell’Adesso, come un centometrista di talento. Ritrovarsi nelle condizioni del maratoneta, con un percorso lungo da affrontare, potrebbe diventare un problema. Renzi lo sa e nelle prossime settimane la sua sfida sarà proprio questa: conquistare il Pd ed evitare che le lunghe attese per Renzi possano trasformarsi, semplicemente, in una auto rottamazione.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.