I trent'anni, questo è il problema
Invece l’importante è proprio avere trenta anni. E’ vero che essere giovane non esenta dall’essere un cretino e come dire un cretino è per sempre. Ma non per questo si può ancora far finta che la data di nascita non conti e continuare a trastullarci con vispi ottantenni con spirito e competenze da vendere. Il vecchio è vecchio. In un paese di vecchi il vecchio è particolarmente vecchio. Le gambe perdono tono muscolare, rinsecchiscono come spiedini, la pelle si affloscia sotto il peso delle pieghe, la prova matita è un disastro. E ci sono le macchie. E le vene varicose. E tutto il resto. I corpi parlano: la decomposizione annuncia l’imminenza della fine. Per la politica, per il paese.
Invece l’importante è proprio avere trenta anni. E’ vero che essere giovane non esenta dall’essere un cretino e come dire un cretino è per sempre. Ma non per questo si può ancora far finta che la data di nascita non conti e continuare a trastullarci con vispi ottantenni con spirito e competenze da vendere. Il vecchio è vecchio. In un paese di vecchi il vecchio è particolarmente vecchio. Le gambe perdono tono muscolare, rinsecchiscono come spiedini, la pelle si affloscia sotto il peso delle pieghe, la prova matita è un disastro. E ci sono le macchie. E le vene varicose. E tutto il resto. I corpi parlano: la decomposizione annuncia l’imminenza della fine. Per la politica, per il paese. Ecco perché abbiamo bisogno di trentenni, di questa strana generazione che ha la forza e la cattiveria del cagnaccio di strada, l’energia vitale di chi si è battuto ed è sopravvissuto. Domenica alcuni di loro proveranno a prendere la testa di partiti importanti. Forse non sono nemmeno trentenni, raramente si ha l’età giusta al momento giusto, l’esattezza appartiene al mito, alla costruzione sociale, la letteratura come la politica si concedono generose approssimazioni, Paul Nizan che non avrebbe permesso a nessuno di dire che venti anni sono l’età più bella della vita di anni ne aveva quasi trenta. Per la prima volta nella nostra storia una minoranza battagliera, ribalda per l’irrispettosità verso gerarchie sedimentate dal passato, mira apertamente alla presa del potere: e non vuole fare compromessi. Se terrà parola, vedremo attorno a loro un florilegio di volti nuovi e sempre più giovani: per il principio fisico della non sovrapponibilità dei corpi, altri finiranno infine nell’ombra.
Un fenomeno così non accadde nemmeno nell’immediato Dopoguerra quando ci fu il regime change e le migliori energie si mobilitarono per la ricostruzione. Giulio Andreotti fu eletto alla Costituente a ventisei anni, era il più giovane dell’Assemblea, poco tempo dopo fu eletto deputato ed entrò come sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ma fu anche lui un cooptato, il romanzo di formazione lo visse in seconda fila, dietro uomini saggi che saggi avevano già dimostrato di essere prima dell’avvento del fascismo e non per questo erano diventati irrimediabilmente vecchi. L’età adulta allora arrivava in fretta, era cosa seria: per dire, a non ancora trenta anni Umberto Terracini aveva combattuto una guerra e fondato il Partito comunista. Questi di oggi non sono i bamboccioni di stolidi genitori sessantottini, non dipendono da altri, hanno famiglie. Nessuno li ha cooptati, semmai sono stati combattuti: quello che sono, l’hanno conquistato da soli, sul campo. Sono dunque un’anomalia. E per questo fanno paura. Hanno mostrato coraggio affrontando a viso aperto i “tostarelli”, che poi sarebbero i derivati di chi si iscrisse fin da giovane alla direzione di un partito. Non hanno mai mortificato l’ambizione con la falsa modestia, al contrario ne hanno fatto il centro dell’azione pubblica. Hanno un’idea personale della leadership, non credono all’organizzatore collettivo, cascame della cultura novecentesca. Sono fermamente convinti che un partito debba solo essere una macchina per selezionare i migliori candidati a cariche pubbliche elettive: il resto è zavorra e costa pure. Forse è per via dell’età e dello choc che crea il disvelamento dell’ ambizione che li si accusa di essere pesi leggeri, di aver letto poco, scritto ancora meno e solo per frammenti e aforismi come vuole la comunicazione da social network, di ragionare per immagini e ridurre la politica a una collana di slide: insomma di produrre pillole di cultura su cui poi il vecchio comico a sua volta amico di vecchi costruisce sketch sgangherati. Forse. A onor del vero non si conoscono opere memorabili scritte da quelli di prima, né dai vecchi né dagli anziani ormai prossimi a essere vecchi, donne e uomini di qualità che il partito aveva educato a frequentare quaderni dal carcere e ideologie tedesche. Non ne sono nate né la prosa né il pensiero di un Mitterrand o di un De Gaulle: di fronte a tanto fallimento, che è culturale oltre che politico, l’ignoranza dei trentenni ha un che di liberatorio, è segno di leggerezza e di concretezza.
Sono nati nell’ultimo scorcio del secolo scorso, hanno raggiunto la maggiore età nell’esplosione digitale: hanno tutti i diritti e le ragioni del mondo per essere inconsapevoli, per non avere sensi di colpa né pesi da portare sulle spalle. I grandi mutamenti sono avvenuti prima che diventassero adulti: in Italia hanno vissuto come rottura solo l’esperienza berlusconiana, un gioco leggero rispetto agli anni di piombo, alla fine di Yalta, al crollo del comunismo sovietico. La sorte dunque li ha preservati. Ha concesso loro di avere un pensiero debole senza sfigurare al cospetto dei contemporanei: di non dover rivangare tempi lontani, l’universo della politica e della storia per loro è racchiuso in qualche duello tra Berlusconi e Prodi e nelle tante pugnalate date nell’ombra dei corridoi di partito. Possono dunque trasformare in forza l’assenza di memoria: una chance e la giusta nemesi per chi delle parole ha fatto un uso smodato per decenni, portandole alla perdita di senso, all’insignificanza.
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