Stato senza stato

Matteo Matzuzzi

Non era tanto l’attesa per il passaggio di consegne tra il segretario di stato uscente e quello subentrante, rito pressoché sempre uguale a se stesso, fatto di affettuosi ringraziamenti al vecchio e di auguri cordiali al nuovo, a rendere affollata la Terza loggia, la mattina del 15 ottobre scorso. No, nella biblioteca della segreteria di stato, un piano più su di quell’appartamento papale definito da Francesco una sorta di “imbuto rovesciato”, si respirava l’atmosfera di un cambio d’epoca.

    Non era tanto l’attesa per il passaggio di consegne tra il segretario di stato uscente e quello subentrante, rito pressoché sempre uguale a se stesso, fatto di affettuosi ringraziamenti al vecchio e di auguri cordiali al nuovo, a rendere affollata la Terza loggia, la mattina del 15 ottobre scorso. No, nella biblioteca della segreteria di stato, un piano più su di quell’appartamento papale definito da Francesco una sorta di “imbuto rovesciato”, si respirava l’atmosfera di un cambio d’epoca. Addio alla vecchia segreteria di stato cuore del potere politico del Pontefice Massimo, imbolsita dal tempo e incapace di stare al passo del Papa callejero allergico ai cerimoniali e alle burocrazie della Terza loggia. Un passaggio epocale che Paolo VI aveva solo abbozzato. D’altronde “la figura di segretario di stato come anello tra Santa Sede e singoli stati non ha più ragion d’essere”, dice lo storico Paolo Prodi. Quel che serve ora, aggiunge, “è una figura che leghi il Papa alle chiese nazionali, che prema più sull’aspetto spirituale rispetto a quello politico necessario nei secoli passati”. E’ la fine del segretario di stato inteso come evoluzione del cardinale nipote, il fiduciario del Papa che ne curava affari e interessi. Una categoria nata nel Seicento quando il papato entra nel sistema degli stati moderni.

    “Le parole sono importanti – nota Prodi – e segretario di stato designa l’uomo che tratta con gli altri stati. Ma oggi la chiesa non ha più un suo stato, non ha più senso che la segreteria di stato continui a essere centrale nell’esercizio del primato del Pontefice”. Non a caso, come già annunciato da alcuni membri della speciale consulta istituita da Francesco incaricata di riformare la curia e di aiutarlo nel governo dell’ecclesia universa, cambierà nome, diventerà “papale”. Più che entro le mura leonine getterà lo sguardo alle periferie esistenziali, geografiche e sociali su cui tanto insiste il Papa preso quasi alla fine del mondo.

    E c’erano tutti, quel giorno, ad attendere il prescelto per l’incarico. C’era Francesco, c’erano monsignori, sostituti, officiali e funzionari vari. Al canonista e salesiano Tarcisio Bertone succedeva il diplomatico Pietro Parolin. La rivincita di Angelo Sodano, sussurrava maliziosamente qualcuno; un premio al miglior prodotto della storica e nobile diplomazia della Santa Sede, sottolineava convinto qualcun altro. L’attesa era grande per quell’uomo, “don Piero”, che dimostrava di avere già le idee chiare sul compito affidatogli: “La segreteria di stato del Vaticano dovrebbe ricreare la sua presenza, perché i contesti sono diversi. Le cose dai tempi di Casaroli sono diventate molto più complesse”, diceva poco dopo aver saputo della nomina, mentre ancora si trovava a Caracas, impegnato in estenuanti negoziati con il governo bolivariano venezuelano. Ma lui, entrato nella diplomazia vaticana ai tempi in cui questa era guidata da Casaroli, quella mattina non c’era. A sorpresa.

