La militanza di Gulliver
"Siamo nomadi, da vent’anni in balia dell’emergenza. Siamo la protezione civile della sinistra italiana”. Più di ogni analisi psicologica, di ogni ricostruzione del rapporto con l’eterno, ingombrante demiurgo di leadership tenui e rispettose del collettivo, Massimo D’Alema of course, sono queste poche righe nel pamphlet autobiografico del 2009 “Basta zercar”, a dare il senso e a spiegare la ratio della candidatura di Gianni Cuperlo alla segreteria del Pd e perfino della fisionomia pulp assunta dal congresso.
Cerasa Così Letta archivia il caso Cancellieri e lancia la sua sfida a Renzi e a Rep.
"Siamo nomadi, da vent’anni in balia dell’emergenza. Siamo la protezione civile della sinistra italiana”. Più di ogni analisi psicologica, di ogni ricostruzione del rapporto con l’eterno, ingombrante demiurgo di leadership tenui e rispettose del collettivo, Massimo D’Alema of course, sono queste poche righe nel pamphlet autobiografico del 2009 “Basta zercar”, a dare il senso e a spiegare la ratio della candidatura di Gianni Cuperlo alla segreteria del Pd e perfino della fisionomia pulp assunta dal congresso: duello finale tra visioni opposte del partito e della leadership nell’infuriare dei tesseramenti, delle accuse di imbrogli e fraudolenze varie, di un estenuante rinfacciarsi amicizie scandalose o impresentabili, Crisafulli a Enna, contro Iatì a Torino. E poi i cacicchi presenti o passati.
“Abbiamo brillato solo nell’arte dei traslochi. Da vent’anni sciogliamo e fondiamo sedi”, pubblicava Cuperlo mentre Berlusconi a Onna celebrava il 25 aprile, Veltroni si sfilava malinconico per l’insufficienza del suo 33 per cento alle elezioni politiche del 2008. E sembrava di sentire Ivano Fossati, “e di nuovo cambio casa / di nuovo cambiano le cose / di nuovo cambio luna e quartiere” (fu Cuperlo del resto a scegliere la “Canzone popolare” come inno dell’Ulivo prodiano). Seguiva, nel libro, l’elenco di simboli immobiliari e passaggi storici nelle differenze di metri quadri e significato politico: da Botteghe Oscure a via Nazionale, dal Nazareno al Loft e ritorno e ora chissà magari via da Roma, a Palazzo Vecchio. Così quando il 9 novembre, al teatro dell’Elfo di Milano, Cuperlo ha concluso la sua Leopolda dicendo che “il ventennio si chiude a destra, ma deve finire anche per noi” e che “la nottata sta per passare” e che “siamo noi l’alba” sembrava quello che non ne può più di fare scatoloni o vivere nei container, ma che suo malgrado deve raccogliere le forze per sopravvivere alla nuova calamità, l’estrema.
Il curriculum da esperto di emergenze è il profilo perfetto per l’emergenza massima dal punto di vista di quel gruppo rissoso, ma costretto alla convergenza – dalemiani, bersaniani, giovani turchi, parte dei lettiani – cui il noi allude: l’ascesa del renzismo, del “leaderismo solitario”, una malattia che, dal quel particolare punto di vista, minaccia non solo le quote residue del patto di sindacato ormai in frantumi, ma una generazione di mezzo “schiacciata” , ha detto Cuperlo all’Espresso, “dalla scarsa generosità dei fratelli maggiori e dalla famelica ambizione di quelli minori”.
“Cuperlo è un noi contro l’io di Renzi. E’ la bandiera del partito sconfitto e che si illude, al seguito dell’unico leader D’Alema, di sopravvivere”, osserva Arturo Parisi inventore dell’Ulivo e delle primarie oggi elettore dichiarato di Renzi. “Assalito dai pigmei democristiani, una miriade di politici abituati per storia o per formazione a operare individualmente e poi a fare mini accordi, il Gulliver postcomunista è finito legato. Per ora i pigmei hanno avuto la meglio sulla ditta. Sottolineo ‘per ora’, non sappiamo se la sconfitta sia definitiva”.
Cuperlo è l’incaricato della liberazione di Gulliver. O comunque, intanto, della sua sopravvivenza secondo le formule evergreen dell’antileaderismo: “Alcuni amici mi hanno chiesto”, come riassume Parisi. O il modello barchetta, “c’è la tempesta, sei tu il più indicato per fare il nocchiero”, come direbbe Bersani.
