Guai a sminuire il valore di quei 7 km quadrati disabitati nel Mar cinese
Uno degli errori più grossolani nei quali cadere commentando le tensioni nel Mar cinese orientale è ridurle a un mero contenzioso sulla sovranità di cinque isolotti, per una superficie complessiva di sette chilometri quadrati disabitati. La disputa territoriale sulle isole Senkaku (chiamate dai cinesi Diaoyu) va avanti dalla fine della prima guerra sino-giapponese a fine Ottocento.
Uno degli errori più grossolani nei quali cadere commentando le tensioni nel Mar cinese orientale è ridurle a un mero contenzioso sulla sovranità di cinque isolotti, per una superficie complessiva di sette chilometri quadrati disabitati. La disputa territoriale sulle isole Senkaku (chiamate dai cinesi Diaoyu) va avanti dalla fine della prima guerra sino-giapponese a fine Ottocento. E può avere delle conseguenze serie negli equilibri geopolitici dell’area asiatica, perché a interessare la Cina è tutta l’area coperta dalla zona di identificazione aerea, estesa più o meno come la California, ricca di gas naturali e munifica per la pesca. Quando nell’agosto del 2012 una decina di parlamentari ultranazionalisti giapponesi sbarcarono simbolicamente su uno degli scogli dell’arcipelago delle Senkaku, in Cina montarono le proteste – complici i funzionari di Pechino. Esattamente un anno fa il Giappone ha subìto il peggior boicottaggio dal Dopoguerra da parte della Cina, un colpo che arrivò immediatamente all’industria dell’auto: le vendite in Cina della Toyota crollarono del 40 per cento nel giro di due mesi. L’ultima provocazione cinese era un messaggio diretto al Giappone. Lo dimostra il fatto che l’area di controllo aereo comprende anche la roccia di Socotra, contesa tra Pechino e Seul, ma il ministero della Difesa di Xi Jinping domenica scorsa si è affrettato a specificare che la Cina “non ha nessuna disputa territoriale” con la Corea del sud.
Tecnicamente le isole Senkaku fanno parte della prefettura di Okinawa, la più meridionale del Giappone e anche quella più dimenticata dallo stato centrale – i cittadini delle Ryukyu, per esempio, non si sentono giapponesi, e l’area è quasi interamente colonizzata dalle basi militari americane. La presenza dei soldati statunitensi in Giappone è contestata dall’opinione pubblica, ma le costanti minacce della Corea del nord e ora l’invadenza cinese sono argomenti convincenti per giustificare quella presenza. Kuni Miyake del Canon Institute for Global Studies (Cigs) di Tokyo ha detto al Guardian ieri che il premier giapponese, “nonostante la sua immagine da falco conservatore, è anche un politico molto pragmatico e ragionevole”, e per ragionevolezza qui si intende la capacità di conciliare il patriottismo con la necessità di mantenere un’alleanza di ferro con Washington. Shinzo Abe e Barack Obama stanno lavorando a stretto contatto, ed è anche per questo che la Casa Bianca ha inviato qualche settimana fa come nuova ambasciatrice in Giappone Caroline Kennedy, stretta collaboratrice di Obama molto ammirata nell’Amministrazione.
Dall’analisi dei documenti storici emerge che la Cina si è spesso tradita riferendosi alle isole come se fossero di proprietà giapponese. Fino alla scorsa primavera tre delle cinque isole Senkaku erano amministrate dalla famiglia giapponese Kurihara, che le aveva in concessione dal governo centrale e le utilizzava come location per matrimoni e feste. Poi arrivò il sindaco di Tokyo, Shintaro Ishihara, che organizzò una raccolta fondi per riacquistarle, ma allo scadere della concessione fu l’allora primo ministro Yoshihiko Noda a decidere di recuperare definitivamente l’arcipelago per evitare ulteriori grane e riaffermare la supremazia giapponese sull’area. Ma intanto a Pechino non si parlava più del principio del “profilo basso” teorizzato da Deng Xiaoping, e la questione delle isole Senkaku era tornata sui giornali di mezzo mondo, con le rivendicazioni sia della Cina sia di Taiwan.
Sin dalla sua campagna elettorale l’attuale premier giapponese Shinzo Abe, leader del Partito liberal-democratico, ha impostato la sua politica sul rinnovamento del sentimento patriottico del Giappone. Secondo Abe per uscire dal ventennio oscuro, dalla stagnazione economica, è necessario tornare all’amor di patria, al nazionalismo dei giapponesi sopito dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Abe è stato il primo politico dopo il 1945 a parlare senza imbarazzo dell’Hinomaru, la bandiera con il sole raggiante vietata dagli americani dopo la resa di Tokyo. Il Partito liberal-democratico conduce da tempo una campagna serrata per modificare l’articolo 9 della Costituzione, quello che vieta al Giappone di avere un esercito ma solo delle “forze di autodifesa”. E poi ci sono i rapporti con i paesi vicini. Il governo di Tokyo non ha mai ceduto alle pressioni di Seul che chiede scuse ufficiali per la questione delle cosiddette “donne di conforto”, le sudcoreane sfruttate dai giapponesi durante l’occupazione in Corea del sud. Anche quest’anno alcuni membri del governo hanno fatto visita al santuario shintoista Yasukuni di Tokyo, dove vengono celebrati gli eroi della patria – compresi 14 criminali di guerra di Classe A, cioè condannati per crimini contro la pace nei processi successivi alla Seconda guerra mondiale. Abe non ha partecipato alla delegazione ma ha inviato cinquantamila yen come offerta. Un dono che non è piaciuto a Cina e Corea del sud. Ambrose Evans-Pritchard, commentatore economico del Daily Telegraph, scriveva ieri che probabilmente un fattore positivo nelle tensioni del Mar cinese orientale c’è: lo stimolo economico dato dall’aumento delle spese dei vari governi per gli armamenti.
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