    A spiegare cos’era accaduto, ci pensò lo stesso Francesco: “Il nostro sarà un benvenuto in absentia, perché monsignor Parolin prenderà possesso del suo nuovo incarico alcune settimane più tardi rispetto alla data di oggi, a motivo di un piccolo intervento chirurgico cui ha dovuto sottoporsi”. Niente di grave, minimizzava tranquillo e sorridente come sempre padre Lombardi, il direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Non una parola in più, dopotutto anche i monsignori hanno diritto alla riservatezza. Eppure, il pensiero di molti, quella mattina, mentre ascoltavano le rassicurazioni di Bergoglio e leggevano le scarne precisazioni di Lombardi, andò con malcelato timore ai celeberrimi raffreddori sovietici di Yuri Andropov e Konstantin Cernenko. Passavano i giorni e le settimane, arrivò il primo mese di absentia. E di Parolin nemmeno l’ombra. E’ in Veneto, a riposarsi dopo l’intervento, facevano trapelare da oltretevere. Arriverà presto. Intanto, Francesco andava per la prima volta al Quirinale ospite di Giorgio Napolitano, senza corazzieri e pure senza segretario di stato. Tranquilli, manca poco, dicevano ancora dal Vaticano, e monsignor Parolin prenderà ufficialmente servizio. Non c’è da temere, è con la cara mamma Ada che, dispiaciuta, diceva ai giornalisti che a giugno l’aveva avuto a casa solo per due giorni: “Ha visto me, ha detto messa e poi è tornato a Roma”.

    Nel frattempo, Bergoglio non ci pensava neppure a prorogare Bertone, e se Eugenio Pacelli aveva governato per quattordici anni senza segretario di stato – affidando la gestione degli affari correnti ai due sostituti Tardini e Montini, lasciandoli peraltro senza porpora –, a maggior ragione poteva resistere lui per qualche settimana. Dopotutto, basta avere l’agendina nera per segnare gli appuntamenti, due validi segretari personali, un telefono che metta in contatto con il mondo. Il resto può aspettare, al Papa gesuita non serve altro.

    Lunedì scorso, monsignor Parolin ha preso ufficialmente possesso dei suoi uffici. Giornalisti e curiosi intenti a esaminare con scrupolo video e foto del successore di Tarcisio Bertone per trarne auspici sulle condizioni di salute. Lui, sorridente e per nulla a disagio, era intento a chiacchierare con il premier delle Bahamas, che potrà così fregiarsi del privilegio di essere stato il primo leader a essere ricevuto dal numero uno della diplomazia vaticana targata Bergoglio. Il nuovo segretario di stato si è stabilito a Santa Marta, ufficialmente in attesa che il predecessore concluda il trasloco (Bertone, memore di quanto lo fece aspettare Sodano nel 2006, non ha fretta di abbandonare il palazzo apostolico), ma probabilmente destinato a risiedere stabilmente nell’albergo eretto dal Pontefice a propria dimora e presidiato dalle Guardie svizzere. E’ lui l’uomo che dovrà aiutare Francesco a curare la lebbra del papato, a plasmare la curia del domani, a fare da primo ufficiale medico nell’ospedale da campo della misericordia. E’ lui che il vescovo di Roma ha voluto per tessere con discernimento e pazienza la tela dei rapporti con l’oriente estremo, cruccio del gesuita e irraggiungibile anche per l’atleta di Dio Karol Wojtyla. E’ lui che dovrà ripensare scopi e funzioni di una segreteria di stato per decenni troppo interessata a firmare carte, provvedere a nomine, a porre timbri.

    Una sfida enorme quanto delicata, insomma, che Bergoglio ha delegato non a un vecchio amico o collaboratore, ma a un giovane diplomatico con cui – prima dell’elezione dello scorso marzo – ha parlato solo una volta in vita sua, anni fa, quando l’allora cardinale arcivescovo di Buenos Aires si recò nell’ufficio di don Piero, all’epoca sottosegretario per i Rapporti con gli stati per discutere di questioni riguardanti l’Argentina. Anche questo fa parte del mistero, dell’uomo chiamato a risollevare l’immagine un po’ sbiadita della vecchia e storica Secretaria Status seu Papalis. Mai, ha rivelato il cardinale honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga, amico e tra i più stretti collaboratori del Pontefice – è anche il coordinatore del gruppo di otto consiglieri chiamati a riformare la curia – Francesco ha avuto dubbi su chi dovesse subentrare a Tarcisio Bertone: “Quattro giorni dopo l’elezione aveva già scelto”.
    Il Papa gesuita affida la gestione pratica di governo a un cinquantottenne vicentino che negli ultimi cinque anni ha trattato e negoziato con la leadership bolivariana di Chávez prima e Maduro poi. “Non ho parlato molto con il Santo Padre”, riconosceva poco dopo la nomina, monsignor Parolin: “Penso che quando avrò la grazia e l’opportunità, gli chiederò il perché di questa scelta”. Anche qui, c’è chi vede la mano del decano Sodano, ben lieto di vedere nuovamente un diplomatico di rango occupare la poltrona di capo della rete diplomatica della Santa Sede dopo la stagione del canonista Bertone, fin dal principio considerato un corpo estraneo nei corridoi della segreteria di stato.

