Primo Levi

Se questo è uno stato

Giulio Meotti

L’abiura di Primo Levi è dominata dall’attrazione morbosa per le “vittime che si fanno carnefici”

Il 7 giugno 1967 lo stato d’Israele si trova sotto minaccia di morte e lancia un blitz militare per respingere l’accerchiamento di Egitto e Siria. E’ la Guerra dei sei giorni e anche nelle piazze d’Italia, dove la militanza a favore dello stato ebraico si porta ancora bene, si dona il sangue. Per gli ebrei sotto assedio. Primo Levi si fa fotografare dalla Stampa di Torino con il tatuaggio di deportato ad Auschwitz mentre, disteso sul lettino, dona il suo plasma rosso.

 

“Parecchi vorrebbero aprire le loro case ai bimbi israeliani”, recita un articolo della Stampa, oggi impensabile. “Un piccolo popolo coraggioso difende il suo diritto all’esistenza”. E ancora: “Il sangue dei torinesi nella terra dove i superstiti del ghetto di Varsavia e dei campi di sterminio lottano perché i loro figli, nati e cresciuti in Palestina, non conoscano più l’antico dolore di una gente mille volte perseguitata e mille volte dispersa”.

 

Quindici anni dopo, l’autore di “Se questo è un uomo” e “La tregua” avrebbe abbracciato il più radicale e sofferto dei pregiudizi contro Israele. Per dirla con due bravi ricercatori come Guri Schwarz e Arturo Marzano, autori di un libro sull’attentato alla sinagoga di Roma del 1982, “gli scritti e le interviste di Primo Levi costituirono dei punti di riferimento cruciali, nonché una fonte cui attingere – magari forzando il senso delle sue parole e del suo pensiero – per ribadire e legittimare la formula della corruzione del popolo ebraico che da vittima idealtipica si era fatto carnefice”. Il professor Berel Lang è autore di un nuovo libro su Levi intitolato “The matter of a life”, in uscita per la Yale University Press e in cui compare un capitolo dedicato alla “questione ebraica” in Primo Levi. Perché si è trattata di una autentica abiura da parte del simbolo della sopravvivenza ad Auschwitz. Berel Lang scrive che fin dall’inizio per Levi l’identità ebraica era un “fatto curioso” e Auschwitz in questo senso aveva rappresentato “un’università”, come disse Levi stesso, dalla scoperta della lingua yiddish al contatto con gli ebrei religiosi. L’identità ebraica, scrive Lang, fu per Levi una “estraniazione”, tanto che rimase sempre sconcertato dal fatto di essere presentato come “uno scrittore ebreo” nei suoi tour letterari all’estero.

 

Lang riporta che Levi fu attratto fin dall’inizio dalla nascita dello stato d’Israele: “Dal 1935 al 1940, rimasi affascinato dalla propaganda sionista, ammiravo il paese e il futuro che stava pianificando, di uguaglianza e fratellanza”. La successiva, finale apostasia di Primo Levi è indispensabile per capire lo scollamento che si è imposto nelle comunità ebraiche italiane a proposito di Israele, le umilianti giaculatorie dei suoi intellettuali più illustri, le arroganti richieste di dissociazione da Israele avanzate dal mondo esterno, l’accostamento dello stato ebraico al nazismo. Un paradosso doloroso che acquistò forza e legittimità grazie alla parola del grande sopravvissuto, lo scrittore Einaudi, l’autore del capolavoro della letteratura dell’Olocausto (sull’evoluzione delle posizioni di Primo Levi nei riguardi d’Israele ci sono anche “The Double Bond: Primo Levi, a Biography” di C. Angier, New York, Farrar, Straus and Giroux, e “Primo Levi” di I. Thomson, Hutchinson).

