Benson, folgorato sulla via di Luxor
Il cardinale John Henry Newman paragonava l’esperienza di chi, come lui, ha abbandonato la chiesa d’Inghilterra per passare al cattolicesimo alla passeggiata notturna di un personaggio delle fiabe attraverso un villaggio incantato. Al sorgere del sole improvvisamente i prodigi meravigliosi che avevano intrattenuto il viaggiatore per tutta la notte scompaiono, come liquefatti dalla luce del giorno, tanto che il protagonista si chiede se siano davvero esistiti o fossero soltanto i frutti di una grandiosa allucinazione.
Il cardinale John Henry Newman paragonava l’esperienza di chi, come lui, ha abbandonato la chiesa d’Inghilterra per passare al cattolicesimo alla passeggiata notturna di un personaggio delle fiabe attraverso un villaggio incantato. Al sorgere del sole improvvisamente i prodigi meravigliosi che avevano intrattenuto il viaggiatore per tutta la notte scompaiono, come liquefatti dalla luce del giorno, tanto che il protagonista si chiede se siano davvero esistiti o fossero soltanto i frutti di una grandiosa allucinazione. Robert Hugh Benson, pastore cresciuto nella più anglicana delle famiglie, ha sperimentato la sensazione che si accompagna alla fine di un sortilegio e l’ha immediatamente raccontata in una serie di articoli apparsi sulla rivista americana Ave Maria fra il 1906 e il 1907. Dopo accorate richieste che gli scritti fossero raccolti e pubblicati in un volume, magari arricchiti da qualche riflessione ulteriore, Benson ha acconsentito all’operazione editoriale ma non ha trovato modo di aggiungere nuovi elementi. Al sorgere del sole, il vecchio villaggio anglicano era scomparso. Trovava persino difficile ricordarne le fattezze, come certi sogni che appaiono chiari e distinti nel momento in cui ci si sveglia ma svaporano se ci si riaddormenta anche soltanto per un attimo. Riferendosi a sé in terza persona, forse per compensare “il raccapricciante egoismo” che trasuda negli articoli autobiografici, scrive: “Egli non è più in grado, come nei primi mesi dopo la sua conversione, di paragonare i due sistemi religiosi, dal momento che ciò che ha lasciato non gli appare più come un oggetto coerente. Ci sono, certamente, associazioni, ricordi ed emozioni ancora impressi nella sua mente […] e tuttavia non riesce più a vedere in questi altro che indizi, frammenti e aspirazioni distaccate dal loro centro e ricostruite in un edificio puramente umano senza fondamenta né solidità”.
Potrebbe sembrare che il passaggio dal mondo anglicano a quello cattolico sia stato per Benson tutto sommato naturale e indolore, il sorgere del sole della fede universale su una tradizione che gli era apparsa in tutta la sua modesta portata, ma non è così. Percorrere il guado fra un credo religiosamente corretto e morto e la religione del Dio vivente non è un’impresa senza rischi.
Benson era il figlio più giovane di Edward White Benson, pastore anglicano che diventerà poi arcivescovo di Canterbury, uomo dotto la cui incrollabile fede è perfettamente impressa nella scena della sua morte: si spegne nel 1896 mentre è inginocchiato in chiesa, assorto nella meditazione. Ogni domenica Edward portava i figli a passeggio per la campagna inglese e leggeva episodi tratti dall’Acta Martyrum. Soltanto molti anni dopo Robert scoprirà che il padre traduceva all’impronta dall’originale latino, in un inglese perfettamente oliato da decenni di frequentazione dell’apparato agiografico. “La sua influenza su di me è stata talmente profonda che non posso sperare di riuscire a descriverla”, ricorda Benson. Il padre “non mi aveva mai capito molto bene”, a differenza della madre, con la quale terrà un lunghissimo e intimo carteggio, ma l’influsso della personalità paterna permea le profondità più recondite della vita della famiglia e in particolare quella del giovane Robert, che deciderà di farsi pastore anglicano nonostante le obiezioni e i dubbi sulla fede che ciclicamente affioreranno negli anni della formazione, quando “l’unico mio vero amico era un ateo dichiarato”.
