Miracolo Bulgakov
"La gloria è il sole dei morti": per pochi scrittori russi queste parole valgono quanto per Bulgakov. Comparve davanti ai lettori, compatrioti e stranieri, dal non-essere; affiorò come il primo strato di un antico affresco, tornò alla luce come i quadri di un pittore caduto nell’oblio”. Così Marietta Cˇ udakova, la massima studiosa dell’autore del “Maestro e Margherita” e presidentessa della fondazione a lui intitolata, raccontava nell’introduzione del Meridiano Mondadori dedicato a Michail Bulgakov l’impressione di stupore, di incanto, di commozione provocata dal romanzo al suo primo apparire in forma ancora parziale, nel 1966.
"La gloria è il sole dei morti": per pochi scrittori russi queste parole valgono quanto per Bulgakov. Comparve davanti ai lettori, compatrioti e stranieri, dal non-essere; affiorò come il primo strato di un antico affresco, tornò alla luce come i quadri di un pittore caduto nell’oblio”. Così Marietta Cˇ udakova, la massima studiosa dell’autore del “Maestro e Margherita” e presidentessa della fondazione a lui intitolata, raccontava nell’introduzione del Meridiano Mondadori dedicato a Michail Bulgakov l’impressione di stupore, di incanto, di commozione provocata dal romanzo al suo primo apparire in forma ancora parziale, nel 1966. Da quella scoperta, postuma di quasi vent’anni rispetto alla morte dell’autore, parte anche la biografia intitolata “Michail Bulgakov. Cronaca di una vita” che la Cˇ udakova, dopo una prima edizione datata 1988, ha ampliato e integrato con nuovi dettagli, e che è stata ora tradotta in italiano da Claudia Zonghetti per Odoya.
In quasi cinquecento pagine, mentre ricostruisce i quarantanove anni di vita di Bulgakov – le passioni, le amicizie, i tre matrimoni, l’amore per l’“Aida” di Verdi e il “Faust” di Gounod, lo spirito giocoso, la dipendenza, poi vinta, dalla morfina, il gusto per i bei vestiti e per gli scherzi – l’autrice spiega fino a che punto ci sia stata, attorno alla figura dello scrittore nato a Kiev nel 1891 e morto a Mosca nel 1940, una operosa manipolazione, al fine di disinnescare, o almeno addomesticare, la forza dirompente della sua opera nell’Unione sovietica brezneviana. Le origini famigliari (battezzato Michail come l’arcangelo patrono di Kiev, era figlio di un professore dell’Accademia di Teologia di Kiev e di un’insegnante di ginnasio, primo di sette tra fratelli e sorelle), la mediocre carriera scolastica, gli studi di medicina, la prima parte della vita adulta vissuta come medico nel Caucaso, la decisione di diventare letterato, l’arrivo a Mosca nel 1921, il successo come drammaturgo, poi la caduta in disgrazia, il rapporto con Stalin e con la società letteraria sovietica, la cancellazione, l’oblìo, la fine: su ogni passaggio della vita di Bulgakov la sua appassionata biografa ha lavorato minuziosamente, come su un palinsesto da interpretare e da liberare dagli strati di leggenda messi a coprire la realtà. Il libro illumina particolari finora sconosciuti, mentre chiama a testimoniare le voci dei protagonisti del tempo. Amici e parenti di Bulgakov ma anche chi gli fu ostile, documenti ufficiali e ufficiosi, articoli di giornale, epistolari, diari. Fondamentali furono le lunghe conversazioni con la terza e ultima moglie, Elena Sergeevna Bulgakova, e i ricordi delle due mogli precedenti. Soprattutto della prima, Tatiana Nikolaevna Lappa, che tra fidanzamento e matrimonio trascorse con Bulgakov gli anni dal 1913 al 1923 e non smise di volergli bene, anche dopo il divorzio.