 

Grazie a Levi, la “nazificazione” di Israele, per il tramite dell’ampia esagerazione del numero delle vittime, dell’idea della predeterminazione di un disegno sterminazionista, della rappresentazione di un’ideologia composta da un tratto fascista, è diventata moneta corrente in tutta l’Europa occidentale e in Italia soprattutto. Da allora, le società europee con i loro intellettuali sono state sempre predisposte a schierarsi contro la potenza militare e a parteggiare spontaneamente per coloro che erano percepiti come vittime deboli e indifese, minacciate da un potente aggressore. Dopo e con Levi, Israele è stato percepito come una costola dell’occidente coloniale, e nello specifico come l’incarnazione dei lati più oscuri della civiltà europea. L’abiura di Primo Levi è dominata dall’attrazione morbosa per le “vittime che si fanno carnefici”. Con la sua potenza evocativa, con il suo talento e prestigio, con la sua mitezza tragica di sopravvissuto, Primo Levi ha scelto di diventare la fonte più autorevole che ha legittimato quel tipo di bugie che da allora sono diventate, purtroppo, verità correnti.

 

Per questo a Gerusalemme, dove la traduzione ebraica di “Se questo è un uomo” apparirà soltanto nel 1989, dunque molto dopo la morte per suicidio dello scrittore, nessuno ha mai voluto pubblicare la “Conversazione” di Levi con Ferdinando Camon. Sul testo, offerto gratis agli editori israeliani, sono state avanzate forti riserve politiche.

 

Ma cosa diceva Levi nei punti più controversi? “Lo stato d’Israele avrebbe dovuto cambiare la storia del popolo ebraico, avrebbe dovuto essere un zattera di salvataggio, il santuario a cui sarebbero dovuti accorrere gli ebrei minacciati negli altri paesi”, scriveva Levi. “L’idea dei padri fondatori era questa, ed era antecedente alla tragedia nazista: la tragedia nazista l’ha moltiplicata per mille. Non poteva più mancare quel paese della salvezza. Che ci fossero gli arabi in quel paese, non ci pensava nessuno. Ed era considerato un fatto trascurabile di fronte a questa gigantesca ‘vis a tergo’, che spingeva là gli ebrei da tutta Europa. Secondo me, Israele sta assumendo il carattere e il comportamento dei suoi vicini. Lo dico con dolore, con collera. Non c’è differenza tra Begin e Khomeini”.

 

Per Levi, dunque, non c’era differenza fra il primo ministro d’Israele, un sopravvissuto come lui alla Shoah, e il fondatore della Repubblica islamica dell’Iran, un noto antisemita. Questi testi antisraeliani di Levi sarebbero diventati popolarissimi fra i militanti. La “Conversazione con Primo Levi”, opera teatrale tratta dal testo di Ferdinando Camon, in scena al teatro Fernando de Rojas di Madrid in coincidenza della Giornata della memoria del 2006, per esempio, ha provocato la protesta dell’ambasciatore di Israele in Spagna, Victor Harel, che ha definito “chiaramente antisemita” la rappresentazione di Levi, che “disonora Israele”.

 

Il 16 giugno 1982 la Repubblica pubblica un grande appello scritto da Primo Levi, “Perché Israele si ritiri”, le cui righe di esordio hanno un’eco dirompente, perfino sinistra: “Facciamo appello, in quanto democratici ed ebrei, perché il governo israeliano ritiri immediatamente le sue truppe dal Libano”. Il testo raccoglie millecinquecento adesioni. Ciò che però colpisce l’opinione pubblica non è l’analisi politica di quel documento, ma l’inciso della prima riga: “In quanto democratici ed ebrei”.
Tra i firmatari di quel manifesto c’erano Franco Belgrado, Edith Bruck, Ugo Caffaz, Miriam Cohen e Natalia Ginzburg. Affermarono che “la soluzione militare” scelta da Israele evocava “un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo”, facendo così una storica concessione alla retorica dei “nazi-sionisti” e dichiararono di intervenire anche nella speranza di “combattere i germi potenziali di un nuovo antisemitismo che si verrebbe ad aggiungere alle vecchie e mai scomparse tendenze antiebraiche in seno alla società civile”.

