Dare un nome agli stadi e arricchirsi. Perché l'Italia è così indietro?
Diritti di denominazione o più semplicemente naming rights. E’ questa la nuova frontiera del business calcistico - e non solo- capace di passare dal 2010 al 2012 dal 4 all’8 per cento sul totale delle rendite da stadio. Il 13 per cento di questo incremento deriva da eventi aziendali, conferenze e affitti per bar, ristoranti e negozi; il 15 per cento da concerti, eventi culturali e noleggio a terzi; un altro 15 per cento da catering e varie e il restante 49 per cento dall’attività sportiva principalmente praticata ed eventuali canoni di locazione.
Diritti di denominazione o più semplicemente naming rights. E’ questa la nuova frontiera del business calcistico - e non solo- capace di passare dal 2010 al 2012 dal 4 all’8 per cento sul totale delle rendite da stadio. Il 13 per cento di questo incremento deriva da eventi aziendali, conferenze e affitti per bar, ristoranti e negozi; il 15 per cento da concerti, eventi culturali e noleggio a terzi; un altro 15 per cento da catering e varie e il restante 49 per cento dall’attività sportiva principalmente praticata ed eventuali canoni di locazione.
Un giro d’affari che in Europa attualmente vale 131,6 milioni di euro a fronte dei soli 36,1 fatturati nel 2007-08, e che è cresciuto nelle ultime sette stagioni di oltre il 300 per cento considerando gli stadi di prima e seconda divisione, così come quelli delle nazionali. I numeri sono stati forniti da Repucom, società specializzata in ricerche di marketing sportivo, e presentati durante lo UnitedCity Global Sports Summit di Manchester, attraverso un report del Senior consultant, Charlie Simon.
Considerando i cinque maggiori campionati europei, il gap tra Germania e Inghilterra e il resto d’Europa (Italia, Francia e Spagna) è enorme. Le prime due possono contare rispettivamente su 24 e 11 impianti che portano il nome dello sponsor, nelle serie inferiori tedesche sono addirittura 9; le altre tre solo uno, in Francia. Cifre che aprono due scenari: da una parte certificano l’arretratezza economica di alcuni movimenti rispetto ad altri; dall’altra raccontano un mercato ancora tutto da esplorare, soprattutto per i bilanci dei club, rappresentando un accordo economico di lungo termine con denaro fresco che entra nelle casse delle società. Un mercato dove banche, costruzioni e assicurazioni la fanno da padroni con 24, 18 e 15 impianti, anche se sono le compagnie aeree quelle che pagano meglio con una media di 7,54 milioni di euro l’anno contro gli 0,45 delle prime, gli 0,38 delle seconde e gli 1,61 delle terze; con 11 stadi e 1,71 milioni di media sono appetibili anche le compagnie telefoniche.
Negli Stati Uniti il fenomeno ha raggiunto cifre di un altro pianeta sportivo, sarà perché nel 1926 il primo impianto a vendere il nome è stato quello dei Chicago Cubs (baseball), denominato Wrigley Field. Oggi la Nhl ha il 90 per cento dei stadi battezzati con il naming rights, l’Nba l’83, l’Nfl il 65 e la Mlb solo il 60 per cento, con il FedEx Field che porta nelle casse dei Washington Redskins (football americano) quasi 6 milioni di euro l’anno e il Citi Field più di 15 in quelle dei New York Mets (baseball) in testa alle classifiche dei rispettivi ricavi.
E in Italia? Tra i cittadini dei cinque paesi che rappresentano i tornei più importanti, un sondaggio rivela che in Italia ben l’81 per cento degli intervistati, tra i 16 e i 69 anni d’età, sarebbe favorevole a cambiare il nome dell’impianto della squadra del cuore. Udinese (in arrivo) e Juventus a parte (che si guarda bene dal dare un nome al nuovo impianto, visto lo scarso feeling con le curve), tutti aspettano un provvedimento dello stato per rifinanziare il fondo-stadi, emendamento all’interno della Legge di stabilità bloccato da Sel, Verdi, M5S ed esponenti della Lega contro il rischio di speculazione edilizia.
A Manchester non abbiamo visto opere pie, ma aziende d’ogni tipo con un solo imperativo: fare business. È chiaro quindi, ed è stato anche detto, che uno stadio va costruito nel posto giusto e nel rispetto di ciò che vi è intorno: ma quanti impianti potrebbero essere recuperati e con essi anche i quartieri circostanti? Il Centro Studi di Casa.it ha effettuato una ricerca secondo cui il valore delle case nei quartieri dove ci sono gli stadi sarebbe cresciuto del 200 per cento dal 1990 a oggi. Visti gli impianti del nostro Mondiale qualche dubbio ci permettiamo di nutrirlo, ma una cosa è certa: gli stadi, di proprietà, sono uno degli strumenti più importanti per far crescere l’economia dello sport (con posti di lavoro annessi, prima, durante e dopo). Controllare è sacrosanto, ma è altrettanto lampante il gap che separa l’Italia da altre nazioni, lo stesso che divide il calcio tricolore dagli altri movimenti.
Certo, un milanista che entri nella Pirelli Arena o un interista che si rechi al Mediaset Stadium potrebbe reagire male, ma di fronte a nuovi campioni e a nuove vittorie siamo sicuri che sparirebbe anche quel fastidioso prurito ultrà.
Il Foglio sportivo - in corpore sano