Marietta Cˇ udakova – che dal 1965 al 1984 ha lavorato nella Sezione manoscritti dell’allora Biblioteca di stato “Lenin”, alla quale la vedova di Bulgakov aveva ceduto l’archivio del marito – scrive che nell’autunno del 1966, all’uscita della prima parte del “Maestro e Margherita”, “i lettori si trovarono fra le mani qualcosa di assolutamente inconsueto, che nulla aveva a che spartire con il contesto letterario sovietico dell’epoca. A noi che lo leggevamo, ‘Il Maestro e Margherita’ sembrava piovuto da una realtà altra e altrui, a partire dalla discussione sull’esistenza di Dio del primo capitolo, con l’autore che – con ogni evidenza – non nutriva alcun dubbio in merito. Scoprimmo, per di più, che il dattiloscritto di quel romanzo straordinario era rimasto nel cassetto dell’autore per oltre un quarto di secolo, dopo la sua morte”. Un unico esemplare, fitto di correzioni, nascosto in un’oscurità inerte e protettiva per un tempo lunghissimo. E poi germogliato, come capita a certe specie vegetali che fioriscono una volta in un secolo e non hanno pari per profumo e bellezza.
All’epoca, solo pochi sapevano che una prima stesura del romanzo, la cui gestazione durò complessivamente dodici anni, era stata distrutta per volontà dell’autore, probabilmente in un impeto di emulazione nei confronti dell’amatissimo Gogol, famoso protagonista di un tentativo – fortunatamente fallito – di distruzione di tutta la propria opera. Ma “i manoscritti non bruciano”, ammonisce proprio una delle frasi più celebri del “Maestro e Margherita”: mai nulla ci fu di più vero, nella vicenda di quel libro. Elena Sergeevna Bulgakova aveva conservato due “strani quaderni, con le pagine strappate per metà o per due terzi”. Quando la Cˇ udakova comincia a incontrarla regolarmente, dall’ottobre del 1968, per avere notizie di prima mano sullo scrittore, la donna le raccontò di come il marito aveva deciso di scrivere la celeberrima “Lettera al governo dell’Urss”, datata 18 marzo 1930, nella quale chiedeva, dopo aver constatato il granitico ostracismo verso i suoi lavori (“tutte le mie opere sono senza speranza”), di poter espatriare con la moglie oppure di poter essere assunto in teatro come comparsa od operaio di scena. A un certo punto, racconta Elena Sergeevna, “mi dettò la frase ‘Ho bruciato il mio romanzo’, si fermò e disse: ‘Se lo scrivo, devo anche farlo’. C’era una grande stufa rotonda nella stanza. Cominciò a strappare le pagine e a gettarle nel fuoco”. Non tutte, però. Quello che rimaneva dei due quaderni, disse lo stesso scrittore alla moglie, doveva servire come prova: “Se brucio tutto, nessuno crederà che il romanzo sia davvero esistito”. In realtà, sappiamo che un delatore aveva già informato nel febbraio del 1929 la polizia segreta di quel romanzo su Dio e il Diavolo, dove nella Mosca degli anni Venti Satana-Woland se ne va in giro a seminare il panico e giocare scherzi inauditi, accompagnato da un gatto nero alto come un uomo (non c’era ancora la parte sul Maestro ispirata al Nuovo testamento). Anni dopo, sarà il traduttore di Bulgakov, Leonid A. Zuchovickij, a spiare Michail. Il quale lo sospettava, e non poteva rinunciare a prenderlo in giro. Lo faceva invitare a casa dalla moglie e lo tratteneva fino a notte fonda, mentre lo spione friggeva perché doveva far rapporto in giornata.
Il romanzo esisteva, non c’erano dubbi. Fino a metà degli anni Sessanta, fu semmai lo stesso autore di quel miracolo letterario a non esistere nella storia ufficiale della letteratura sovietica. L’autore del “Maestro e Margherita”, della “Vita del Signor de Molière”, di “Cuore di cane”, di “Uova fatali”, del “Romanzo teatrale”, del dramma “I giorni dei Turbin”, di una riduzione teatrale del “Don Chisciotte”, era ormai solo uno spettro. E già nel luglio del 1936, nel pieno delle grandi purghe staliniane, a una riunione con gli autori del Bol’soj, Bulgakov era stato avvicinato da un giovane poeta, il quale gli chiede se ha mai sentito parlare “di un certo Bulgakov… Ho letto un suo romanzetto, ma pare che la critica lo stronchi di continuo…’. ‘Mi sembra di ricordare che scrivesse anche per il teatro’, insinuò Bulgakov. ‘Sì, ha ragione. ‘I giorni dei Turbin’”. L’episodio, raccontato dalla vedova dello scrittore alla Cˇ udakova, dimostra come egli fosse già in vita ridotto a un fantasma.