 

“Quell’appello a mio avviso fu un argine contro la strumentalizzazione degli ebrei italiani nella campagna contro Israele”, ribatte David Meghnagi, che firmò il testo di Primo Levi. “Si trattava di aprire una discussione in Italia”. Spicca fra i firmatari il nome di Natalia Ginzburg, che dopo la strage degli atleti israeliani a Monaco 1972 scrisse che negli ebrei che andavano in Israele “abbiamo amato le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi”, ma “non eravamo affatto preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa”. Era il tempo in cui Rossana Rossanda firmava articoli dal titolo “Voglio essere ebrea”, rivendicando l’ebraismo dei deboli, degli oppressi.

 

Il tenore delle accuse di Primo Levi contro Israele si fa anche più forte. Lo scrittore dice di provare “vergogna” per Israele, e in quei mesi esce il suo primo vero e proprio romanzo: “Se non ora, quando?”. La Stampa pubblica in prima pagina una geremiade contro Israele dopo la partenza di Levi per un viaggio ad Auschwitz, dove si è recato insieme a una scolaresca fiorentina. Lo scrittore concede poi un’intervista al Secolo XIX, in cui esprime il suo “orrore” per una “rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche”. Alla domanda maliziosa dell’intervistatore sul perché il “popolo erede delle generazioni bruciate a Dachau e a Mauthausen rischia di apparire agli occhi del mondo civile come carnefice”, Levi replica: “Non c’è dubbio che l’immagine di Israele si stia deteriorando”. Il 24 giugno 1982, sulla prima pagina della Stampa, stabilisce poi il collegamento fatale tra la persecuzione nazista e le guerre di Israele. Scrive Levi: “Il caso ha voluto che la notizia dell’attacco israeliano in Libano coincidesse per me con un ritorno ad Auschwitz in veste di guida per un gruppo di visitatori”. Il risultato è che “le due esperienze si sono sovrapposte tormentosamente”. E ancora: “I segni della strage di quarant’anni addietro, sul luogo ove essa si svolse, sono tuttora presenti: colpiscono come una mazzata”. L’articolo è un capo di accusa poderosa da parte di un intellettuale emblematico per l’Olocausto: “Israele, sempre meno Terra Santa, sempre più paese militare, va acquisendo i comportamenti degli altri paesi del medio oriente, il loro radicalismo, la loro sfiducia nella trattativa”. Quanto a chi frettolosamente assimila i generali israeliani ai generali nazisti, “devo ammettere che Begin questi giudizi se li sta tirando addosso”.

 

Da Gerusalemme gli scrivono, indignati, alcuni amici di sempre. Leonardo Segre fa notare a Levi che in tempo di guerra si devono serrare i ranghi. L’amicizia fra i due si romperà sul terreno della denuncia a Israele. Lo stesso avviene con Nardo De Benedetti. La Repubblica viene rapidamente inondata di adesioni, ma anche di tante lettere di protesta. E’ come se l’appello di Primo Levi avesse dato libero sfogo a tensioni e turbamenti identitari profondi.

 

Il 12 giugno 1982 Levi prosegue con una intervista a Giorgio Calcagno della Stampa. E’ lì che spiega perché non sta più con Israele. “Ho giudicato il sionismo una forza e una necessità politica. Questa gente non poteva che seguire un verbo che aveva una forma biblica. Oggi la questione si è complicata, perché la Palestina è in un nodo geografico sotto tensioni spaventose, costretta a una difesa costosissima e logorante, che spinge anche ad azioni temerarie o politicamente sbagliate. Il sionismo di allora pensava a un paese contadino. Israele, oggi è diventato un paese militare e industriale”.

 

In un’intervista del 27 giugno 1982 rilasciata ad Alberto Stabile di Repubblica, Levi infine denuncia che tra le persecuzioni subite dagli ebrei quarant’anni prima e la tragedia dei palestinesi c’è “qualche analogia”. E in un’intervista del 24 settembre 1982, sempre su Repubblica, commenta così la strage di Sabra e Chatila: “Io non ho mai reazioni istintive. Se le ho, le reprimo. All’inizio, ho avuto il dubbio che fosse davvero accaduto. Poi ho compreso che era tutto vero. Allora la strage in quei campi mi ha ricordato da vicino quello che hanno fatto i russi a Varsavia nell’agosto del 1944: stavano fermi sulla Vistola mentre i nazisti sterminavano i partigiani polacchi”. E’ soltanto uno dei molti accostamenti che Levi compie fra Israele e i totalitarismi.