Con una variante non da poco: Bersani, e prima di lui Veltroni e prima ancora Prodi, si candidavano alla vittoria certa, D’Alema si è sempre vantato di non aver mai perso un congresso, questa volta invece il candidato alle primarie è un perdente sicuro o, autodefinizione, un “sicuro secondo”. Il suo obiettivo non è vincere, ma smontare la vittoria di Renzi. Rendergli friabile il terreno sotto i piedi, creare le premesse per l’erosione successiva attraverso la distinzione marcata fra primarie e circoli, elettori e iscritti. Due mondi, due partiti anzi tre contando anche i gruppi parlamentari altra realtà ostile, si è visto nel voto sul caso Cancellieri e prima sull’uomo democrat per l’Agcom. “Aspettate i circoli, aspettate e vedrete”, ha ripetuto per settimane Ugo Sposetti, custode materiale, attraverso apposita fondazione, di beni e simboli Ds. Fino al giorno del risultato finale, 38,4 per cento Cuperlo, 46,7 per cento Renzi ovvero la possibilità di mettere a verbale che “il sindaco non ha neppure il 50 per cento degli iscritti”.
“Se Renzi dovesse diventare segretario si troverà a gestire un partito che in buona parte dovrà convincere” ha detto Massimo D’Alema in una minacciosa intervista all’Unità, tante volte fosse rimasto qualche dubbio, ha aggiunto che “l’importante è che il risultato non sia plebiscitario, altrimenti c’è il rischio che una parte del Pd non si senta più nelle condizioni di viverci”. Buona sintesi del mandato e delle regole di ingaggio del candidato Cuperlo, il massimo della rupture generazionale possibile in quell’area: intellettuale, triestino e dunque immediatamente ascritto dalla ritrattistica alla cultura mitteleuropea, anche se in realtà si è laureato al Dams a Bologna, con una tesi sulla comunicazione.
“Un austromarxista” dice di lui Peppino Caldarola, dalemiano critico, direttore dell’Unità quando Cuperlo era nello staff di D’Alema, “un pupillo di Alfredo Reichlin”. Per tutti è un amante dei libri, del teatro, specie Eduardo, autoironico, schivo e anche timido. “Mi sono sempre identificato con Salieri e ho sempre trovato Mozart un giocherellone alla fine poco interessante” ha dichiarato con civetteria e sprezzo del pericolo Cuperlo intervistato da Marco Damilano. Non serve Mozart in effetti, per la committenza Salieri va più che bene. E la ritrosia alla leadership che ne dimostra la natura peccaminosa, rafforza per contrasto l’accusa tipica che la Struttura, (mai dire Apparato) rivolge a Renzi: voler trasformare il partito in “un taxi per Palazzo Chigi”. Meglio Salieri per suggerire numeri dei circoli alla mano anche semplicemente attraverso la costruzione del racconto congressuale, l’idea che il partito comunque vada non apparterrà mai del tutto a Renzi. Che il partito è un’altra cosa. Che Renzi al massimo potrà essere tollerato. “Vogliono far passare l’idea che sono due gare separate e che Renzi potrà vincerne solo una” osservava in tv il renziano Matteo Richetti avendo capito l’antifona. E allora benissimo la corsia laterale dell’antileader e la sua sprezzatura, il marxismo nel senso di Groucho (il solito “non vorrei mai far parte di un club che accettasse fra i suoi soci uno come me”) o di Alain de Botton, il sopracciglio alzato di chi dichiara di aver sbagliato periodo storico, ma in realtà forse vuol dire che è il presente ad esser sbagliato. Chi meglio di Cuperlo avrebbe potuto pronunciare in un discorso dal palco, con i tempi che corrono, l’elogio intellettuale e sincero e affettivo della tessera di partito, chi meglio di uno che racconta di essersi iscritto al Pci quando un operaio triestino trascinato in una disputa sulle deleghe di partito gli disse, folgorandolo, “scolta, xe inutile far polemica col partito… gavemo un Statuto no? E te sa perché el se ciama Statuto? Perché dentro sta-tuto, ci sta tutto”. Visione talmudica destinata probabilmente a sbiadire nelle evoluzioni statutarie del Pd, ma la storia conta.
