Le amiche geniali
Quando Lila dice a Elena di continuare a studiare per sempre e che se è necessario la manterrà lei agli studi, adesso che è una sedicenne del rione che sta per sposarsi con sfarzo e volgarità, Elena le risponde con una nervosa risata, una risata da Lila, cinica, cattiva, infelice. In quel momento è come se loro due diventassero una cosa soltanto, indistinta, come nelle storie d'amore, quando si perde un po' della propria identità per aderire a quella di chi amiamo.
Quando Lila dice a Elena di continuare a studiare per sempre e che se è necessario la manterrà lei agli studi, adesso che è una sedicenne del rione che sta per sposarsi con sfarzo e volgarità, Elena le risponde con una nervosa risata, una risata da Lila, cinica, cattiva, infelice. In quel momento è come se loro due diventassero una cosa soltanto, indistinta, come nelle storie d’amore, quando si perde un po’ della propria identità per aderire a quella di chi amiamo. “Grazie, ma le scuole a un certo punto finiscono”, risponde Elena Greco, Lenù, la bambina che guarda il mondo attraverso l’intelligenza, attraverso la potenza emotiva della sua compagna Lila, Raffaella Cerullo. “Non per te”, le dice Lila, “tu sei la mia amica geniale. Devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine”. Elena obbedisce e avrà per tutta la vita addosso la sensazione di averlo fatto per Lila (le scuole superiori, la Normale di Pisa, i libri, il matrimonio con un uomo colto, la fuga dal rione), per quell’investitura in mutande e reggiseno, nei pochi intimi minuti in cui doveva aiutare la sua amica a infilare l’abito da sposa. L’ha fatto non solo per renderla orgogliosa, ma anche per rubarle le intuizioni, i balzi vitali, i pensieri brillanti che Lila aveva dentro la testa e Elena no, Elena aveva bisogno di copiare Lila per sentire l’energia nelle cose. Per vincere la gara. Con Lila rimasta a marcire nel rione napoletano insieme a quella gente violenta, sboccata, con il cervello spento, Elena può farcela perché non deve confrontarsi con lei, che le ha acceso la testa a sei anni, in prima elementare, può smettere di arrivare sempre seconda.
“L’amica geniale” è una trilogia (ma potrebbe uscire un quarto libro, e anzi dovrebbe, adesso che Lila, a sessantasei anni, è scappata di casa e forse ha per la prima volta nella sua vita lasciato Napoli: dobbiamo sapere che succede, dobbiamo vederla finalmente vivere), questi tre romanzi che raccontano gli anni Cinquanta, poi i Sessanta, i Settanta da una postazione laterale e violentissima in cui il mondo arriva sempre, sono il racconto epico di una grande amicizia, qualcosa di più che una storia d’amore, molto di più che una storia di donne. E’ la storia del mondo, la lotta contro le origini, la vertigine della libertà e il fascino terribile che esercita l’infelicità, attraverso la guerra di due bambine con la faccia sporca che tirano le pietre contro i maschi, Elena senza troppa convinzione, Lila “con una determinazione assoluta”, poi le bambine diventano ragazze, donne, hanno e usano uomini che restano sullo sfondo e un solo uomo, per entrambe, di fronte a loro non impallidisce, fuggono oppure restano. L’ultimo romanzo della trilogia, uscito da poco per e/o come tutti i libri della Ferrante, si intitola: “Storia di chi fugge e di chi resta” e alla redazione del New Yorker, che ha celebrato “L’amica geniale” come un libro splendido, lo stanno leggendo con la serietà che si dedica ai grandi autori (“Ha superato Elsa Morante”). Il New York Times ha paragonato la trilogia ai “Promessi Sposi”. Per la prima volta da “L’amore molesto”, non ci si chiede nemmeno più se esista e chi sia davvero Elena Ferrante, perché è riuscita nell’impresa difficilissima di farsi superare dai suoi libri. Non importa davvero più chi sia, purché continui a dirci che cosa succederà a Lila Cerullo, l’amica geniale, e alle donne del mondo, a rivelarci i nostri pensieri scandalosi, disprezzabili, a non rimuovere mai nulla ma scoprire tutto. Nel 1991, quando il suo primo romanzo, “L’amore molesto”, stava per essere pubblicato, Elena Ferrante chiarì le cose e vi si attenne sempre, scrisse ai suoi editori una lettera che il New Yorker ha riportato con ammirazione: non avrebbe fatto nulla per promuovere il suo libro, perché aveva già fatto tutto, lo aveva scritto. Non avrebbe partecipato a conferenze, presentazioni, dibattiti, interviste, e non avrebbe ritirato nessun premio, nel caso in cui glielo avessero dato. “Interverrò solo con la scrittura, ma tenderei a limitare al minimo indispensabile anche questo”.
