Un po' di Kennedy lo volevo anch'io

Paola Peduzzi

Lo confesso: sono una “Kennedy junkie”. Se c’è scritto “Kennedy”, io leggo. Qualunque cosa. Con il cinquantesimo dell’assassinio di John Kennedy in arrivo (era il 22 novembre del 1963, venerdì è il gran giorno), sono quasi impazzita. Persino il mio direttore, che non tollera gli anniversari, men che meno questi che grondano buonismo e prevedibilità da ogni dove, ha avuto pietà di me, e ha lasciato che mi sfogassi. Ho addirittura letto i 101 tweet messi insieme dal morente Newsweek.

    Lo confesso: sono una “Kennedy junkie”. Se c’è scritto “Kennedy”, io leggo. Qualunque cosa. Con il cinquantesimo dell’assassinio di John Kennedy in arrivo (era il 22 novembre del 1963, venerdì è il gran giorno), sono quasi impazzita. Persino il mio direttore, che non tollera gli anniversari, men che meno questi che grondano buonismo e prevedibilità da ogni dove, ha avuto pietà di me, e ha lasciato che mi sfogassi. Ho addirittura letto i 101 tweet messi insieme dal morente Newsweek: mi vergognavo e leggevo, pensavo che questa modernità sta sfasciando anche i miti, i miei miti, pensa tu se si può ridurre i Kennedy a 101 cinguettii, e divoravo un tweet via l’altro.

    Digerisco qualsiasi cosa perché non mi sono mai davvero rassegnata all’idea che io non c’ero. Che io non ho un mio personale e presentabile ricordo di quando John Kennedy è stato assassinato. Che alla famosa domanda “dov’eri quando…?” io non posso rispondere. Il libro “Where were you? America Remembers the JFK Assassination” che mi sono scaricata compulsivamente su Kindle mentre ordinavo la copia cartacea, mi ha quasi ucciso: non ho mai letto tanti ricordi a ciglio asciutto messi in fila, le interviste sono meravigliose. Non so se mi riprenderò, è tutta la vita che mi tormento per il fatto che io non ho potuto mettermi la mano sulla bocca dallo sconcerto quando è stata data la notizia, che non ho potuto sciogliermi in lacrime al funerale, di fronte a quei bambini orfani e inconsapevoli nei loro cappottini azzurri impeccabili, di fronte a quella moglie così giovane e così vedova, di fronte a quella nazione che si univa lacrimevole e forte, consapevole.

    Per compensare quest’assenza inaccettabile (la mia), mi sono dedicata all’altra tragedia kennediana, quella della mia generazione: la morte di John John Kennedy, il bambino col cappotto azzurro che trascorse il suo terzo compleanno al funerale di papà, alzò la mano per salutare la bara e divenne il simbolo di un lutto e di una speranza. Era il 16 luglio del 1999. Vivevo in California, assieme a due ragazzi turchi che stavano quasi riuscendo a convincermi che noi italiani mangiamo la pasta cruda, che la cottura perfetta è la loro, cioè la pasta scotta, quando arrivò la notizia. L’aereo di John John era scomparso mentre volava verso Martha’s Vineyard, davanti a Cape Cod, l’isola in cui tutti erano sordi e poi non lo sono stati più, l’isola de “Lo squalo”, l’isola dei Kennedy. Mi sono messa davanti al televisore, sintonizzata sulla Cnn, e non mi sono più mossa. Non mi sono mai alzata, ho mangiato e dormito sul divano, piangendo e sentendomi a posto con le mie ossessioni: era la mia tragedia kennediana in tempo reale, non confrontabile, certo, ma ogni generazione ha la tragedia che si merita, non giudicateci, siamo tutti e da sempre diversamente sdraiati.