L’idea di candidare Cuperlo contro Renzi sarebbe stata di D’Alema anche se circola, come sempre nel Pd, anche un’altra versione secondo la quale no, la scintilla primigenia sarebbe stata di Bersani e Matteo Orfini. Di certo si sa che dopo il tragico epilogo del cosiddetto tentativo Bersani, il naufragio del governo di cambiamento, la rielezione di Napolitano e la frattura profondissima tra Bersani e D’Alema, l’ex segretario avrebbe preferito un altro nome, per esempio Fabrizio Barca. Cuperlo ha dovuto perfino sospirare un po’ l’appoggio di Bersani. Si è rappresentato spesso come l’ultimo dei dalemiani, quelli di cui D’Alema ama negare l’esistenza e che però tra loro si riconoscono. All’epoca dei Lothar, quando D’Alema era Mandrake, Cuperlo era il ghostwriter e l’esperto di sondaggi, grande amico di Roberto Weber della Swg, triestino come lui. Aveva un ruolo un po’ più defilato rispetto a Claudio Velardi, il consigliere e stratega della comunicazione e Fabrizio Rondolino e in una prima fase Antonio Bargone, l’uomo delle relazioni più complicate con i poteri, vedi l’avvocato e banchiere Vincenzo De Bustis. “Cuperlo amava giggioneggiare sul suo look da studioso secchione e per la verità D’Alema a lui risparmiava le battute taglienti che rivolgeva a noi” dice al Foglio Velardi, ex capo dello staff dalemiano degli anni 90 e oggi lobbista. Ma non è il dalemismo, a sentire Parisi, l’origine dell’operazione piuttosto l’essere stato segretario della Fgci e non è solo per ragioni di ortodossia identitaria. E’ un punto fondamentale, un atto di coerenza rispetto all’idea della leadership collettiva, alla tradizione di gruppi dirigenti stabili e ordinati nella loro formazione. Il fattore classico di sdrammatizzazione della successione. “Fateci caso nella testa di quel gruppo dirigente per quanto diviso c’è sempre lo stesso modello: non è forse Zingaretti l’unico altro nome che viene periodicamente evocato come possibile anti Renzi? Anche Zingaretti è stato leader dei giovani postcomunisti”.
Cosa ne ricavi lui dall’operazione congresso tutto sommato si capisce ancora una volta dal pamphlet del 2009, l’ultima occasione generazionale, il “se non ora quando” personale, un’aspirazione legittima ed esteticamente coerente con la raffigurazione di sé vagamente dolente come figlio di una generazione di mezzo che “neanche sa come definirsi… adolescenti la mattina di via Fani e inconsapevoli negli anni successivi quando il mondo svoltava a destra”.
“A Cuperlo gli ’amo levato diecianni, non lo vedi che è ringiovanito?” scherzava qualche giorno fa in Transatlantico, un romanissimo dirigente del Pd, “stava già sul piano inclinato del centro studi… si stava reichlinizzando”. Lui salva loro, loro salvano lui, è la rappresentazione autoironica, in questo caso, da una parte e dall’altra. “Non avevo mai pensato che sarebbe successo” ha raccontato Cuperlo alla sua platea “però poi succede ed è bello così, grazie”.
Per Bersani è una questione di fondamentali: “Ci credi nella ditta o no?”. Cuperlo è quello che risponde con la professione di fede e un riferimento sentimentale: “Al partito devi volergli bene. Cosa sarebbe l’Italia senza il Pd?”. Se lo ami lo difendi: “C’è un’opa esterna dei media, qualcuno pensa che dal chiuso dei potentati si possano condizionare le scelte del primo partito della sinistra italiana, il compito del Pd è opporsi a questa logica”, ha detto Cuperlo in un videoforum del Messaggero e naturalmente ce l’aveva con Carlo De Benedetti, fresco di endorsement a Renzi sul Corriere dello stesso giorno. “La posta vera non è l’esito del congresso, ma il modello di partito. In gioco c’è l’autonomia di questo progetto. Se gli togli la dimensione comune questo partito non è contendibile, è scalabile”. Un dirigente del Pd della stessa generazione di Cuperlo riassume così l’operazione: “Renzi tiene insieme quelli che fanno fatica a stare insieme, ma che dicono siamo stanchi di perdere e credono nelle sue capacità salvifiche. Cuperlo tiene insieme quelli che fanno fatica a stare insieme, ma che credono che vincere soltanto non sia importante, che l’idea di un partito venga prima”. Gratta gratta nel congresso del Pd il tema del partito fagocita tutto, nasconde battaglie per la vita. Inutile cercare la stessa intensità su altri aspetti programmatici, sulle ricette economiche o l’eterna questione dirigisti contro liberal. La sfida è questa, d’altra parte lo ricorda ogni giorno Cuperlo e la sua committenza, si sceglie il segretario del Pd, no? “Cuperlo è il miglior perdente, mai potrebbe esserci uno sconfitto più elegante, l’opposto di Renzi” osserva Caldarola “ma finirà mangiato dai suoi, in seguito”.
