Perché Obama ha scelto questo momento per bacchettare Berlino
Inaugurato nel 1998, il 16esimo summit Unione europea-Cina si terrà a Pechino nei prossimi giorni. Come nelle attese, l’agenda, particolarmente fitta, copre la congiuntura economica mondiale, le prospettive di cooperazione in vari ambiti, anche ambientale, ma soprattutto il lancio dei negoziati per un trattato in materia di investimenti. Se finalizzato, il nuovo trattato rappresenterebbe il primo accordo negoziato da quando la materia è passata nel raggio di competenze della Ue con il Trattato di Lisbona nel 2009.
Inaugurato nel 1998, il 16esimo summit Unione europea-Cina si terrà a Pechino nei prossimi giorni. Come nelle attese, l’agenda, particolarmente fitta, copre la congiuntura economica mondiale, le prospettive di cooperazione in vari ambiti, anche ambientale, ma soprattutto il lancio dei negoziati per un trattato in materia di investimenti. Se finalizzato, il nuovo trattato rappresenterebbe il primo accordo negoziato da quando la materia è passata nel raggio di competenze della Ue con il Trattato di Lisbona nel 2009.
Tanto per farsi un’idea, nel 2012 le imprese europee hanno investito in Cina 10 miliardi di euro, un multiplo degli investimenti cinesi nella Ue, pari a 3,5 miliardi, nello stesso anno. Per quanto le cifre possano sembrare ragguardevoli in valore assoluto, la Cina costituisce solo il 2 per cento degli investimenti europei all’estero, una percentuale non dissimile di quella degli investimenti cinesi in Europa. Benché i flussi siano in aumento, entrambe le parti li considerano significativamente sottodimensionati rispetto all’intensità dei rapporti commerciali fra le due economie che sono passati da 4 miliardi nel 1978 a 432 miliardi di euro l’anno scorso. L’obiettivo, per la Ue, è di migliorare le opportunità di accesso all’enorme mercato in Asia facendo leva su un’accresciuta disponibilità di Pechino tesa a controbilanciare la mossa offensiva sferrata dall’Amministrazione Obama che punta a concludere in tempi brevi i negoziati per una grande area commerciale tra il Nordamerica e le economie asiatiche, esclusa la Cina.
Nella Ue, appare chiaro chi sia il beneficiario principale del crescente attivismo della Commissione in Cina: la Germania. La sua strategia è da tempo protesa a rafforzare i legami con le economie più dinamiche anche per compensare, ed eventualmente sganciarsi, dalla dipendenza commerciale con l’Eurozona. Nella misura in cui la Germania riducesse il peso delle sue esportazioni nei mercati dell’Eurozona, oggi pari all’incirca al 40 per cento delle sue esportazioni complessive, rafforzerebbe la sua capacità di imporre scelte e misure alle altre economie dell’area euro, senza doverne subire interamente i costi, in termini di minori esportazioni. Allo stesso tempo, la possibilità – da qualche anno – di finanziarsi a costi particolarmente bassi rispetto ai competitori nel resto dell’Eurozona, consente alle imprese tedesche di investire nell’ampliamento della propria capacità produttiva per far fronte alla domanda proveniente da nuovi mercati. In tal modo, un costo del capitale particolarmente basso e le accresciute economie di scala che derivano dall’accesso a tali mercati si combinano e producono un ulteriore rafforzamento della capacità competitiva del settore manifatturiero tedesco.
Mentre la Cina offre più di una sponda alle politiche neomercantiliste della Germania, le politiche commerciali tedesche, celate ora sotto il manto comunitario della Commissione, vengono seguite con maggiore attenzione a Washington da quando sono stati avviati i negoziati per l’area transatlantica di libero scambio. La preoccupazione della Casa Bianca è di concludere un accordo con l’Europa in cui le sue economie meridionali hanno perso vitalità in seguito all’interazione tra bassa competitività e politiche di compressione della domanda; mentre quelle settentrionali, assai più dinamiche, presentano sistematici avanzi di conto corrente che le rendono strutturalmente esportatrici nette.
Per l’anno in corso, il Fondo monetario internazionale prevede che la Germania conseguirà un avanzo corrente che, in rapporto al pil, sarà del 6 per cento, più del doppio del valore previsto per la Cina. Non si tratta di un valore isolato ma rappresenta una tendenza di fondo che si è rafforzata dopo l’introduzione della moneta unica. Di qui la comprensibile preoccupazione a Pennsylvania Avenue che, qualora si concludesse un accordo di grande respiro con la Ue, come nelle reali intenzioni del presidente, si finirebbe col facilitare l’accesso all’economia americana di un’economia mercantilista senza apprezzabili contropartite. Del resto, il presidente Obama aveva apertamente esplicitato tale preoccupazione nel colloquio bilaterale che aveva avuto con la cancelliera Angela Merkel all’indomani dell’ultimo summit del G8 pochi mesi fa. Da ciò discende la decisione di intensificare la pressione decidendo di sollevare la questione nel rapporto altamente politicizzato che il Tesoro americano redige periodicamente per il Congresso. In tale rapporto si è messa per la prima volta in rilievo la nota propensione strutturale dell’economia tedesca a essere esportatrice netta, profittando della moneta comune il cui tasso di cambio, in quanto media ponderata fra le economie dei paesi membri, non si muove al punto da neutralizzare gli squilibri nelle partite correnti di una sua economia, per quanto rilevante. Per questo a Washington esiste anche la tentazione di elaborare un piano B, cioè una versione minimalista dell’accordo, tanto per salvare la faccia qualora Berlino non si mostrasse ricettiva alle istanze dell’alleato. Se così fosse, il piano B avrebbe l’indesiderato effetto di spingere Obama a investire tutto il suo capitale politico nell’area transpacifica, proprio ciò che molti europei preferirebbero contenere.
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