    Non mi sono mai distratta. Ho visto per ore riprese del mare. Soltanto mare visto dall’alto. Mare dove cercavano l’aerucolo svanito nel nulla. Mare azzurro. Mare senza nient’altro. Mare vuoto. Quando pure la Cnn s’è stufata della diretta, mi sono indignata, mi sono sfogata con i due turchi che mi guardavano come se venissi da un altro pianeta, e sono stata ancora lì sul divano ad aspettare la mia dose giornaliera di mare azzurro. John John era il mio pezzo di mito, era bellissimo e sfortunato, l’unico discendente non ambizioso (o almeno non ambizioso come gli altri) di una dinastia enorme in cui tutti si chiamano allo stesso modo, tanto più amabile della madre e della sorella, uno che voleva fare l’attore ma è stato costretto a studiare Legge, uno che s’è innamorato di Madonna e della “sirena a Manhattan” (Daryl Hannah), soprattutto uno che come passatempo ha fondato una rivista (cosa che lo rese irresistibilmente più sexy), George, che andava malissimo ma era superpatinato e supercool, e io me lo compravo a prezzi indicibili soltanto per avere sul comodino un po’ di Kennedy – e poi George è morto poco dopo John John, e ho pianto un’altra volta.

    ***
    Sono passati cinquant’anni da quel giorno a Dallas. Tre spari (di cui uno passato alla storia come la “pallottola magica”, ha una traiettoria che nemmeno gli autori di “Homeland” avrebbero potuto inventare, e sì che con le follie sono bravi), al primo colpo lo scatto di un agente dei servizi dall’auto nota come “Queen Mary”, superblindata e sempre piena di gente armata, altri due colpi, nove minuti per andare all’ospedale, trenta minuti per morire, ma per i medici era tecnicamente morto subito, il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy. Di fianco a lui c’è Jackie, illesa, con la testa sanguinante del marito in grembo, presente fin dentro alla rianimazione, consapevole del fatto che non c’è più vita, in quel corpo. La morte l’aveva vista soltanto tre mesi prima, Jackie, quando il figlio Patrick era nato prematuro ed era sopravvissuto soltanto quarantuno ore: il bebé aveva i polmoni piccoli, “lo sforzo per respirare di questo piccolo bimbo è stato troppo grande per il suo cuore”, c’era scritto nel comunicato ufficiale della morte. Troppo grande per il suo cuore: deve averlo pensato chissà quante volte, Jackie, che poi sarebbe diventata una signora dalle tante vite, molto dura e molto cinica, una moglie tradita e furiosa anche, ma che allora era soltanto una donna di trentaquattro anni, il cui primo figlio era nato morto, il cui ultimo figlio era vissuto poche ore e il cui marito le era morto ammazzato tra le braccia. Troppo grande per il suo cuore.

    A uccidere il presidente fu Lee Harvey Oswald, ex marine passato con i sovietici e poi rientrato negli Stati Uniti: è sopravvissuto due giorni all’arresto, poi è stato ucciso da Jack Ruby, proprietario di un locale notturno di Dallas che voleva vendicare la morte del presidente. Da quel momento il fardello dell’omicidio, delle inchieste, delle ricostruzioni, delle teorie del complotto è stato portato da Marina, la moglie di Oswald, che il giorno dell’omicidio stava allattando la piccola Rachel, che aveva cinque settimane e mangiava poco, forse non c’era abbastanza latte, e Marina era stanca, preoccupata e pallidissima. Quando le guardie bussarono alla sua porta, le fece entrare, disse che il fucile di suo marito stava in un posto preciso, avvolto in uno straccio, che in effetti era lì, solo che il fucile non c’era. Oggi Marina sostiene che suo marito non ha ucciso Kennedy, e che è stato una vittima di un grande e ben più complesso piano internazionale contro l’America. Ma allora molte delle dichiarazioni di Marina non fecero che peggiorare la situazione di Oswald: allora quella vita sconvolta nel giro di due giorni, con due bimbe piccole e l’aria da straniera, l’aria da sovietica, era troppo grande anche per il suo, di cuore.