Una cosa assurda, anti moderna, anti nuovo millennio, presuntuosa, in Italia piuttosto inconcepibile. Non vuoi farti vedere, non vuoi rispondere alle domande sulla vita pubblica, non vuoi dirci se hai figli, se hai un uomo, non dedichi i tuoi libri a nessuno, non metti i ringraziamenti nell’ultima pagina, almeno una foto piccola di quando eri più giovane, non vuoi andare agli aperitivi con l’autore, non fai sentire nemmeno la tua voce, non ci vendi, insieme al tuo libro, pezzetti di te? Ma chi ti credi di essere? “Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano scritti. Se hanno qualcosa da raccontare, troveranno presto o tardi lettori; se no, no (…) Del resto non è forse vero che le promozioni costano? Io sarò l’autrice meno costosa della casa editrice. Perfino la mia presenza vi sarà risparmiata”. Non c’è leggerezza in queste parole, e la leggerezza non esiste nemmeno nei romanzi di Elena Ferrante, che sono sempre affamati e brutali: non c’è gioco, ammiccamento, complicità, nemmeno volontà di tenere alto il mistero. C’è il riserbo completo sulla vita vera, che consente la assoluta mancanza di pudore nei romanzi, il disvelamento di tutti i sé possibili, senza tenere celato nulla e senza smancerie. Elena Ferrante non tratta le donne con più garbo perché sono donne, non le salva se non sono capaci di salvarsi da sole. “Sono una madre snaturata” ne “La figlia oscura” viene detto senza vergogna e Leda, insegnante di Letteratura inglese all’università, abbandona le figlie piccole per tre anni (e usa lei stessa questo verbo: abbandonare) e torna infine non per amore loro, “ma per amor mio”.
Di Elena Ferrante abbiamo soltanto (ma è tantissimo) i libri: la possibilità di cogliere la natura autobiografica delle cose che scrive, di trovarla dentro quella ragazzina napoletana studiosa e tormentata, oppure dentro l’altra, geniale e distruttiva, o in entrambe, dilaniate tra il bisogno di scappare e la voglia di restare, è un problema o una curiosità soltanto nostra, Elena Ferrante è già da un’altra parte, oppure semplicemente non si è mai mossa, fedele a una decisione di più di vent’anni fa. E continuando a leggere, libro dopo libro, ci si vergogna della curiosità, fino a che la curiosità scompare: adesso spero di non sapere mai chi sia davvero Elena Ferrante perché ho tutto quello che mi serve, o credo di averlo, ho un’idea precisa di lei che non voglio venga contraddetta dalla realtà. Ho il suo dolore indecente quando viene lasciata dal marito ne “I giorni dell’abbandono”, che importa se sia successo davvero, ho anche la confessione precisa dei sentimenti di ostilità verso i figli, quando pensa che sia tutta colpa loro, ho l’invasione delle formiche dentro casa, ho l’assalto al marito da parte di una donna disintegrata (“Mi sono rotta il cazzo di fare gnignì gnignì. Tu mi hai ferita, tu mi stai distruggendo, e io devo parlare da brava moglie beneducata? Vaffanculo! Che parole devo usare per quello che mi hai fatto, per quello che mi stai facendo? Che parole devo usare per ciò che combini con quella? Le lecchi la fica? Glielo metti