La prevalenza del cinese

Lanfranco Pace

Non bisognerebbe affatto chiamarli immigrati, non fuggono dalla fame, dalle persecuzioni, dalla guerra. Non sono dannati della Terra. E nemmeno dannate: magari se sono donne e un po' in là negli anni, diciamo sui quaranta, passeggiano al boulevard Belleville di Parigi e finiscono come tante “pletty woman” nell'indagine sulla prostituzione della sociologa Florence Lévy. Dovremmo smettere dunque di mettere tutti sullo stesso piano, chiamarli con lo stesso nome.

    Non bisognerebbe affatto chiamarli immigrati, non fuggono dalla fame, dalle persecuzioni, dalla guerra. Non sono dannati della Terra. E nemmeno dannate: magari se sono donne e un po’ in là negli anni, diciamo sui quaranta, passeggiano al boulevard Belleville di Parigi e finiscono come tante “pletty woman” nell’indagine sulla prostituzione della sociologa Florence Lévy. Dovremmo smettere dunque di mettere tutti sullo stesso piano, chiamarli con lo stesso nome. La Cina in poco più di trent’anni, da quel 1979 in cui Deng Xiaoping stracciò la teoria maoista, mise fine alle ubbie di uno sviluppo basato sulle campagne, varò le quattro modernizzazioni e aprì le frontiere interne ed esterne, si è imposta come la superpotenza al centro dei processi di globalizzazione, detentrice del debito pubblico americano e garante degli equilibri finanziari mondiali. I cinesi sono imperiali anche quando sono immigrati. Meglio dunque chiamarli in altro modo. Nell’Ottocento erano “waif”, fanciulli abbandonati dall’Imperatore, oggi sono chinese overseas, cinesi d’oltremare, insediati ovunque ma sempre e soltanto cinesi. Nella storia dei flussi migratori mai nessuno era stato visto lontano e vicino al tempo stesso, avamposto della terra madre in altri continenti e parte integrante della comunità d’origine. I nostri sciancatissimi nonni che un secolo fa sbarcavano ai Five Points erano poveri e avevano addosso la sensazione tragica di essere stati cacciati a forza dalla terra in cui erano nati. Nemmeno la retorica del nazionalismo di Mussolini si sognò mai di raffigurarli come figli sparsi al di là dei mari, la Repubblica, quanto a lei, ha fatto e fa anche di peggio, se ne ricorda bolsamente solo se e quando i discendenti hanno successo, da ultimo l’insopportabile fanfara per la vittoria di Bill de Blasio a New York. I cinesi non fanno così: per coloro che vivono in Cina, ogni compatriota che risiede all’estero è un’opportunità, un’occasione, uno stimolo. Sono nel mondo oltre cinquanta milioni, ma i loro spostamenti sono incoraggiati, seguiti, pilotati con l’attenzione che si deve a una tappa importante della vita. Si tengono in contatto l’uno con l’altro e ognuno con la rete famigliare ed etnica di protezione rimasta in patria.

    In uno studio meticoloso, e dal sapore profetico per essere stato fatto dalla Fondazione Agnelli più di venti anni fa, Emmanuel Ma Mung, all’epoca professore al dipartimento di Geografia dell’Università di Poitiers, parla di “emigrazione multipolare che riesce sempre a mantenere relazioni interpolari”. E fa l’esempio di un cinese “teochew” che negli anni Settanta si insedia a Parigi, va in Canada, prima a Montréal poi a Vancouver, cambia svariate attività, dieci anni dopo torna in Francia e apre un ristorante a Parigi e un negozio di oggetti esotici a Rouen: cavalca l’onda delle opportunità e si finanzia anche con i prestiti dei membri del suo gruppo di origine, teochew, e di quello wenhzou nello Zhejiang, la regione dove, raccontava ieri al Messaggero un esterrefatto Romano Prodi, praticamente nessuno si serve delle banche, si fa tutto in contanti e la compravendita è il solo argomento di conversazione: se non hai nulla da comprare e nulla da vendere non esisti, sei trasparente: si dà il caso che l’essenziale della comunità cinese a Prato e in tutta Italia provenga da questa regione.

    Per scegliere come e quando muoversi per il mondo, quali itinerari disegnare, la cultura cinese non prende in considerazione lo stato del mercato del lavoro, ma la consistenza degli interstizi in cui infilarsi e le opportunità che offrono. Anche per questo non possono essere considerati manodopera che fa dumping sociale vendendosi a basso costo: non sono minatori italiani a Marcinelle, raccoglitori di pomodoro venuti dal nord Africa o manovali dell’est europeo. Sono invece tutti imprenditori potenziali, spirito mercantile forgiato dai millenni. In situazioni in cui un razionale uomo occidentale riterrebbe impossibile intraprendere e addittura sopravvivere, loro riescono a fare affari. E profitti. Gli oltre trecentomila della comunità presente in Italia scommettono sullo spirito d’intrapresa, sulla voglia frenetica di arricchirsi e sono ancora più determinati perché possono contare sul sostegno totale dei gruppi d’appartenenza. Nessuno pagherebbe venti-trentamila dollari per venire in Italia e morire incatenato a una macchina tessile: se accetta un tempo di sofferenza lo fa per estinguere quanto prima il debito e mettersi subito in proprio, essere a sua volta artigiano, commerciante, piccolo imprenditore, attirare poi a sé altri membri della famiglia, del clan, dell’etnia che a loro volta saranno imprenditori, in una catena che sembra senza fine. Lo stato nazionale che li ospita è da questo punto di vista un optional, un semplice vincolo al movimento: rientra solo nel calcolo delle opportunità.

    Così è da secoli la Terra di mezzo. I primi a prenderla di petto, impauriti, furono gli Stati Uniti. I cinesi cavalcarono l’onda fino all’estremo occidente dell’oceano e sbarcarono nell’estremo oriente del continente, sulle coste della California, mirifica terra delle mille opportunità. Cominciarono a lavorare alla ferrovia, apparvero subito come una black box, una scatola nera, un universo impenetrabile di cui diffidare. Il 24 ottobre 1871 americani bianchi e messicani entrarono nella Chinatown di Los Angeles e fecero una strage. Il governo federale approvò la Chinese exclusion act, prima forma pubblica e manifesta di sinofobia. Scontri violenti avvennero anche in Australia, Indonesia, Isole Salomone. La diffidenza non si è mai dissolta: a Los Angeles come a Parigi come altrove, le Chinatown sono territori gestiti in proprio, la comunità non chiede mai l’intervento delle autorità legittime per regolare eventuali conflitti esterni o interni. In Italia, prima delle leggi di regolarizzazione e di sanatoria del 1986 e del 1990 la comunità era esigua, viveva sotto traccia, si è rimpolpata successivamente anche per via del ricongiungimento famigliare.

    • Lanfranco Pace
    • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.