I perdenti sicuri naturalmente ci sono sempre stati. Nel 2007 alle primarie di Veltroni si candidarono Enrico Letta e Rosy Bindi. Nacquero in quella competizione i lettiani e i bindiani fino ad allora mai esistiti. Furono perdenti sicuri l’attuale premier e l’ex presidente dell’assemblea del Pd, ma guadagnarono la potenza di fuoco per le ambizioni future, gli spazi di manovra per il raggiungimento di obiettivi istituzionali. Forse senza la campagna delle primarie del 2007 a Enrico Letta non sarebbe bastato il network di Vedrò. Eppure lo scetticismo circonda l’ipotesi che il congresso possa generare i “cuperliani” e che questo sia l’obiettivo dell’operazione Cuperlo, la cui candidatura sembra al contrario la massima espressione del modello “protezione civile” del partito minacciato. “Non so se è giusto dire che lo fa per conto terzi, la mia idea è che invece i cuperliani nasceranno” obietta Velardi. “Penso che comunque Cuperlo se la giochi, che punti alla leadership di un’area. Se ti presenti gli altri vengono da te a chiedere le cose… Ma attenzione Cuperlo non è un ingenuo, c’è un fondo di furbizia, nel voler apparire distante dalle logiche della politica. In realtà questa è l’ultima occasione anche per lui individualmente”. Secondo Caldarola “no, non nasceranno i cuperliani così come non sono mai nati i berlingueriani nel senso di Giovanni… Un minuto dopo che il congresso avrà deciso, quelli che hanno delegato lui gli toglieranno la fiducia perché il vincitore avrà comunque la stima diffusa degli avversari interni e il mondo dell’ex Pci non c’è più. Un minuto dopo ci saranno di nuovo gli orfiniani, i dalemiani, i bersaniani, i fassiniani di Fassina… Cuperlo semplicemente tiene insieme tutti quelli cui sta sulle scatole Renzi ”.
Si è visto chiaramente alla presentazione romana di “Giorni bugiardi”, il diario del mai nato governo di cambiamento e della vicenda dei centouno pugnalatori di Prodi scritto dai due fedelissimi Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, al tavolo anche il presidente del Consiglio Enrico Letta. Quel pomeriggio ha mostrato contemporaneamente il livello di lacerazione tra i grandi elettori di Cuperlo e il possibile collante, l’antirenzismo molto simile all’antiberlusconismo d’antan. Il libro infatti mette sotto accusa i dalemiani, ma soprattutto Renzi, pagine e pagine (perfino nelle note) e punta a riabilitare Bersani di cui prefigura (anzi lo annuncia lui stesso nella postfazione) un ritorno sulla scena o almeno ai pranzi della ditta. L’obiettivo è accreditare l’idea che il tentativo di Bersani fosse prodromico alle larghe intese, “non ci sarebbe questo governo” ha infatti ringraziato Letta. Un’interpretazione sulla quale ha ironizzato il direttore di Europa, Stefano Menichini, avanzando il dubbio che “la ricostruzione odierna serva a difendere la formula nei momenti difficili che devono arrivare”. A difendere al di là del congresso, la leadership di Enrico Letta come alternativa sostanziale a quella di Renzi.
Gli argomenti dell’antirenzismo somigliano molto a quelli dell’antiberlusconismo e i protagonisti dell’operazione Cuperlo li usano tutti in crescendo: la differenza culturale, Lansdale e Hornby contro la “Ruota della fortuna”, il martellamento sul concetto che Renzi è “bravissimo”, “una risorsa” ma alla fine solo per le sue incredibili capacità di comunicatore. E poi soprattutto la critica indignata per “l’immagine caricaturale del partito” costruita da Renzi e per la rappresentazione del lavoro di segretario come qualcosa di “ozioso”. Eppure non senza malizia in molti osservano come la campagna per le primarie di Cuperlo, almeno dal punto di vista della comunicazione, sia altrettanto personalizzata e come a dispetto del “noi”, corrisponda allo spirito del tempo che intende criticare. “Bello e democratico”, lo slogan scelto pare dopo una buona dose di travaglio, è al singolare. “Bello e democratico è uno slogan ridicolo” commenta Velardi, “gioca in modo poco elegante sulla presunta bellezza del candidato ed è in continuità con la linea bersaniana che ha sempre combattuto l’uomo solo al comando, ma nelle campagne di comunicazione ha puntato sulla personalizzazione, la famiglia, la foto hopperiana alla pompa di benzina”. Aggiunge Velardi che la sinistra è ossessionata dalla comunicazione, la considera una funzione minore, la contrappone alla politica, ma vuole controllarla. “Se però rimproverassi a qualcuno lo slogan ‘Bello e democratico’ mi direbbe non l’ho fatto io… Nessuno se ne assume mai la responsabilità”.
Eppure evidentemente la sottolineatura di una dimensione estetica oltre che etica è frutto di una scelta precisa, bello il Pd, bello il candidato, bella la dignità, altro slogan delle manifestazioni elettorali. Genere la bellezza della Costituzione. Secondo indiscrezioni tutto sommato a Cuperlo poteva andare peggio: i dalemiani avrebbero voluto estendere ai cartelloni e alla campagna il titolo della mozione, “la rivoluzione della dignità”. I creativi hanno tremato, avevano tentato, con autoironia probabilmente eccessiva, di proporre un tormentone, “Ma chi è Cuperlo?”. Bocciato. Anche la sprezzatura ha dei limiti.
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