    A conquistare Francesco, si dice, è stato il basso profilo di Pietro Parolin, e il fatto che sul suo nome non si sia scatenata quella guerra tra bande e correnti che tanto ha minato l’ultimo tratto del pontificato ratzingeriano. Più che al fitto curriculum, disseminato di successi concreti, al Papa è piaciuto il suo essere rimasto il don Piero partito agli albori degli anni Ottanta da Schiavon, il paese di neanche tremila anime a quattro passi da Bassano del Grappa.

    Lo smalto sacerdotale, in lui, non si è mai appannato, dice chi lo conosce. Mamma Ada, intervistata poco prima dell’insediamento del figlio come braccio destro di Francesco, auspicava una cosa soltanto: “Che rimanga prete, un buon prete”. Un po’ come il buon vecchio don Augusto Fornasa, che a Schiavon per primo si accorse della vocazione del giovane chierichetto Pietro. Sarà lui ad accompagnarlo verso la scelta di entrare in seminario, a quattordici anni. Il padre, venditore di macchine agricole, era morto precocemente in un incidente stradale pochi anni prima, e la madre, maestra, si occupava da sola di lui e dei suoi due fratelli. E’ il 1969, il Concilio è stato chiuso quattro anni prima da Paolo VI, ma il suo spirito, impetuoso, continua a soffiare. Lacerazioni e tormenti non risparmiano neppure i seminari, neanche quello di Vicenza dove studia e vive l’adolescente Pietro. Già qui si delinea il tratto caratterizzante del futuro segretario di stato: tenersi in disparte dall’occhio del ciclone, cercare il più possibile la mediazione. E’ l’anima del diplomatico che si fa strada in lui, che lo porterà un po’ per caso a entrare nel servizio diplomatico della Santa Sede. I progetti originari erano altri. In seminario si era fatto valere negli studi, e dopo due anni in cui fu cappellano a Schio, i suoi superiori decisero di mandarlo a studiare diritto canonico alla Gregoriana, a Roma. Sarà un buon funzionario del tribunale diocesano, s’erano detti. Ma nell’Urbe accade qualcosa di imprevisto: una segnalazione anonima (non si è mai saputo chi ne fu l’autore) invita il vescovo di Vicenza dell’epoca, Arnoldo Onisto, a mettere a disposizione della Santa Sede il giovane don Piero. Da lì inizia la scalata. Nel 1983 è all’Accademia ecclesiastica di piazza della Minerva, tre anni dopo si laurea in Diritto canonico. La tesi, quasi profeticamente, è sul Sinodo dei Vescovi.  Comincia, come da prassi, l’esperienza in giro per il mondo.

    Parte dalla Nigeria, dove rimarrà per tre anni. Poi sarà la volta del Messico: “Mi raccontava che là non poteva indossare neanche la talare”, tanto era forte l’anticlericalismo, ricordava la madre, rievocando le trattative complesse con lo stato messicano per il riconoscimento giuridico della chiesa cattolica che sarebbe sfociato poi nell’allacciamento delle relazioni diplomatiche. Torna in Italia nel 1992, alla segreteria di stato non c’è più Agostino Casaroli, ma da due anni il dominus è Angelo Sodano. Parolin lavora alla seconda sezione, come funzionario, negli anni seguiti alla caduta del Muro di Berlino, occupandosi un po’ di tutto, dalla situazione in Africa all’Asia e all’America latina. Vi rimarrà otto anni, fino a quando, nel 2000, sarà dirottato alla sezione italiana. Due anni dopo, la promozione: sottosegretario della seconda sezione, quella dedicata ai rapporti con gli stati al posto di monsignor Celestino Migliore, trasferito all’Onu.

