Con l'acqua alla gol
E' quando si ferma il cronometro e comincia un altro mondo. Novanta più qualcosa. Allo stadio è la lavagnetta luminosa che – tra l'altro si vede oppure no, a seconda del riflesso del sole – ti dice quanto. A casa è l'orologio di Sky o di Mediaset. Novanta più uno, due, tre, quattro, cinque. A volte pure sei. E' l'inizio di qualcosa che parte dalla fine. Un tiro che al quinto, al ventitreesimo, al sessantaquattresimo non si prova neanche, in quello spazio temporale che fa partire il cronometro da 90, diventa possibile.
E’ quando si ferma il cronometro e comincia un altro mondo. Novanta più qualcosa. Allo stadio è la lavagnetta luminosa che – tra l’altro si vede oppure no, a seconda del riflesso del sole – ti dice quanto. A casa è l’orologio di Sky o di Mediaset. Novanta più uno, due, tre, quattro, cinque. A volte pure sei. E’ l’inizio di qualcosa che parte dalla fine. Un tiro che al quinto, al ventitreesimo, al sessantaquattresimo non si prova neanche, in quello spazio temporale che fa partire il cronometro da 90, diventa possibile. Si prova e talvolta riesce. Aumentano i cross, cresce il ritmo. Palla in mezzo, confusione, idee zero, voglia tanta, cattiveria di più. Sbuca un piede, una testa, un ginocchio. Gol. Fernando Llorente al novantesimo più trenta secondi contro l’Udinese è l’ultimo tra gli ultimi. E’ la certezza che quest’anno va così e forse andrà ancora così. Si specchia nello stesso istante, qualche centinaia di chilometri più a est, a Bergamo. Atalanta-Roma, novantesimo meno trenta secondi. Strootman.
Non sono casi, perché sono tanti, tutti insieme. Quelli che lo sanno sono i tifosi. Quelli del Torino, quelli della Sampdoria, quelli del Milan, quelli del Cagliari. Lo sanno, ma non focalizzano il tema, perché il tifo confonde tutto. Il gol negli ultimi minuti sembra una maledizione o una benedizione, pare il frutto di un destino positivo o negativo. E’ stato studiato, analizzato, catalogato. Non è una fatalità. Di nuovo: il tifoso non può accorgersi di ciò che sta accadendo davvero perché le emozioni precedono le riflessioni. Non s’accorge che l’andatura dei giocatori negli ultimi dieci minuti invece di diminuire a causa della stanchezza, aumenta. Non nota che il rendimento dei calciatori cresce in maniera direttamente proporzionale al trascorrere dei minuti che vanno dall’ottantesimo in poi. E’ scienza. O quantomeno statistica. In 14 giornate di campionato, in Italia sono stati segnati 62 gol dal minuto 80 alla fine delle partite. E’ un’enormità: il 16 per cento dei 388 gol totali del campionato nel 9 per cento del tempo utile. Di questi 30, praticamente la metà, sono gol decisivi per il risultato: sono valsi la vittoria o il pareggio.
Per molti tutto questo è affascinante. Gabriele Romagnoli su Repubblica ha messo insieme i gol di Llorente, di Strootman e quello del sampdoriano Renan a San Siro contro l’Inter al minuto novantesimo meno uno e ci ha costruito un articolo dal sapore nostalgico per il vecchio “Tutto il calcio minuto per minuto”. Come se la radio aumenti il valore del gol o la memoria dello stesso: “‘Scusa Ameri, scusa Ameri, qui è San Siro, la Sampdoria ha pareggiato’. ‘Bergamo!, zzzzut! Ha segnato la Roma! Strootman!’ Juve riagganciata! Campionato riaperto! ‘Llllllorenteeeeeeeee’. Una cosa così, tre emozioni in un minuto, il novantesimo, quando la passione sembra sopita, la pace dei sensi vicina, e invece, toh, l’ultimo guizzo del cuore: da rimanerci”.
C’è chi punta sul romanticismo, sul passatismo e quindi sulla nostalgia. Appunto. Così troverete ancora e sempre il paragone con il povero Renato Cesarini, che qualche gol effettivamente lo segnò negli ultimi minuti, ma che diventò un caso per uno e uno solo, quello contro l’Ungheria al Filadelfia di Torino. A inventare il caso Cesarini che poi qualcun altro trasformò in “zona”, fu il giornalista Eugenio Danese. Dei gol alla fine della partita ne parliamo ancora oggi con lo stupore di chi non s’arrende all’evidenza e spera che in fondo il gesto fortuito che regala quell’ultima emozione sia frutto di qualche strano gioco tra l’astrale, il magico e il religioso.
Schiavi di una retorica autoprodotta e autocelebrata che ci fa rotolare nel nostro godimento o nella nostra frustrazione, che sono poi i due unici veri stati d’animo del tifoso pallonaro. Che cosa più di un gol subito all’ultimo secondo può farti sentire uno sfigato? Siccome le delusioni nel pallone sono sempre superiori alle soddisfazioni c’è un sacco di gente che in fondo in fondo quel gol dell’avversario quando il tempo è finito lo invoca sottovoce e ovviamente senza esserne del tutto consapevole. Poi c’è l’alternativa, l’unica. Cioè chi quel gol lo fa. Emozione uguale e contraria. Indimenticabile. Nick Hornby ne ha fatto il cuore di “Febbre a Novanta”, perché il suo Arsenal vinse uno scudetto il 26 maggio 1989, ad Anfield. Già raccontato così: “A destra i rossi, cioè il Liverpool (laggiù li chiamano Reds), a sinistra l’Arsenal, in giallo, ma è la seconda maglia visto che il colore sociale è il rosso. I Reds sono avanti, in classifica, l’Arsenal ha dominato il campionato, ma si è poi smarrito, così, capita, mica ci sono tanti perché, succede. Ora: l’Arsenal insegue: deve vincere, mica qualsiasi risultato: 2-0. Impossibile, sulla carta, una roba da pazzi. Primo tempo, niente; secondo tempo, 1-0, affiorano speranze; 90’ ancora 1-0, un minuto dopo, invece, zac: luce. Michael Thomas: gol. Michael Thomas, un nero, uno anche abbastanza scarso a giocare a pallone, un gregario che all’improvviso però, senza saperlo, lo vedi che sta nel posto giusto, meglio nell’attimo in cui qualcosa capita. Capita quello che tutti quelli che respirano pallone e che ci hanno pure provato a inseguirlo un pallone e sono milioni e stanno in cinque continenti e se glielo chiedi ti dicono proprio questo, vorrebbero: cioè segnare il gol che cambia i destini, quello che nel lessico del calcio si definisce il-gol-per-entrare-nella-storia-della-tua-squadra. Dell’Arsenal, stavolta, ma anche di tante altre, basta fare un giro e andarle a cercare storie e gol così, magari più piccole ma ci sono, su e giù per il mondo”.
Ce ne sono moltissime, a dir la verità. Così tante che quella di Thomas è quasi una barzelletta. Perché se quello lo confronti con ciò che è accaduto l’anno scorso a Gianfranco Zola e ai suoi ragazzi del Watford ti rendi conto che è niente. Qualcuno la ricorderà quella partita, non per le squadre, il Watford appunto e il Leicester, ma perché le immagini, quelle immagini degli ultimi 45 secondi, sono tra le più belle che il calcio mondiale abbia mai visto. Qui l’aveva raccontato allora Jack O’Malley: “Semifinale di playoff, agli ospiti del Leicester viene concesso un rigore al 96’. Con un gol andrebbero in finale a Wembley a giocarsi la promozione in Premier. E invece il portiere del Watford, Almunia, fa una cosa buona in carriera e para, prima di piede e poi di faccia sulla ribattuta. Come in un sogno scritto da un ubriaco la palla finisce sui piedi dell’ala del Watford, corsa sul fondo, cross, torre e gol. Watford in finale. Sul campo si scatena un’orgia sportiva, i tifosi lo invadono prima del fischio finale, Zola corre, salta, cade, si rialza, abbraccia gente a caso, il telecronista quasi sviene, poi piange e infine ride. L’attaccante del Leicester è impietrito mentre attorno i tifosi avversari si abbracciano. Dio, quanto è fottutamente bello questo sport che abbiamo inventato”.
Sì, ne trovi altre di storie così. Il valore sta nelle emozioni che creano ai tifosi e va bene. Però, vedete, il problema è come prendere questi gol. Si torna sempre lì, alla fine. Il caso va bene per la letteratura, non per la scienza dello sport, né per la cultura, né per il costume, né per la società. E siccome lo sport è anche e soprattutto scienza, cultura, costume e società si può dire anche altro: per esempio che un episodio decisivo negli ultimi minuti di una partita mescola stili di vita che apparentemente non c’entrano col pallone e decisioni tecniche totalmente calcistiche. Il ruolo del caso è marginale, vedrete. I numeri che girano per l’Europa raccontano storie diverse e approcci diversi agli ultimi minuti delle partite. Cioè: per tutti è uguale l’atteggiamento durante quei minuti, ma è differente ciò che accade prima. Semplicemente: tutti arrivano con l’acqua alla gol, ma ciascuno a modo suo. Noi abbiamo il rapporto tra gol fatti negli ultimi minuti e il loro valore maggiore di tutti. Siamo un paese di ritardatari. Abbiamo bisogno dell’urgenza, della sveglia che suona. Non c’è stata una sola giornata di campionato quest’anno che non abbia avuto una qualche appendice decisiva nel finale. Gli altri pure, ma in maniera differente. Nelle prime 14 giornate del campionato spagnolo, sono stati segnati 60 gol dall’ottantesimo in poi. Ma di questi solo 17 (quasi la metà di quelli italiani) sono decisivi. In più la percentuale di influenza di quei minuti nel corso di una partita scende perché il totale dei gol è maggiore in Spagna rispetto a noi. Nella Liga sono stati fatti 412 gol contro i nostri 388.
In Germania, il numero totale dei gol è il maggiore di tutti: 431. E’ la dimostrazione di ciò che molti non vogliono vedere: è un campionato spettacolare perché c’è tanta, tantissima, differenza di valore tra le squadre. Ci sono le fortissime (due più altre tre forti) e le scarsissime. Allora si segna tanto e pure tardi, ma la gran parte sono gol inutili: quelli del quattro, cinque, sei, anche sette, a zero. Il campionato in cui il gol last minute va meno è la Premier League inglese. A dispetto di Nick Hornby, i gol post 80’ sono stati solo 55 (il totale delle giornate però è di 13), e quelli decisivi per il risultato sono 18. La tendenza universale c’è. Perché usare 90 minuti per fare ciò che riesci a fare in uno? Il pallone si adegua al mondo in cui vive, si specchia in un altrove, non dà risposte, fotografa semplicemente la realtà. Procrastinare è una possibilità, per qualcuno una necessità, per altri uno stile. L’anno scorso, un filosofo di Stanford, John Perry, scrisse un libro che fece molto discutere: “The Art of Procrastination”. Racconta come quando e perché l’atteggiamento dell’essere umano di fronte a una certa cosa diventa: io rimando, rimando, rimando, poi si vedrà. Attenzione: non significa non fare. Significa posticipare il più possibile un impegno. Attenzione bis: non è menefreghismo, disinteresse, passività. E’ essere diversamente operativi.
Paolo Di Stefano ne ha scritto così: “Il problema non è il problema – sostiene Perry – il problema è la tua reazione al problema. Il consiglio è di non reagire, far finta di niente: procrastinare, rimandare, rinviare la soluzione del problema. L’illustre professore (e procrastinatore indefesso, rinviando per 17 anni la pubblicazione del suo libro), ha ideato la teoria della ‘procrastinazione strutturata’, cioè il rimandare facendo altro. Temperare una matita? Dedicarsi al giardinaggio? Giocare a ping pong? La strategia di Perry è più raffinata, non asseconda necessariamente la pigrizia e va valutata senza fretta. Se stilate (in tutta calma) una lista degli impegni dal più urgente ai meno importanti, il consiglio è quello di concentrarvi sui secondi, in modo da non dare a voi stessi e agli altri l’impressione fastidiosa (o angosciante) di essere inattivi. Solo così il senso di colpa verrà sconfitto e l’immagine pubblica resterà intatta. Insomma, non fare oggi ciò che puoi fare domani, meglio ancora dopodomani, ma a un patto: mentre il procrastinatore comune tenderebbe a non fare nulla, il temporeggiatore di Perry deve dedicarsi ad altro pur di evitare di fare ciò che dovrebbe assolutamente fare. Solo cercando di sfuggire alle priorità si finisce per sbrigare la gran parte del lavoro per affrontare poi trionfalmente e a cuor leggero l’impegno più urgente. Un gioco da ragazzi. Ovviamente, il procrastinatore strutturato (e produttivo) deve avvalersi di una buona dose di auto-inganno, giocando (con se stesso) sui diversi livelli di priorità. D’altra parte, non è detto che l’arte di temporeggiare non produca risultati migliori della furia efficientista. Il dittatore romano Quinto Fabio Massimo, detto appunto il Temporeggiatore, fece del difetto una virtù al punto da stremare il nemico Annibale con la tattica dell’attesa”.
Procrastinatori seriali sono stati in molti. Tutti convinti che Thomas Jefferson avesse ragione quando diceva che “rimandare è meglio che sbagliare”. Non c’entra col calcio, ma c’entra. Perché se tu hai novanta minuti più qualcosa per cambiare la partita, ma così tante partite si decidono alla fine e tra queste molte quando il cronometro si ferma a 90 e va avanti soltanto il pezzettino del recupero, significa che l’arte di procrastinare sta pure dentro al campo di pallone. Piaccia o no, è semplicemente così. E d’altronde, puoi anche cambiare filosofo, ma trovi le stesse teorie declinate in maniera diversa. Perché José Mourinho e Alex Ferguson, questo sono: pensatori contemporanei, filosofi della vita che all’argomento hanno dedicato idee che collimano con quelle di Perry. José è il teorico del 2-0 come risultato più penalizzante dall’80’ in poi. Dice: meglio avere un solo gol di vantaggio che due. Possibile? “Il 2-0 nei minuti finali crea l’illusione della sicurezza e creando quell’illusione provoca insicurezza. Il rischio di passare da 2-0 a 2-2 è maggiore di quello che ti fa passare da 1-0 a 1-1”. Ferguson, invece, ha teorizzato la sindrome dell’ultimo minuto. Sostiene, Sir Alex, che i giocatori hanno molta più energia fisica e mentale negli ultimi istanti di partita. Una specie di iperconcentrazione che ti fa fare cose che in altri momenti della partita non sei in grado o non hai voglia di fare: “La progressione fino al fischio finale crea un’eccitazione e una tensione incredibili”. L’allenatore spesso è inconsapevole. Butta dentro a cinque minuti dalla fine un giocatore e tutti, ma proprio tutti, pensano che sia un chiaro messaggio dello spero in Dio. Secondo Ferguson no. E’ l’inconsapevole certezza che la procrastinazione è finita e sta producendo un effetto. Più forza, più voglia, più energia. Come nella finale di Champions del 1999, al Camp Nou: Bayern Monaco-Manchester United. Il Bayern vince. Minuto novantesimo più uno: corner di Beckham, mischione, pure il portiere in aerea avversaria, Giggs tira dal limite una palla moscia che rimbalza su due caviglie, finisce a Sheringham che la tocca e fa uno a uno. Minuto novantesimo più tre. Altro corner di Beckham, colpo di testa di Sheringham, tocco di Solskjaer a un metro dalla porta: 1-2. Coppa al Manchester United. Coppa ad Alex Ferguson. Sì, la teoria dell’ultimo minuto l’ha tirata fuori dopo.
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