 

Il 30 settembre 1984 arriva un’intervista sull’Espresso. Titolo emblematico e primoleviano, “Se questo è uno stato”. “Credo che stia a noi, ebrei della Diaspora, combattere”, dichiara Levi. “Ricordare ai nostri amici israeliani che essere ebrei vuol dire un’altra cosa”. L’Espresso gli fa notare che dal 1948 Israele reclama il primato della vita ebraica nel mondo. La risposta di Levi ci fa capire fino a che punto si è consumata la rottura: “No, ci ho meditato a lungo: il baricentro è nella Diaspora, torna a essere nella Diaspora. Io, ebreo diasporico, molto più italiano che ebreo, preferirei che il baricentro dell’ebraismo rimanesse fuori d’Israele”.

 

C’è chi ricorda, infine, che Levi si sarebbe riconciliato con Israele in quel capolavoro che è la sua ultima opera, “I sommersi e i salvati”. Ma anche in questo libro non c’è traccia dello stato ebraico, se non un breve, e molto equivoco, riferimento a Israele come “pretesto per un odio rinnovato”. La risposta più dura e autentica alle posizioni antisraeliane di Levi venne da un leader della comunità ebraica torinese, Sion Segre Amar, un “giellista”, un militante di Giustizia e Libertà, arrestato nel 1934 mentre tornava in Italia alla frontiera di Ponte Tresa. Con lui c’era un figlio di Giuseppe Levi, Mario, che si salvò buttandosi nel fiume. Sion Segre Amar rimase in carcere un anno, dove divise la cella con Leone Ginzburg. In risposta agli attacchi di Primo Levi e all’appello contro Israele pubblicato da Repubblica, Segre Amar gli scrisse una lettera aperta, dimenticata negli archivi. “Caro Primo, non ritengo sia possibile qui, diffondersi sui dettagli della vostra lettera, che merita meditazione, ma vorrebbe anche lunga e approfondita discussione. La maggior parte dei vostri giudizi, nella loro astrattezza e ovvietà, trova certo consenzienti la maggior parte di coloro le cui opinioni sono dettate dalla ragione. Ma certa confusione fra Olp e popolo palestinese, certa allusione a una ‘resistenza palestinese’ che avrebbe assunto in qualche momento posizioni diverse da quelle che partorirono Monaco, certa asserita e non dimostrata connivenza delle (tutte, dunque?) forze israeliane, certa preoccupazione per un ‘nuovo antisemitismo’ i cui ‘germi’ si potrebbero combattere combattendo ‘la politica del governo Begin in questo momento tragico per il popolo palestinese’, sono solo alcuni degli argomenti che non possono essere passati sotto silenzio (…). Tutti sogneremmo che almeno la nostra storia fosse diversa: che fosse immune da ingiustizie portate ad altri. Il sogno, è quanto di più intimo la nostra mente possiede; per questo matura nel silenzio e fuori della materia. Questo nostro sogno, di pace, a essere espresso, tramutato in parole e segni, rischia di venire tradito. Anche perché qui, nella Galuth (esilio ebraico, ndr), a essere gridato ad alta voce richiede meno coraggio che non là, dove da sempre si soffre”.

 

Mendel, il protagonista di “Se non ora quando?”, attraversa tutta l’Europa combattendo con un gruppo di coraggiosi partigiani ebrei sostenuti dal sogno di arrivare in Italia, e da lì imbarcarsi per l’allora Palestina sotto mandato britannico. Quando però la terra “del latte e del miele” è a portata di mano, Mendel si ferma, dubita, si angoscia, arretra e non segue i compagni nella loro ultima tappa, fino a Tel Aviv, dove imbracceranno le armi per difendersi, di nuovo. Per Primo Levi, l’ebraismo non consisteva in una meta, ma nel viaggio. Ma è una concezione, avrebbe detto un altro ebreo antisionista come George Steiner, “sconfitta dalla Shoah”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.