E nulla si presta più di un fantasma a farsi cucire addosso caratteristiche arbitrarie, a misura di censore. Quando la fama di Bulgakov e del suo straordinario romanzo concepito nel dolore e nella furia esplose come una bomba a orologeria e cominciò a crescere in Urss e in occidente, era già pronta, spiega Marietta Cˇ udakova, una biografia ufficiale e ideologicamente riveduta e corretta di Bulgakov. In parte avallata dalla stessa vedova, disposta a tutto pur di veder pubblicate le opere del marito, anche a costo di vederle mutilate. Elena Sergeevna raccontava che le dattilografe della rivista Moskva, che pubblicò per prima a puntate “Il Maestro e Margherita”, piangevano “mentre ribattevano il testo tagliato. Si erano innamorate anche loro di quel romanzo che erano costrette a vivisezionare”. In compenso, il redattore incaricato della censura aveva rivenduto ad alcune case editrici occidentali, sottobanco e a caro prezzo, i sessanta fogli tipografici tagliati (in Italia, il libro nella sua versione integrale fu pubblicato da Einaudi nel 1967, con la cura di Vittorio Strada).
Nascono in quel periodo certe “verità” preconfezionate su Bulgakov. Come l’idea che mai – pur nella situazione di sadica emarginazione che gli impedì negli ultimi quindici anni di vita la pubblicazione e la appresentazione delle sue opere – egli avrebbe abbandonato l’Urss, perché convinto che “uno scrittore dovesse sempre e comunque essere prima di tutto cittadino del suo paese”. Un’affermazione, scrive la sua biografa, “che con Bulgakov non aveva nulla a che spartire, come risulta evidente dal suo diario degli anni Venti (quel ‘Sotto il tallone’ del quale all’epoca non si aveva ancora notizia) e dalla ‘Lettera al Governo dell’Urss’ del 1930, con la richiesta impellente di lasciarlo libero”. Veli pietosi vennero stesi anche su quello che l’ucraino Bulgakov, tutta la sua famiglia e soprattutto i suoi fratelli vissero durante la rivoluzione e la guerra civile; Michail si era arruolato come medico nell’Esercito volontario antibolscevico (la futura Armata bianca) al comando del generale Denikin, mentre due fratelli minori dello scrittore vi si arruolarono in seguito; uno morì, l’altro riuscì a riparare a Parigi dopo la vittoria dei bolscevichi. Basterebbe leggere la lettera datata 31 dicembre 1917 alla diletta sorella Nadja, per capire che cosa Michail pensasse della Russia post rivoluzionaria: “Di recente, viaggiando verso Mosca e Saratov, i miei occhi hanno visto cose alle quali non vorrei più assistere. Ho visto torme grigie che fra grida e improperi immondi spaccavano i vetri dei treni; ho visto gente che veniva malmenata. Ho visto case distrutte e date alle fiamme, a Mosca. E ho visto facce ottuse, feroci… Ho visto gente che assediava gli ingressi sbarrati delle banche, ho visto code di affamati alle botteghe, ho visto ufficiali braccati e spauriti, ho visto pagine di giornale in cui si scrive solo del sangue versato a sud, a nord, a est, a ovest e nelle prigioni. Ho visto tutto con questi occhi e ho finalmente capito che cosa è veramente successo…”.