    E’ qui che il giovane diplomatico vicentino si metterà in mostra. Sul suo tavolo passeranno alcuni dei dossier più delicati, dalle questioni giuridiche aperte con Israele alle relazioni diplomatiche con il Vietnam. Bussola per orientarsi, la massima di Casaroli: partire da ciò che unisce piuttosto che da ciò che divide. E’ sempre lui che dal 2005 lavora all’allentamento della tensione con la Cina. Viaggia, almeno due volte si reca a Pechino, guida la delegazione della Santa Sede nel gigante asiatico. E’ in quel contesto, dai rapporti su quelle missioni, che nasce la lettera ai cattolici cinesi inviata nel giugno del 2007 da Benedetto XVI, considerata unanimemente uno degli atti che più hanno qualificato sul piano internazionale il Magistero di Joseph Ratzinger. Un successo dopo l’altro che lo avvicina anche alla promozione a importanti diocesi italiane. Qualcuno, per lui, pensa anche alla cattedra milanese, visto che il cardinale Dionigi Tettamanzi è in scadenza di mandato per raggiunti limiti d’età. Ma l’opera paziente di semina con la Cina non a tutti era piaciuta, nei corridoi della curia. E nel 2009, seppur mitigato dall’elevazione all’episcopato per imposizione delle mani di Benedetto XVI, arrivava il più classico dei promoveatur ut amoveatur: via da Roma con l’incarico di nunzio in Venezuela. E il negoziato cinese si arenava lentamente fino a scalare di posto tra le priorità dell’agenda pontificia. Più volte, negli ultimi quattro anni, il suo nome tornava in ballo per una destinazione più prestigiosa. Nell’inverno a cavallo tra il 2011 e il 2012, la nomina a patriarca di Venezia sembrava vicina, dopo il trasferimento di Angelo Scola sulla cattedra di Sant’Ambrogio. Ma anche allora non se ne fece nulla.

    Lo storico del cristianesimo Alberto Melloni ha sintetizzato la figura di Pietro Parolin descrivendolo prudente come Montini, abile come Silvestrini e giovane come Pacelli. Il meglio che potesse offrire, in questo momento storico, la diplomazia vaticana.  Un profilo difficilmente inquadrabile in una corrente o tendenza, visto che il nuovo segretario di stato ha lavorato con uomini di sensibilità diverse: Casaroli e Silvestrini, Sodano e Tauran, fino a Bertone. Con Silvestrini il rapporto fu stretto, anche se velato da una nota d’amarezza finale dovuta alle dimissioni di Parolin dalla direzione di Villa Nazareth, la comunità fondata da Domenico Tardini e destinata a sostenere negli studi giovani privi di mezzi. Era il 1996, e Silvestrini aveva chiesto al giovane funzionario vicentino di assumerne la guida. Parolin accettò, ma dopo quattro anni spiegò al cardinale che vista la mole di impegni nella Terza loggia si vedeva costretto a rinunciare, dando un dispiacere al porporato.

    Il neo segretario di stato dice di sentirsi “molto affine al modo di intendere la chiesa” di Francesco, “e soprattutto al suo stile di vicinanza alle persone e semplicità, alla sua maniera di ascoltare e cercare di fare in modo, sul serio, che la chiesa ritorni ad avere una presenza significativa nel mondo di oggi”. Parlando delle grandi sfide del mondo contemporaneo, spiegava che la priorità è “uscire da questo relativismo, che è una piaga! Se non c’è un terreno comune da calpestare, se non c’è una verità obiettiva nella quale ci riconosciamo tutti, sarà molto difficile trovare dei punti in comune”. Alla domanda su ciò di cui avesse bisogno la nostra società, don Piero rispondeva con poche parole: “La fede. Una fiammella da tenere al riparo da venti impetuosi come il materialismo e il relativismo”.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.