Ma che silenzio c'è alla Cei
E’ durata appena un mese la proroga di monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei dal 2008. Ieri a mezzogiorno, è stata ufficializzata la sua nomina a vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno. E’ la prima volta dopo decenni che il segretario uscente non viene destinato a una sede cardinalizia. Basti pensare a Camillo Ruini promosso a vicario di Roma nel 1991, a Dionigi Tettamanzi eletto alla sede di Genova nel 1995, a Ennio Antonelli e Giuseppe Betori a quella di Firenze nel 2001 e 2008. Crociata rimarrà alla Cei “ancora per un poco”, finché il Papa non sceglierà il successore.
E’ durata appena un mese la proroga di monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei dal 2008. Ieri a mezzogiorno, è stata ufficializzata la sua nomina a vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno. E’ la prima volta dopo decenni che il segretario uscente non viene destinato a una sede cardinalizia. Basti pensare a Camillo Ruini promosso a vicario di Roma nel 1991, a Dionigi Tettamanzi eletto alla sede di Genova nel 1995, a Ennio Antonelli e Giuseppe Betori a quella di Firenze nel 2001 e 2008. Crociata rimarrà alla Cei “ancora per un poco”, finché il Papa non sceglierà il successore. E’ il primo passo di quel complesso processo di adeguamento della Conferenza episcopale italiana alla linea di Francesco, già delineata in modo chiaro durante la professione di fede che ha riunito i vescovi guidati da Angelo Bagnasco lo scorso maggio a Roma. Il Pontefice argentino vuole più collegialità, chiede che sia rafforzato il ruolo delle conferenze regionali “perché siano voce delle diverse realtà”, auspica la riduzione del numero delle diocesi – “Sono tante, il compito non è facile, ma andate avanti con il dialogo”, disse quel giorno nella basilica vaticana il Pontefice. In quel discorso, Francesco delineò i tratti di una nuova via da imboccare: meno burocrazia d’ufficio e più presenza in strada, in mezzo al popolo.
Il percorso indicato porterà alla revisione dello Statuto, con la possibilità che anche i vescovi italiani (come del resto fanno già i loro colleghi nel resto del mondo) abbiano in futuro il potere di eleggere i propri vertici, dal presidente al segretario. Entrambe le cariche, infatti, oggi sono di nomina papale, in virtù dello speciale rapporto che lega la Cei al Pontefice, vescovo di Roma e Primate d’Italia.
A decidere se sarà l’urna a designare la guida della Cei saranno i vescovi stessi, ma la svolta non è dietro l’angolo, ci vorrà almeno un anno prima di vedere qualche cambiamento concreto. Nel frattempo, l’episcopato italiano dovrà metabolizzare quel che è accaduto lo scorso marzo sotto le volte michelangiolesche della Cappella Sistina. Alberto Melloni, sul Corriere della Sera del 14 novembre scorso, parlava di vescovi “spaesati” che davanti alle parole e alle opere di Francesco “si celano pudicamente dietro la ripetizione di formule generiche”. Alcuni, secondo lo storico emiliano, sono addirittura “intimoriti dalla durezza con cui Bergoglio li vuole estranei alle beghe politiche”. E’ un ribaltamento della linea dell’ultimo ventennio.
La sensazione, come dice il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, è che “non sappiano interpretare il Papa”, il suo messaggio, i suoi desiderata. Gli esponenti di spicco ammantati di porpora sono – seppur con sfumature diverse – riconducibili all’ala conservatrice, non solo a quella ruiniana. C’è l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, che della Conferenza episcopale italiana fu segretario per sette anni; ci sono Angelo Scola e Angelo Bagnasco. E poi c’è il caso dei due vescovi che per prassi e tradizione avrebbero diritto al cappello cardinalizio, ma che sono rimasti fuori dagli ultimi due concistori di Benedetto XVI: l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia (vicino all’attuale presidente della Cei) e il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia (ruiniano). Possibile che nel già annunciato concistoro del prossimo febbraio i due nomi figurino nell’elenco che sarà steso da Francesco, ma nulla è certo e oltretevere c’è chi sussurra che potrebbe essere giunto il momento opportuno di tagliare anche le sedi cardinalizie italiane (troppe, se rapportate a quelle degli altri grandi paesi cattolici).
La base frammentata e silenziosa
La base degli oltre duecento vescovi, invece, è più frammentata. Quell’allineamento in parte insincero alla linea che per quasi un ventennio ha governato la chiesa italiana, è andato spegnendosi. Il problema, nota Magister, è che “nel frattempo non è stato elaborato un piano B”, non sanno che fare. Sono in attesa che dalla bussola di Santa Marta arrivi l’orientamento corretto. E nel frattempo limitano gli interventi, esitano, sono spettatori passivi delle adunate di massa in piazza San Pietro con Francesco e il suo gregge. Sembra quasi che il commissariamento sancito da Giovanni Paolo II a Loreto, nel 1985, continui ancora oggi che Wojtyla sta per diventare santo e Ruini da tempo non è più il numero uno della Cei: la maggioranza storicamente più riottosa ad allinearsi e d’orientamento più progressista preferisce stare in silenzio, quasi “sopportare”, scriveva Melloni. D’altronde, l’ultimo tentativo di andare oltre Ruini e oltre Loreto, finì male.
Era il 2006, e a Verona si celebrava il Convegno ecclesiale nazionale. La prolusione toccò al cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano e successore di Carlo Maria Martini sulla cattedra di Ambrogio. Un discorso, il suo, che partiva dalla parola d’ordine del primo convegno ecclesiale di Roma del 1976, “Tradurre il Concilio in italiano” e si sviluppava rievocando la difesa dell’assise ecumenica fatta a suo tempo da Paolo VI contro chi la accusava “di un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore”. Non fu un gran successo, e più che una prolusione che segnava la svolta sembrò ai più un discorso “generalista”. Qualcuno, in camera caritatis, confessò di aver anche sbadigliato.
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