Quando chiede al padre se la formula del Credo sull’unica “santa chiesa” comprenda anche i cattolici, rimane insoddisfatto della risposta. Alla chiesa di Roma, però, non accede tramite un pertugio teologico. Newman aveva lasciato la chiesa d’Inghilterra dopo una lunga riflessione sul rapporto fra la dottrina anglicana e il Concilio di Trento, passaggio che l’aveva portato “ex umbris et imaginibus in veritatem”; Benson coglie l’universalità del credo cattolico in una piccola chiesa egiziana. Poco dopo la morte del padre, il medico gli ordina di passare l’estate nel clima caldo dell’Egitto, essenziale per dare sollievo a uno stato di salute che sarà precario fino al giorno della sua morte, causata da un infarto a 43 anni. Sulla via per Luxor visita le cattedrali di Parigi, incontra la sensibilità orientale di Venezia, s’immerge nelle bellezze fiorentine, nei fasti del cattolicesimo romano, respira la fede barocca e ancestrale dell’Italia meridionale; ma niente scuote il suo animo come quella chiesa copta di nessun conto mimetizzata fra le case di fango di un villaggio qualsiasi. Ci era entrato quasi senza volerlo: “Ora sono certo che è stato lì che per la prima volta qualcosa di simile a un’esplicita fede cattolica si è fatto largo dentro di me. Quella chiesa era chiaramente parte della vita del villaggio, era alta come le case arabe, era aperta, ed era esattamente come tutte le altre chiese cattoliche, a eccezione degli ovvi limiti artistici. Lì mi è sembrato seriamente concepibile l’idea che Roma avesse ragione e noi torto”.
In quella che nel linguaggio francescano, nel senso del vescovo di Roma, si chiamerebbe periferia esistenziale, Benson ha intuito che la chiesa d’Inghilterra, con le sue scuole azzimate, i rituali perfettamente levigati, la precisione dottrinaria che suo padre incarnava (a quel punto Benson leggeva quotidianamente la Bibbia in greco) era la vera periferia della cristianità. Una nicchia autoreferenziale, chiusa al mondo, incomunicabile, il contrario esatto di quel modesto tempio copto che lo aveva affascinato più delle millenarie basiliche dell’Europa cattolica.
L’incrocio fra universalismo, periferia, identità e tradizione porta dritti all’omelia di Papa Francesco del 18 novembre, la requisitoria a sfondo maccabeo del progressismo adolescenziale, con potente condanna del “pensiero unico” che discende dalle lusinghe della mondanità e tonanti richiami identitari. Quella che ha fatto vacillare chi credeva di stare in piedi snocciolando le contraddizioni del Papa dialogante e spogliato della regalità che deriva dalla custodia della dottrina. Nel quotidiano esercizio omiletico di Santa Marta, Francesco ha fatto riferimento al romanzo “Il Padrone del mondo”, il testo di gran lunga più noto dell’apologeta inglese. Benson, ha detto Bergoglio, ha spiegato con potenza narrativa la battaglia fra lo spirito del mondo e la chiesa, e “quasi come fosse una profezia, immagina cosa accadrà. Quest’uomo, si chiamava Benson, si convertì poi al cattolicesimo e ha fatto tanto bene. Ha visto proprio quello spirito della mondanità che ci porta all’apostasia”.
“Il Padrone del mondo” è stato consegnato alla storia come romanzo “distopico”, ma sarebbe più corretto definirlo romanzo “parabolico”, nel senso che usa la forma della parabola, quindi dell’analogia, non si spinge nell’ambito della divinazione del futuro prossimo che verrà. Sta di fatto che il padrone del mondo è la storia di un conflitto esistenziale, moderno e contemporaneamente escatologico, fra la visione cristiana del mondo e un surrogato postcristiano fatto di umanitarismo, massoneria, ideali puri che sono il preludio di un inferno sulla terra. E la via che porta al regno di Satana e a un anticristo che sembra appena uscito dal Consiglio di sicurezza dell’Onu è, come al solito, lastricata di buoni propositi.