nel culo? Ci fai tutte le cose che non hai mai fatto con me? Dimmi! Perché tanto io vi vedo!”). Ho il motivo per cui, tre anni dopo averle lasciate per inseguire il mondo e se stessa, Leda è tornata dalle sue figlie: “Mi sono accorta che non ero capace di creare niente di mio che potesse veramente stare alla pari con loro”, “Cosa vuoi dire”, “Che mi sono sentita più inutile e disperata senza di loro che con loro”. Ho la repulsione verso la madre, il matrimonio senza amore, il senso continuo di inadeguatezza, l’impossibilità di strapparsi di dosso la pelle di quel rione a Napoli, il pozzo nero dell’infanzia in cui brillavano soltanto gli occhi cattivi di Lila (“Abbiamo fatto un patto da piccole: quella cattiva sono io”). Elena Ferrante, chiunque sia, non può essere un uomo, anzi è quasi folle che qualcuno l’abbia pensato. Sa cose che nessun uomo, nessun bravo scrittore, potrebbe mai nemmeno immaginare nei rapporti di una donna con le altre donne, viaggia dentro la rabbia con una precisione velocissima, con il senso del combattimento e della confusione, con la sincerità assoluta sulla mancanza di una generica bontà, dolcezza femminile: fa risuonare e svela la verità segreta delle cose, pronuncia con una lingua chiara quello che anche adesso crediamo sia impronunciabile sulla maternità, il sesso, l’amore, l’invidia, il fallimento, la paura e la sensazione di non farcela mai, nemmeno quando, alla fine, ce la facciamo.
Elena Ferrante racconta senza teorie femministe, senza citazioni di Simone de Beauvoir: lei scrive romanzi. Anche quando la politica entra dentro le storie (gli anni Settanta, le tensioni sociali, il terrorismo), è la politica vissuta come un racconto personale, è la fabbrica in cui Lila prepara i salami per otto ore al giorno, e un giorno quasi strappa un orecchio a uno che le dà una pacca sul sedere. E i camorristi, gli usurai, le sboccate signore napoletane non sono peggio degli intellettuali a cui Elena Greco cerca di assomigliare per tutta la vita.
Elena Ferrante non fa trattati sulla libertà delle donne, non giudica, non prende le distanze, nemmeno quando fa volare Lila, bambina, fuori dalla finestra durante una lite con i genitori. Ce la presenta cattiva, spavalda, sempre sporca, magra come “un’acciuga salata”, e le fa dire, da grande, che il sesso non le piace, che non sente niente, la rende sfolgorante anche vestita di stracci, anche mentre insulta qualcuno in dialetto e le arriva una pietra in fronte (“Già in prima elementare, era al di là di ogni possibile competizione. Lila faceva a mente calcoli complicatissimi, nei suoi dettati non c’era nemmeno un errore, parlava sempre in dialetto come noi tutti ma all’occorrenza sfoderava un italiano da libro, ricorrendo anche a parole come avvezzo, lussureggiante, ben volentieri. Lila era troppo per chiunque”). Lila la odiavano tutti e non aveva paura di nessuno. Ma non aveva il coraggio di uscire da quel rione e di staccarsi di dosso la rabbia: gettò nel fuoco il racconto che aveva scritto a dieci anni, lasciò che i sogni, dalla testa, le finissero sotto i piedi.