    ***
    Jill Abramson, la direttrice del New York Times, è una “Kennedy junkie” come me, anzi molto oltre ovviamente, perché lei c’era, quando Kennedy è stato eletto e quando Kennedy è stato ucciso, e perché già allora si capiva che avrebbe potuto dirigere qualsiasi cosa, il New York Times mi sembra le vada quasi stretto. In occasione del cinquantesimo anniversario della morte di JFK, la Abramson ha fatto una breve chiacchierata con Sam Tanenhaus, intellettuale americano ora “writer at large” al New York Times. Nel video pubblicato sul sito, la Abramson tira fuori un diario kennediano creato da lei: appunti, foto, titoli di giornali su Kennedy, da quando è stato eletto presidente al suo assassinio. La Abramson aveva otto anni quando JFK è diventato presidente, e quel quadernone pieno di scotch, le pagine grandi e ruvide e ingiallite, è il suo primo esperimento di giornalismo, con “i pensieri di Jackie” e i ritagli sulla guerra in Vietnam. Nei suoi ricordi c’è tutto il fascino, tutto il mito, tutta la sorpresa di quel primo presidente-celebrità, con un sorriso che si allargava all’improvviso e da quel punto in poi poteva dire qualsiasi cosa, Kennedy, erano già tutti imbesuiti, come davanti alla sua fronte corrucciata, espressione di uno realmente preoccupato per le sorti del suo paese – e per la sorte di ognuno di noi, la mia, la tua, la nostra. E’ così che Kennedy è rimasto congelato nel nostro immaginario, per anni e anni, soprattutto grazie alle cure dei baby boomers, che su quella presidenza spaccata dall’assassinio hanno modellato la loro percezione del mondo (e ce l’hanno imposta, e noi spesso ce la siamo bevuta). Ora che il mito ci torna, sbattuto in faccia da un anniversario tondo tondo, è ricominciato il secondo tormentone legato a JFK: il “what if”, che cosa sarebbe accaduto se Kennedy non fosse stato ucciso a Dallas cinquant’anni fa? Jill Abramson ha pubblicato in questo senso il più bell’articolo di tutta questa  grande rimembranza. Sono stati scritti almeno quarantamila libri su Kennedy (e la Abramson ne possiede la gran parte, quando la telecamera li inquadra c’è da morire di invidia), ma quel che colpisce non è tanto il dettaglismo che la vita di JFK ha scatenato, quanto piuttosto “tutto quel che manca”: “Un doloroso sentimento rispetto a ‘quel che poteva essere’ impedisce di scrivere bene riguardo a Kennedy”, sostiene la Abramson. Ma c’è di più: c’è che JFK era enigmatico, e che non si riesce a fare un ritratto esaustivo della sua personalità e della sua presidenza perché la sua caratteristica prima era la “elusiveness”, un misto di evanescenza e irraggiungibilità: è così che, nell’ambiguità e nella vaghezza, il romanticismo ha vinto su tutto.

    La Abramson ricorda il reportage che Norman Mailer fece per Esquire alla convention democratica a Los Angeles, nel 1960, quella che nominò Kennedy: “Superman comes to the supermarket”, si intitolava. Mailer racconta la grazia e l’ironia di quell’uomo quarantatreenne che stava rubando il cuore all’America, ma dice anche che c’era un “distacco sfuggente in tutto quello che faceva. Non hai l’impressione che sia presente qui con tutto il suo peso e la sua mente”. Lo stesso Mailer non sa se “questa evanescenza va valorizzata, o se dobbiamo temerla. Si può trattare della forza di una sensibilità superiore o del distacco di un uomo che non è mai stato vero con se stesso”. Non abbiamo mai risolto quell’enigma, siamo stati travolti da Camelot e abbiamo smesso di interrogarci, modellando la nostra idea di un leader di sinistra su quell’ambiguità che non avevamo compreso – e il trucco poi s’è visto, ma l’abbiamo ignorato.

