La Juve rinasce con Llorente, il Catania crolla con Legrottaglie

Sandro Bocchio

"Un bidone", la sentenza emessa a settembre. Definitiva, perché chi giudica il mondo del calcio non ammette dubbi ma accampa esclusivamente certezze, avvelenate dal tifo e di rado sorrette dalla conoscenza. E così erano bastate poche settimane, e ancor meno giornate di campionato, per incasellare Fernando Llorente nella categoria fallimenti. Al Catania invece è bastato un anno per crollare. Un allenatore (Rolando Maran) già cacciato, giocatori gioiosamente venduti in estate (Alejandro Gomez) e non adeguatamente rimpiazzati, dirigenti rimescolati con una strizzata d'occhio al mondo dei procuratori e un ultimo posto in classifica che fa fede di come tutte le mosse siano state finora errate.

    "Un bidone", la sentenza emessa a settembre. Definitiva, perché chi giudica il mondo del calcio non ammette dubbi ma accampa esclusivamente certezze, avvelenate dal tifo e di rado sorrette dalla conoscenza. E così erano bastate poche settimane, e ancor meno giornate di campionato, per incasellare Fernando Llorente nella categoria fallimenti, come se la storia di uno nato navarro, cresciuto basco e divenuto castigliano nel mondo per meriti sportivi non contasse nulla. Ma chi vive, invece, il mondo del calcio, sa le cose vanno in maniera decisamente diversa. E' consapevole come la fortuna di un giocatore sia mossa da fili sottili e invisibili, che possono spezzarsi se non adeguatamente rinforzati giorno dopo giorno. Quello che ha fatto Antonio Conte, quando ha accolto il centravanti alla Juventus dopo una stagione in cui era stato messo in un angolo dall'Athletic. Perché a Bilbao tutto ti è concesso, tranne tradire l'Idea, tranne voltare le spalle a tutto ciò che significa identità basca. Llorente l'aveva respirata fin da piccolo perché lui navarro (per l'appunto) di nascita a Pamplona, era diventato subito uno dell'Athletic, un club che non accetta giocatori che non abbiano sangue basco o, in alternativa, abbiamo bevuto e mangiato basco fin dalla più tenera età nel club biancorosso. Llorente era uno di questi. Anzi, qualcosa in più perché i suoi centimetri e i suoi chili hanno fatto la differenza immediatamente, fino ad aprirgli le porte della prima squadra quando doveva compiere ancora vent'anni. Un predestinato, senza il sacro furore che contraddistingue chi indossa la maglia dell'Athletic ma bravo a svolgere benissimo il mestiere di centravanti: con i gol oppure con l'aiuto verso i compagni. Hombre diana, li chiamano in Spagna, quelli destinati a fare da bersaglio ai palloni rilanciati dalla difesa, e agli interventi del difensore di turno... Il problema è sorto quando Llorente ha avvertito Bilbao come troppo stretta, quando ha deciso che ci fosse un altro mondo oltre il confine dei Paesi Baschi. E l'hanno presa malissimo, quando ha scelto di lasciar scadere il contratto per consegnarsi alla Juventus. Un tradimento che l'ha trasformato da titolare in riserva, con la collaborazione del tecnico argentino Marcelo Bielsa (chi siede in panchina non deve avere dna basco), uno chiamato El Loco non per caso. E da riserva Llorente ha continuato in bianconero, faticando e sbuffando per ritrovare la condizione persa, ancor più complicato per uno grande e grosso. La fiducia di Conte ha spazzato via il personale dubbio di aver fatto la scelta giusta, il rendimento sul campo ha zittito chi invocava la cessione a gennaio. Si è visto anche a Livorno: lui e Carlos Tevez sembrano fatti l'uno per l'altro, il gigante e il bambino che segnano e si scambiano gli assist. Una coppia che ai più anziani di fede bianconera fa venire in mente John Charles e Omar Sivori e che promette di vincere altrettanto, se non di più.

    Una vittoria che il Catania aveva colto la passata stagione a modo suo, come si conviene a una provinciale: salvezza raggiunta parecchio prima del tempo, record storico di punti e applausi provocati ovunque. Un anno dopo, il crollo. Un allenatore (Rolando Maran) già cacciato, giocatori gioiosamente venduti in estate (Alejandro Gomez) e non adeguatamente rimpiazzati, dirigenti rimescolati con una strizzata d'occhio al mondo dei procuratori e un ultimo posto in classifica che fa fede di come tutte le mosse siano state finora errate. L'ultima figuraccia a Torino a scatenare una squadra – quella granata – che quattro gol era più abituata a prenderli che a farli. L'immagine chiave nella prima rete, in quel Nicola Legrottaglie che rifila un calcio a una zolla del campo anziché al pallone, aprendo la via di fuga in cui Ciro Immobile si infila senza indugio. Al centrale della difesa non resta altro che coricarsi schiena a terra, coprendosi con le mani il volto rivolto verso il cielo. Non si sa, visto il suo fervente credo evangelico, se per invocare un miracolo che bloccasse la corsa dell'attaccante oppure per chiedere immediato perdono per la colossale fesseria appena commessa. E' stato l'inizio della fine, per Legrottaglie e per il Catania tutto. Un crollo di risultati e di prestazioni cui la dirigenza ha risposto a fine partita nell'unico modo conosciuto nel calcio italiano: il ritiro immediato, che non avrà nulla di spirituale e sarà solo punitivo. Quanto utile, saranno le prossime partite a rivelarlo.