Ad aumentare la potenza dello scenario dipinto da Benson c’è la componente profetica, naturalmente, e letto a decenni di distanza il romanzo appare come una rappresentazione fedele, almeno concettualmente, con quello che poi è successo. Quando lo ha scritto, nel 1907, non c’erano ancora state guerre mondiali, genocidi nel mezzo dell’Europa né rivoluzioni bolsceviche. Lo spirito del mondo lavorava su più fronti per congegnare alternative dal volto umano all’oppiaceo della religiosità e Benson è stato perspicace nel cogliere i segni dei tempi e riversarli – amplificati – nelle sagome apocalittiche dei suoi personaggi, a partire da Giuliano Felsemburgh, grandioso leader anticristico – il nome evoca Giuliano l’apostata – a metà fra Barack Obama e un banchiere svizzero in partenza per una riunione del Bilderberg. La chiesa del padrone del mondo è un corpo mistico assediato, minoritario e tuttavia pugnace, sostenuto dallo Spirito e armato della spada della verità. Ridotta all’irrilevanza dal mondo, la chiesa combatte per la sua stessa vita senza concessioni e ricatti, sapendo che “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. In questa parabola si potrebbe leggere una rappresentazione assai muscolare della lotta fra chiesa e mondo, un conflitto di trincea culturale ed escatologico fra identità incompossibili, lanciate come frecce verso niente meno che l’Apocalisse.
Si potrebbe essere tentati di mettere Benson nella schiera degli opliti della fede, un katechon che tiene chiuse le porte dell’inferno modernista e non tollera compromessi sulla strada della riabilitazione del regno divino. Uno che si sarebbe trovato più a suo agio nella cappella palatina di Aquisgrana che in una chiesa di fango alla periferia del Cairo. Il fraintendimento, in effetti, non si è fatto attendere. Per rettificare in qualche modo Benson ha scritto, pochi anni dopo la pubblicazione del “Padrone del mondo”, una seconda parabola, intitolata “L’alba di tutto”, controprofezia in cui la chiesa vince la battaglia contro lo spirito del mondo. Invece del massone-umanitario Felsemburgh è il Papa a guidare il consesso di nazioni i cui sovrani, uno a uno, si convertono al cristianesimo, modellando le società che governano alla dottrina cristiana. L’Europa trova la via virtuosa per coniugare la mentalità medievale con la prosperità moderna, cosa che affascina – ma senza soddisfare del tutto – il protagonista del romanzo, un prete che si risveglia dopo un lungo periodo di coma.
“In un libro precedente chiamato ‘Il Padrone del mondo’ – scrive Benson – ho tentato di tracciare la proiezione di quello che, pensavo, ci si potrebbe ragionevolmente aspettare fra cent’anni, se le attuali linee del cosiddetto ‘pensiero moderno’ fossero semplicemente prolungate nel tempo. Mi hanno detto ripetutamente che l’effetto del libro è stato quello di deprimere e scoraggiare in misura eccessiva i cristiani ottimisti. In questo libro cercherò, sempre in forma di parabola, non certo di ritirare ciò che ho affermato nel precedente, ma di seguire le linee opposte di pensiero per tracciare lo sviluppo che, penso, ci si potrebbe ragionevolmente aspettare se il processo opposto iniziasse, e l’antico pensiero si affermasse. Talvolta sentiamo dire dai moralisti che viviamo in tempi critici, espressione con la quale intendono dire che non sono certi se la loro parte vincerà o meno. In tal senso, nessun tempo può essere critico per i cattolici, perché i cattolici non possono avere alcun tipo di dubbio sulle possibilità di vittoria della loro parte. Ma da un altro punto di vista, tutti i periodi sono critici, perché ogni tempo contiene in sé il conflitto fra due forze irriconciliabili”.
I due lati della parabola di Benson non possono essere dunque completamente disgiunti, pena il fraintendimento del significato dei “tempi critici” per la chiesa e il cattolicesimo, circostanza quanto mai attuale. Benson è stato romanziere e apologeta indefesso, ma anche spirito aperto all’incontro con il mondo, forte della natura vitale di un cristianesimo in cui categorie come “cuore” e “incontro” – che aprono l’esortazione apostolica di Francesco, “Evangelii Gaudium” – ricorrono con più frequenza di quanta i suoi ammiratori contemporanei amino ricordare.