    ***
    Barack Obama è quanto di più magico e mitico l’America abbia prodotto dopo Kennedy. Ha fatto innamorare il suo paese fin dal primo momento in cui ha annunciato la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, con quel cappottone nel gelo di Springfield, la storia multiculturale, la pelle nera, il papà assente, le donne presentissime, soprattutto Michelle. Ha promesso il cambiamento, Obama, e non si poteva che credergli, perché quel change ce l’aveva scritto in faccia, sembrava gli fosse cucito addosso proprio come quella grazia aristocratica con cui Kennedy aveva tramortito rivali e detrattori. E poi è arrivata l’“elusiveness”, gelida come Obama, che dopo tanto calore e tanta empatia s’è rivelato un presidente calcolatore, cinico, insicuro, insulare addirittura (si fida solo di tre o quattro persone, altro che “team of rivals” di lincolniana memoria). Sembra strano, ma l’epopea simil-kennediana di Obama ci ha permesso di aprire gli occhi anche sul vero Kennedy, dopo decenni in cui toccare JFK era considerato un vezzo da estremisti di destra, un luogo comune becero e invidioso. A dire il vero ancora qualche giorno fa c’era un articolo sul magazine New Republic che difendeva Kennedy (come se ce ne fosse bisogno) dagli attacchi dei repubblicani che fin dal 1960 hanno cercato di creare un “liberal anathema” ricordando quando, ancora candidato, Kennedy disse: “I’m proud to say I’m a ‘liberal’”. Ma il tempo, e la storia, hanno cambiato la percezione di quell’essenza liberal, non soltanto nella dialettica dello scontro politico, ma anche nella sua natura, che sarebbe poi stata strattonata a seconda delle esigenze sia dai democratici sia dai conservatori (per non parlare di quel che è accaduto nelle sinistre europee, un pugno nello stomaco a parte alcune gloriose, e soprattutto britanniche, eccezioni). Il ridimensionamento con Obama sta arrivando in tempo reale.

    ***
    Secondo un sondaggio di Gallup, il 74 per cento degli americani pensa che Kennedy è considerato un presidente al di sopra della media, con una legacy “outstanding”: non c’è nessun presidente del Dopoguerra che goda di tanto credito. Peggy Noonan, oggi editorialista del Wall Street Journal entrata nella storia come speechwriter di Ronald Reagan, s’è chiesta come mai ancora oggi stiamo a perderci nel mito di Camelot, quando anche nei libri di storia, ormai, quel mito sta sfumando e i contorni di quella presidenza stanno prendendo la forma di una esperienza normale e non da “Superman” come scrisse Mailer nel 1960. Noonan fa l’elenco delle ragioni: c’entrano i baby boomers, di cui lei fa parte. La morte di Kennedy fu “il primo fatto centrale della nostra vita, per questo ancora ne leggiamo, ne parliamo, guardiamo ogni cosa riguardo a quella tragedia”. Per la generazione precedente fu tutt’un altro tipo di trauma. Noonan ricorda la conversazione tra il columnist Mary McGrory e il suo amico Pat Moynihan. McGrory disse: “Oh Pat, ci puoi credere che siamo al funerale di Jack Kennedy? Mi sembra che non potremo mai più ridere”. E Pat: “Rideremo ancora, ma non saremo più giovani”. La giovinezza perduta e quell’innamoramento istantaneo dopo la tragedia, innamoramento di una generazione, hanno alimentato il mito. Che ora è stato assalito dalla realtà, complice anche il confronto con quel che sta accadendo al nostro presidente del sogno, al nostro mago che ha perso la bacchetta – e forse non l’aveva mai avuta.

    ***
    Ma non tutto è comparabile, non tutto può tornare alla normalità. Camelot starà perdendo il suo fascino, ma ammettere confronti è piuttosto azzardato. Noonan finisce dicendo che ora viviamo in questo mondo, “non posso quasi credere che sono seduta al posto 6B del volo 2442 dell’American Airlines, Los Angeles-Dallas-Fort Worth, a poche miglia a ovest di Los Angeles, montagne e deserti sotto di noi, e io sto scrivendo sul mio iPad, e premerò un bottone e il mio direttore a New York in pochi secondi leggerà questo mio post sul sito del Wall Street Journal e anche voi lo leggerete. E’ una cosa che ancora oggi mi toglie il fiato. E’ ‘il tempo dei miracoli e dei desideri’. I bambini che nascono oggi penseranno a questi giorni come a Camelot”. Dev’essere che sono ossessionata da quel tempo di cui non sono stata protagonista, dev’essere che vivo di nostalgie anche più recenti, dev’essere che la delusione della “elusiveness” fa più male quando la vivi in diretta, sulla tua pelle, quando ti sei fidata di un sorriso in tv e hai dei figli che non sapevano quasi parlare ma già dicevano “Obama” (e non ho mai capito neanche bene perché: io sono clintoniana!). Dev’essere che sono di una generazione che non ha avuto la fortuna di avere un’identificazione precisa – né baby boomers né millennials, per dire – ma mi guardo intorno e di Camelot, in giro, non ne vedo nessuno.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi