Matteo e il Re del videogioco politico

Marianna Rizzini

Provare e scartare, provare e scartare. Se non basta, cambiare quadro: altro panorama, altra vita, altri nemici, altre armi, altri punti, altre soluzioni. E’ la regola del videogioco che si estende a realtà anche politiche: Matteo Renzi c’è dentro fino al collo per naturale attitudine, ed è uno dei suoi atout. Manca un giorno alle primarie del Pd e questa è la visione di Antonio Campo Dall’Orto, ex vicepresidente di Viacom International, ex “inventore” e poi amministratore delegato di Mtv Italia, ex direttore de La7 ed ex ad di Telecom Italia Media.

    Provare e scartare, provare e scartare. Se non basta, cambiare quadro: altro panorama, altra vita, altri nemici, altre armi, altri punti, altre soluzioni. E’ la regola del videogioco che si estende a realtà anche politiche: Matteo Renzi c’è dentro fino al collo per naturale attitudine, ed è uno dei suoi atout. Manca un giorno alle primarie del Pd e questa è la visione di Antonio Campo Dall’Orto, ex vicepresidente di Viacom International, ex “inventore” e poi amministratore delegato di Mtv Italia, ex direttore de La7 ed ex ad di Telecom Italia Media, tre volte alla Leopolda (convention di Renzi) e al momento felicemente perso nei meandri di un anno sabbatico in cui occuparsi della “dimensione micro” (famiglia, consulenze, lancio di start-up altrui). Una dimensione micro in cui sostare dopo venticinque anni di concentrazione assoluta sul “macro”, con l’ultimo lustro passato sugli aerei come le rockstar conosciute da Dall’Orto nei Novanta (“prima che diventassero via via più salutiste”, dice ripensando a quando al suo tavolo c’erano Bono Vox e Mick Jagger, “gente che sa come fare a restare sulla scena per anni”, e un Robbie Williams ancora nel pieno della sregolatezza). Dalla dimensione micro, e dopo un viaggio on the road con moglie e bimbi di tre e sei anni (a zonzo per gli Stati Uniti, da New York a New Orleans alla costa ovest), Dall’Orto è arrivato alla terza Leopolda convinto che Renzi, più di ogni altro attore politico al momento sulla scena, riesca a esprimersi “in un linguaggio che esiste già fuori dalla politica”. Per questo gli ha portato le idee e le esperienze maturate nei cinque anni spesi a promuovere, innovare, uniformare, studiare e rilanciare il brand e i contenuti di Mtv in tutto il mondo – ed era come stare in un frullatore anche molto divertente di idee e persone, a contatto con i cosiddetti “millennial”, giovani nati dopo la metà degli anni Ottanta, e con i loro fratelli maggiori, trentenni dirigenti televisivi che dal Brasile al Giappone guardano da vicino i ragazzi abituati a pensare che la musica (altro che videoclip) “esca dal web come l’acqua dal rubinetto”.

    Un osservatorio privilegiato sui linguaggi (che Renzi, dice Dall’Orto, ha per età e curiosità del tutto introiettato): Mtv è stata sensore, veicolo e agente propulsore di un cambiamento accelerato dalla rete e dal boom dei social network. E Dall’Orto, che è nato negli anni Sessanta, ha seguito la tv nel suo sbarco tra i ragazzi del mondo extra-occidentale, con qualche memorabile incidente diplomatico: in Cina quando, all’interno di un programma dal montaggio troppo veloce, comparve fugace un’immagine di piazza Tienanmen (e fu oscuramento immediato); in Malesia di fronte alla difficoltà di organizzare eventi di piazza in un paese dove in piazza la birra è off-limits; in Messico al momento della presentazione del reality “Sixteen and pregnant” – che cosa fa una sedicenne quando resta incinta?, era la domanda già affrontata dal film “Juno”, dove un’adolescente incinta passa da un atteggiamento pro choice a una decisione pro life (ed era pro life, a dispetto delle apparenze, anche la scelta di molte adolescenti seguite dalle telecamere del programma, solo che le autorità messicane, a monte della visione del reality, si erano convinte che quel titolo, sulla rete progressista Mtv, avrebbe senz’altro comportato una deriva abortista). 

    Arrivare, capire un linguaggio, entrare nel format fino a cambiare il messaggio stesso, perché se è troppo articolato per quella “cornice” alla fine naufraga nella confusione creata nella mente dell’interlocutore. Arrivare e farsi in qualche modo “spirito del tempo”: questo l’obiettivo del Dall’Orto dirigente fino a ieri; questo l’obiettivo del Renzi politico oggi.

    I due si conoscono da qualche anno, e l’incontro poteva essere fatale nel senso dell’indifferenza, se Renzi non fosse stato Renzi e Dall’Orto non fosse stato Dall’Orto: invece Dall’Orto contattò Renzi nel 2010, quando, nel quartier generale Viacom, in quel di New York, si decise di lanciare su Mtv Italia “Jersey Shore”, il reality sui giovani italo-americani in trasferta estiva. Pensarli come italiani in Italia non si poteva, quindi si scelse di “portare” gli italo-americani nel paese dei nonni. Cioè a Firenze. Dall’Orto spiegò la cosa al giovane sindaco Renzi, il quale non mostrò schizzinosità. I due non solo s’intesero a meraviglia, ma parlarono anche di new media, politica, valori, vittorie, Barack Obama, rete, piazza, messaggi e linguaggi – e fu amore (politico) a prima vista. Sono passati tre anni e, dopo tre Leopolde, Dall’Orto appare ai profani come una specie di inviato speciale di Renzi tra i giovani del Ventunesimo secolo (senza incarico formale, solo per reciproca curiosità). Ma alla fine Renzi va a segno, dal punto di vista del linguaggio e del messaggio? La risposta di Dall’Orto è sì, ma non perché si vesta da Fonzie, anzi: assumere la “forma da giovane” non è il punto. Renzi va a segno quando e fino a quando resta davvero postideologico, consapevole del rischio più grande nel nuovo universo anche politico di linguaggi semplificati (anche troppo, vedi Cinque stelle): la perdita dell’autenticità. Il vero tema del cambiamento, per un Dall’Orto che in vita sua ha già cambiato quattro vite (e gli sono “piaciute tutte”), è questo: la gente deve crederci, deve pensare che si può fidare, deve convincersi che tra promesse e buona fede non ci sia un abisso. Renzi, per Dall’Orto, è uno che fa valere l’autenticità e l’immediatezza senza usare “la leva del contro”, senza le parole “maschili e guerresche” dell’altro innovatore di linguaggio “autentico” Beppe Grillo, uno che vuole dare “l’estrema unzione” ai partiti. La chiave sta nell’equilibrio tra empatia e razionalità (ma attenzione all’eccessivo “pragmatismo istituzionale”, onde evitare un effetto “Mario Monti post candidatura”).

    Ma se Renzi “arriva” grazie all’introiezione del linguaggio millennial, ha però il problema di restarci, nel cuore di chi l’ha scelto per questo, visto anche il campanello d’allarme che suona dall’America, con il “presidente della rete” Barack Obama in parabola discendente proprio tra i millennial, quelli che nel 2008, dal nulla, si erano materializzati dentro e fuori dal web con le loro micro-donazioni, scompaginando i tour paralleli di Hillary Clinton e del senatore dell’Illinois (poi due volte presidente). Dall’Orto c’era, negli Usa, a quel tempo, per lavoro e per interesse “di studio” verso la marea montante di consenso per colui che i millennial appoggiavano dicendo “io posso fare questo” – ed è il bello e il brutto dell’evoluzione del linguaggio internettiano-politico, dice, perché “l’egocentrismo del fruitore di rete”, uno che si sente “al centro” con il suo clic, porta, “oltre al pragmatismo postideologico”, una certa “infedeltà di voto”. Dall’Orto li ha osservati in nuce, gli “infedeli” del Ventunesimo secolo, fin da quando, ex studente di Conegliano Veneto con padre istitutore in un convitto per futuri enologi, si autoinviava in Danimarca per un proto-Erasmus: lassù nello Jutland conduceva indagini di mercato su posate d’acciaio resistenti al freddo e apprendeva la legge non scritta della convivenza tra giovani danesi: bigliettini con nome e cognome su ogni alimento presente in un frigorifero diviso in sei scomparti, tanti quanti i coinquilini. (Della serie: se voglio offrirti qualcosa te lo offro, ma i furbi della spesa collettiva hanno vita breve). Dopo la Danimarca, il quasi laureato in Economia Dall’Orto finì in Spagna: altre indagini di mercato, ma non era quella la destinazione finale per uno che voleva girare il mondo.

    Nel settore dei media, pur senza avere inizialmente il fuoco sacro, intravide una strada: seguirono un master in Publitalia e l’assunzione alla vicedirezione di Canale 5, sotto un giovane Giorgio Gori. Sarebbe stato forse il passo definitivo, se un head hunter di Mtv non l’avesse sorpreso con chiamata al numero diretto. La Londra anni Novanta fu la calamita per un Dall’Orto maniaco del pop-rock, e l’idea di creare “qualcosa che non c’era” (Mtv Italia) fu la molla per lasciare Mediaset (“nonostante la bella esperienza”). Adriano Galliani lo congedò gentilmente, lasciando la porta aperta: “Ci rivediamo fra sei mesi quando verrai a chiedermi lavoro”, disse, e però poi Mtv partì come un razzo assieme ai suoi conduttori (Victoria Cabello, Giorgia Surina, Andrea Pezzi, Camila Raznovich, Enrico Silvestrin, Marco Maccarini). Visto il successo, Dall’Orto entrò nella dimensione internazionale, con incarichi dirigenziali per il sud Europa e altrove, passando per la perdita della concessione televisiva italiana (ricevette la notizia in Brasile, su un’isola con collegamento telefonico malcerto – e meno male che dal quartier generale di Mtv a New York giunse un aereo privato per riportarlo sul continente). Fu quello il momento dell’incontro con le istituzioni italiane (in particolare con l’allora vicepremier Walter Veltroni, poi strenuo difensore di Mtv da un palco dell’Mtv day): non chiudete Mtv Italia, era il messaggio veicolato con lettere aperte ai giornali, presenza fino ad allora rara a cene frequentate da politici e schieramento a tappeto degli artisti (esiste ancora, in qualche cassetto, un video mai andato in onda in cui Madonna e Bono Vox, in italiano stentato, perorano la causa del canale). Mtv Italia si salvò, ma si adeguò alla legge (arrivò Telecom). La nuova vita di Dall’Orto significò sovrapposizione: nel 2003 prese in mano La7, ma continuò a seguire Mtv (due contratti, molto lavoro, molto divertimento). Erano gli anni de La7 “esperimento razionalista-illuminista”, dice Dall’Orto ricordando il lancio non convenzionale del programma di Maurizio Crozza, all’inizio molto influenzato dell’ascendenza teatrale del comico (ne derivò un poco televisivo uso di “luci da dietro”). Cinque anni, poi il cambio di assetto proprietario, le deleghe tolte, l’addio, l’inizio del tourbillon per Viacom, un trasferimento con figlio neonato a New York, il ritorno a Milano da pendolare tra due sponde dell’Atlantico, la decisione di fermarsi ma con l’occhio ai linguaggi che cambiano, e cambiando trasformano anche la politica.

    Renzi, come Mtv Italia, per Dall’Orto è stato il “qualcosa che non c’era”. Ma la sfida maggiore per Renzi, secondo Dall’Orto, arriverà quando si dovrà dare “una forma” al tutto, evitando di deludere le aspettative dei tanti che hanno pensato, puntando su di lui con ragionamento “millennial”, “sono io al centro, io che cambio”. Ed è qui che la teoria del videogioco torna utile, qui che l’esperienza sul campo suggerisce a Dall’Orto la fiducia nella dimensione “errore del sistema”: soltanto un anno fa Renzi era vissuto come un bug, come il candidato “che ignora la complessità”, dicevano i critici, e infatti le primarie dell’anno scorso fotografavano “la dicotomia tra discontinuità e rassicurazione”. Ma il confronto tra candidati su Sky, quest’anno, ha fotografato altro: “La necessità della discontinuità è stata metabolizzata”, è passata l’idea “che l’iniquità maggiore è la società ferma”. Renzi è leggero, dicono i non renziani, ma Dall’Orto ci vede un punto di forza: è la leggerezza della spugna “che assorbe da tutti gli immaginari”. Non per tattica, ma perché “è già così”, e non è detto che chi è aperto a immaginari “non letterari” abbia “meno fondamento valoriale di chi si rigira nella prosopopea della complessità, quella che produceva centinaia di convegni sulla società equa e finiva per sfrondare le pensioni baby”.

    In Renzi Dall’Orto ha visto uno di trentotto anni che ha elaborato il cambio di linguaggio e non teme di sbattere il muso contro la parte di società (e del mondo politico) che resiste “a un cambiamento ormai inesorabile”. Il Ventunesimo secolo mostra al politico lo schema videogioco: non stare fermi, fare anche sbagliando. Renzi, dice Dall’Orto, è a buon punto: “Non sta usando i codici della paura in un momento in cui il linguaggio della paura preme alle porte della città”. Il codice millennial gli serve per “far leva sulla razionalità” anche volubile di chi ha mutuato nella vita i modi della rete. E questo è già comunque il mondo nuovo.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.