L’amica geniale è Lila, ma nel mondo fuori dal rione quella geniale diventa Elena. Lila decide i destini per entrambe e riesce anche a dirle che il suo secondo romanzo è “brutto, brutto, brutto”, glielo dice come un rimprovero, come se Elena avesse frantumato anche i suoi sogni scrivendo una cosa tanto vuota. Elena adesso è una scrittrice, sposata a un docente universitario figlio di un intellettuale famoso, ha una bella casa, vestiti nuovi, conosce gente importante, uomini colti le si strusciano addosso con la scusa dell’anti bigottismo, impara a parlare in pubblico, compra la televisione ai suoi genitori, ma continua a sentire il vuoto sotto i piedi, l’attrazione e la repulsione verso il posto da cui viene, e soprattutto la subalternità verso la sua amica geniale, che vive in un tugurio, ha le mani distrutte dalle mortadelle, non legge più niente e odia tutti. “Eppure, tornando in macchina a Firenze, avevo l’impressione che lì nel rione, tra arretratezza e modernità, lei avesse più storia di me”. E’ un’ossessione, è il confronto che non finisce mai, e Elena arriva a sperare che Lila muoia. E’ l’unica persona importante della sua vita, è il motore della sua intera esistenza, da quando aveva sei anni e decise di regolarsi sulle gambe scattanti di quella bambina lacera per non diventare zoppa e ripugnante come sua madre, e lei adesso spera che muoia. Da quando leggevano “Piccole donne” insieme, sbrindellato, sporco e senza dorso, se Lila si allontanava dalle cose, le cose perdevano luce e interesse anche per Elena, il latino smetteva di essere vivo, la lingua dei libri non era più suggestiva. Perché Lila, con quelle idee che schizzano velocissime dentro la testa, chissà che cosa potrebbe diventare.
“Diventare. Era un verbo che mi aveva sempre ossessionata, ma me ne accorsi per la prima volta solo in quella circostanza. Io volevo diventare, anche se non avevo mai saputo cosa. Ed ero diventata, questo è certo, ma senza un oggetto, senza una vera passione, senza un’ambizione determinata. Ero voluta diventare qualcosa – ecco il punto – solo perché temevo che Lila diventasse chissà chi e io restassi indietro. Il mio diventare era diventare dentro la sua scia. Dovevo ricominciare a diventare, ma per me, da adulta, fuori di lei”. Questa amicizia femminile piena di tormenti e di abbandoni, lunga sessant’anni, non è più appassionata di una storia d’amore? Dipendono l’una dall’altra, anche quando sono lontane, anche quando hanno perduto l’intimità, anche quando Lila ferisce Elena, che ha fatto una cosa definitiva senza dirgliela, forse per la prima volta: “Tu rovini la tua famiglia per quello lì? Sai che cosa ti succederà? Ti userà, ti succhierà il sangue, ti toglierà la voglia di vivere e ti abbandonerà. Perché hai studiato tanto? A che cazzo è servito immaginarmi che ti saresti goduta una vita bellissima anche per me? Ho sbagliato, sei una cretina”.
Nella scrittura di Elena Ferrante ci sono i primi piani di Abdellatif Kechiche ne “La vita di Adele”, in cui ogni dettaglio svela la verità dei sentimenti. E sono solo i sentimenti a contare davvero: in questi tre romanzi legati stretti dalle vite di Lila e Elena, c’è più gioia rispetto ai precedenti, ed è la gioia data dall’essersi incontrate, alleate, confuse l’una nell’altra. Loro due, dentro un’infanzia di calci e sputi, e poi via dentro tutto il resto. Lila ha imparato a leggere da sola a tre anni, ma il padre non vuole che tenga libri in casa, potrebbe montarsi la testa, e la madre non sa leggere e non le importa nulla della maestra che la implora di far continuare gli studi a quella bambina sorprendente, la quinta elementare è abbastanza, deve aiutare il padre ad aggiustare le scarpe, deve sposare qualcuno con due soldi. A guardare Lila con occhi freddi, senza l’amore, la gratitudine e l’ammirazione di Elena, l’amica geniale ha perso, ha sprecato molto, e la maestra Oliviero un giorno la incontra mentre spinge la carrozzina con dentro il figlio neonato (legge “Ulisse” di James Joyce e la maestra non sa nemmeno che cosa sia): “Eri destinata a cose grandi”, “Le ho fatte: mi sono sposata e ho avuto un figlio”, “Di questo sono capaci tutti”, “Io sono come tutti”, “Ti sbagli”. Lila non è come tutti e non è nemmeno cattiva come dicono tutti: i suoi sogni sono finiti sotto i piedi e allora pretende, con violenza, che quelli di Elena volino lontano, dove lei non è.
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