Ancor più eloquente è il primo testo in assoluto pubblicato da Michail, che all’epoca faceva ancora il medico in una piccola città della Cecenia. Si tratta di un articolo, datato 26 novembre 1919, intitolato “Prospettive venture” e riportato integralmente nel libro della Cˇ udakova; uscì sul numero 47 del giornale ceceno Groznyj, è firmato solo con le iniziali M. B., ed è improntato a un profetico pessimismo su ciò che attende la Russia: “Ora che la nostra patria sventurata ha toccato il fondo nel baratro della vergogna e della sciagura nelle quali l’ha costretta la ‘grande rivoluzione sociale’, molti di noi si ritrovano con lo stesso pensiero in testa. Un pensiero ostinato. Che cupo, fosco, si offre alla nostra coscienza ed esige imperiosamente una risposta. E’ un pensiero semplice: che ne sarà di noi? … A ovest la grande guerra di grandi popoli è finita. Ed è giunto il tempo di leccarsi le ferite. Si rimetteranno in piedi presto, là, prestissimo! … E noi? Noi resteremo indietro… E resteremo tanto indietro, che nessuno dei profeti di oggi saprà mai dirci quando – e soprattutto se – potremo mai raggiungerli. Perché questo è il nostro castigo…”. In quel suo esordio giornalistico, Bulgakov dice anche che “dovremo pagare per il nostro passato con una fatica colossale e una vita di rigorosa povertà. E dovremo pagarlo in senso lato e nel significato letterale del termine. Dovremo pagare per la follia di marzo e di ottobre, per i nazionalisti ucraini traditori, per aver rovinato gli operai, per Brest, per l’uso folle della zecca di stato… Per tutto quanto! E pagheremo. Tardi, tardissimo, ricominceremo a fare e a creare quanto serve per essere ammessi a pieno titolo nei giardini di Versailles. Chi vedrà questi giorni felici? Noi? Figurarsi! I nostri figli, forse, o forse i nostri nipoti, giacché la storia legge i decenni come fossero anni. E noi che siamo stati parte di una generazione patetica e che moriremo da falliti, ci vedremo costretti a dire ai nostri figli: ‘Pagate, pagate tutto con onestà e serbate eterna memoria della rivoluzione sociale!’”.
“Non possiamo non stupirci, oggi – scrive la Cˇ udakova – della lucidità con la quale il ventottenne Bulgakov, medico esperto e letterato alle prime armi, intuisce che la Russia pagherà cara e a lungo la propria pazzia”. Ed è anche impressionante, aggiunge la biografa, vedere come il motivo della colpa, della resa dei conti, dell’irrimediabilità delle scelte collettive sbagliate, che nell’opera si intreccerà con il tema della colpa del singolo, sia già compiutamente enunciato in quel primo articolo.
Le omissioni e il maquillage di cui è stata oggetto la biografia di Bulgakov negli anni della sua riscoperta sono la prova lampante, secondo la Cˇ udakova, di quanto fosse necessario all’Urss ridurre Bulgakov a personaggio incompreso ma in fondo affine e affezionato alla patria sovietica. “Alcuni letterati si fecero carico di dimostrare che Stalin avrebbe tanto voluto aiutare il talentuoso scrittore russo, ma che incontrò la fiera opposizione dei critici ebrei. Non lo dichiaravano apertamente, è ovvio; tuttavia, chi leggeva per quante volte Stalin era andato a vedersi ‘I giorni dei Turbin’ (non meno di quindici, ndr) e si trovava poi di fronte l’elenco dei cognomi ebrei dei peggiori detrattori di Bulgakov, era accompagnato passo passo verso questa deduzione”.
L’episodio attorno al quale più si è esercitata la forzatura tesa a ricondurre nei ranghi dell’ideologia Bulgakov, è la famosa telefonata di Stalin che fece seguito alla “Lettera al Governo dell’Urss”. Il 18 aprile del 1930 – il giorno prima si erano svolti i funerali del poeta Majakovskij, morto suicida – dopo pranzo squilla il telefono in casa dello scrittore. Informato del fatto che stanno per passargli Stalin, pensa a uno scherzo e risponde furioso. Una voce dal chiaro accento georgiano, la voce di Stalin (che tra l’altro Bulgakov sapeva imitare alla perfezione) dopo i convenevoli gli chiede: “Ma davvero vuole andarsene all’estero? Le siamo venuti tanto a noia?”, Bulgakov esita, poi dice: “Uno scrittore russo può vivere lontano dalla Russia? No, non credo”. Segue la promessa di un incontro e di chiarimenti sul futuro dello scrittore. Non ci saranno mai, né l’uno né gli altri, e Bulgakov continuerà a subire l’interdizione per tutti i suoi lavori.
Marietta Cˇ udakova ipotizza che Stalin si fosse deciso a chiamare Bulgakov perché si era reso conto, dopo il suicidio di Majakovskij, “che uno scrittore poteva andarsene dall’Urss anche in modi poco convenzionali”. Michail non smetterà mai di arrovellarsi sui particolari di quella telefonata, e la concomitanza tra la morte del poeta e l’inatteso colloquio con Stalin avrà lavorato nella sua mente. Il suicidio dell’amico avviene il primo giorno della Settimana santa, la quale scandisce, come è noto, i capitoli neotestamentari del “Maestro e Margherita” che raccontano passione e morte di Jeshua e la storia del “feroce quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato”. A quella svolta della vita si fa strada l’idea delll’avventura del Maestro (alter ego di Bulgakov ma forse anche di Majakovskij) da far confluire nel romanzo sul Diavolo a Mosca.