Un episodio della sua giovinezza, prima della conversione, illustra sinteticamente la sua sensibilità cristiana. Durante una gita invernale sul Piz Palù, in Engadina, il giovane Benson ha un collasso. I compagni cercano invano di rianimarlo, e sono costretti a trasportarlo per ore prima di riuscire a trovare riparo in mezzo alla tormenta. Durante il trasbordo Benson riacquista coscienza, rendendosi in qualche modo conto della gravità della situazione, ma nessun atto di contrizione, nessuna richiesta di perdono né desiderio di riconciliazione arrivano al suo cuore malandato. Gli insegnamenti, le virtù, la dottrina, il timor di Dio instillato in una rigorosa educazione cristiana non sono sufficienti ad animare l’intenzione del ragazzo che i suoi compagni credono ormai morto. “La mia religione – scrive – così com’era allora, era talmente impersonale e senza vita che, per quanto non abbia mai dubitato dell’oggettiva verità di ciò che mi era stato insegnato, non ho mai amato né temuto Dio. Non sentivo nessuna responsabilità verso di Lui, né mi scuoteva la prospettiva di incontrarLo. Mi ero passivamente accontentato di credere che Lui fosse presente, ma non mi nascondevo da Lui con timore e non aspiravo a Lui con affetto”.
La conversione per Benson ha la forma di un ritorno alla vita dopo un lunga inibizione affettiva verso l’oggetto riconosciuto e ammirato soltanto tramite la pura ragione. E’ stato un cattolico multiforme e tridimensionale, Benson, irriducibile alla dialettica fra tradizione e modernità. I suoi “Paradossi del Cattolicesimo” sembrano scritti apposta per trarre una sintesi dalla dialettica odierna interna alla chiesa. Ne “I Negromanti” ha fissato in forma narrativa le sue considerazioni sull’occultismo e la magia nera che aveva tratto dalle corrispondenze con amici devoti del lato oscuro, alcuni associati al leggendario Aleister Crowley. E’ stato autore di racconti dell’orrore e romanzi storici sullo scisma anglicano. Ha intrattenuto per anni una relazione di amicizia e una fittissima corrispondenza – un biografo definirà il rapporto “casto ma appassionato” – con l’eccentrico Frederick Rolfe, il “Baron Corvo” che nei salotti letterari più quotati dell’epoca faceva vanto della propria omosessualità. Le lettere sono poi state in gran parte distrutte dal fratello.
Negli anni brevi e febbrili della predicazione in Inghilterra, dopo l’ordinazione nella basilica di San Silvestro a Roma, ha incontrato un altro grande convertito, Cyril Martindale, il gesuita che troverà il registro e il linguaggio per raccontare le vite dei santi ai suoi contemporanei. E’ lui a scrivere la prima biografia di monsignor Benson, a soli due anni dalla morte. Dice che si tratta di una “biografia psicologica”, ché sarebbe impossibile rinchiudere la vita di un uomo del genere nei termini di una piatta cronologia. Non è strano che la mente del gesuita sia stata conquistata, anzi travolta, nel giro di pochi anni da Benson. Entrambi erano partecipi di una medesima sensibilità cristiana. Martindale si era convertito alla chiesa di Roma a quattordici anni. Una volta arruolato nella Compagnia di Gesù era stato mandato a Oxford, dove, secondo i piani, sarebbe iniziata la sua carriera di teologo. Ha abbandonato la prospettiva accademica quando a Oxford è arrivato un gruppo di soldati australiani feriti al fronte, e nell’assistenza ai malati ha trovato il fondo ancora inesplorato della sua vocazione. Di lui scrive Bernard Basset: “Era interamente assorbito dai bisogni del presente, sopra tutti quello di portare il messaggio dell’incarnazione a un mondo sofferente. Egalitario, altruista, inquieto, la sua mente è rimasta per sempre un insieme di variazioni su questo tema”. La chiesa di Martindale, il più vicino fra i sodali spirituali di Benson, quello a cui la madre aveva chiesto di raccogliere i materiali per una biografia, era un ospedale da campo.
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