Nel 1936, sono dieci anni che nulla di suo arriva a teatro o in libreria. Ma la sua sorte di ectoplasma emarginato può apparire oggi benevola, rispetto a quella di coloro che avevano rivestito la funzione di corifei del regime: alla fine dell’estate, non passa giorno senza che arrivi la notizia di una morte, di un arresto, di una sparizione misteriosa, di un suicidio di ex funzionari comunisti, fin lì onnipotenti. Molti di loro avevano accusato Bulgakov di nostalgia per il vecchio regime e avevano collaborato alla sua cancellazione, ma di quell’epoca di cannibalismo staliniano lo scrittore non può rallegrarsi. Dilaga la delazione. Strane persone si intrufolano con pretesti anche nella casa di Bulgakov, per frugare tra le sue cose. Il 12 novembre del 1937, nel diario della moglie, compare per la prima volta il titolo del gran romanzo, che resterà definitivo: “Il Maestro e Margherita”. In quell’autunno lo scrittore, che “sta cercando con insistenza una via d’uscita dal cul-de-sac della vita e della letteratura”, decide di affrontare e di ultimare il suo romanzo, “che ritiene il suo passo letterario più importante e decisivo”. E’ come se la prossimità della fine (lui non lo sa, ma gli rimangono meno di due anni da vivere) lo incalzasse senza dargli tregua. Fra il 22 e il 23 maggio del 1938 il romanzo è finito.
I tempi sono terribili. Si parla di torture, e Nadezda Mandelstam, moglie del poeta Osip, prigioniero di Stalin, dice all’amica Anna Achmatova – amica anche dei Bulgakov – che si sarebbe messa il cuore in pace solo quando avesse saputo che il marito era morto. Ma proprio come nel “Maestro e Margherita”, alla tragedia si intreccia il grottesco. Anche qui Bulgakov è profeta. Ossessionato dalla famosa telefonata del dittatore, in un racconto comico scritto per la famiglia e gli amici aveva immaginato una serie di personaggi svenire e diventare afoni quando li chiama Stalin. E la direttrice della Literaturnaja gazeta, Ol’ga Voitinskaja, dovette rinunciare a un appuntamento con Bulgakov, che voleva proporle da pubblicare il suo “Don Chisciotte”, perché dopo una telefonata di Stalin perse davvero la favella per dieci giorni: “Dunque i concittadini di Bulgakov finiscono per vivere realmente le situazioni grottesche che lui immagina nei suoi racconti”.
Nel settembre del 1939, venti di guerra spazzano l’Europa. Bulgakov apprende che per la sua ultima speranza – un’opera sulla giovinezza di Stalin a Batum – il responso è ancora una volta: non rappresentabile. Nello scrittore quarantanovenne si aggravano sintomi tenuti precariamente a bada in precedenza, che rendono evidente in lui la stessa malattia ai reni di cui, a quarantotto anni, era morto suo padre, il professore di Teologia Afanasij Ivanovic Bulgakov. I medici gli danno pochi giorni di vita, lui sopravvive sei mesi. L’amico Popov gli scrive il 5 dicembre una lettera commossa: “Quando leggo ciò che scrivi, so che la cultura della parola esiste ancora”. In quel periodo detta alla moglie le correzioni al “Maestro e Margherita”, che lo impegneranno fino a quando reggeranno le ultime forze. Lo farà anche con 42 di febbre, come leggiamo nel diario di Elena Sergeevna. Prima di morire, le disse che forse era giusto così: “Che altro avrei potuto scrivere dopo il Maestro?”.
Negli ultimi giorni non riesce quasi più a parlare. Solo Elena può decifrare qualche parola, e lo sente pronunciare distintamente: “Don Chisciotte”. All’amico Leonte’v che lo va a trovare poco prima della morte, avvenuta il 10 marzo del 1940, Bulgakov sussurra che la moglie vorrebbe per lui un funerale religioso: “Lei glielo impedisca. Le creerebbe troppi problemi. Me ne organizzi uno civile”. Andò così. Per sua espressa disposizione, fu un funerale senza musica.
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