Lo sbirro sotto il casco

Stefano Di Michele

E’ così che stai da anni, magari pure adesso che di anni ne hai quasi cinquanta: e le ossa sono quelle che sono, e la pancia ormai pure, che preme e tira per i troppi panini e la bile. Da una vita stai così. E così stai per ore e ore, magari fino a quindici, a volte giorni interi – i piedi che non reggono più, la testa dentro il casco che toglie il respiro, la divisa che pesa addosso. Gli insulti – tanto che nemmeno ci fai più caso, “sbirro di merda!, pezzo di merda! pòorci schifosi!”, gli sputi, le uova che ti colano addosso, quella che fa finta di baciarti ma che invece vorrebbe sputarti, ti accarezza e vorrebbe artigliarti.

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    E’ così che stai da anni, magari pure adesso che di anni ne hai quasi cinquanta: e le ossa sono quelle che sono, e la pancia ormai pure, che preme e tira per i troppi panini e la bile. Da una vita stai così. E così stai per ore e ore, magari fino a quindici, a volte giorni interi – i piedi che non reggono più, la testa dentro il casco che toglie il respiro, la divisa che pesa addosso. Gli insulti – tanto che nemmeno ci fai più caso, “sbirro di merda!, pezzo di merda! pòorci schifosi!”, gli sputi, le uova che ti colano addosso, quella che fa finta di baciarti ma che invece vorrebbe sputarti, ti accarezza e vorrebbe artigliarti: quell’eroismo facile e gradasso e balordo e cinico (sono dei vanitosi, non dei disperati) dei Guevara de noantri, rivoluzionari immaginari con patologico protagonismo da Facebook. “Volevo ridicolizzare, umiliare”. Immobile stai: fermo, sale, statua – otto euro netti l’ora, sputo e insulto e rabbia compresi. Non dire. Non ti muovere. Forse non guardare. “So quali sono le regole d’ingaggio delle forze dell’ordine e ci ho giocato: so bene che non possono reagire alle provocazioni. Non mi sono limitata a baciarlo come si è visto in foto: gli ho detto delle cose per vedere se reagiva, ma lui è rimasto immobile. Era grottesco, come una macchina bloccata. Gli ho anche leccato la visiera, mi sono bagnata le dita e ho toccato le sue labbra. Il mio era un gesto di spregio verso le forze dell’ordine”. Dentro quei caschi c’è, ovviamente, di tutto: la testa che pensa, la testa che patisce, la testa matta dell’esaltato. Ma a quella testa va lo sputo, l’insulto, il sampietrino che la testa stessa apre e frulla il sangue con le uova: omelette antagonista. Sulla divisa sempre troppo stretta o troppo larga, troppo vecchia sempre. Dicono, quando il casco si tolgono, che si vorrebbe prendere a calci il muro per sfogarsi, e si vorrebbero far scendere pure lacrime per sfogarsi. Sei lì, sei l’Autorità, sei lo stato – sei il bersaglio, quasi niente, sei meno di niente certe volte. “La loro non è vita” – disse a un giornale quella del bacio e della saliva e della lingua sulla visiera. Disconosciuta esistenza, la tua. “Ma questa non è vita” – forse a volte dici a te stesso, quando il giorno finisce e sei pieno di voci nella testa e fuochi negli occhi e muscoli dolenti dappertutto, e domani si ricomincia.

    Magari per questo l’altro giorno si sono tolti i caschi – che sono tutti uguali, e le facce sono tutte diverse. E facce affaticate quelle parevano, sguardi abbassati, come uno stupore nel metter fuori la testa – nel riprendere aria e la tua stessa faccia. Gli scudi da gladiatore stanco – di battaglia che mai finisce, peggio che nell’anfiteatro, peggio che con rete e tridenti. Ars dimicandi, nemmeno il celerino più matto si abitua per sempre. Magari è sfinita, la guardia (ché dicono così: guardia, quelli che al massimo vogliono insultare): e così, il giorno appresso, raccontavano alcuni di loro. Di sé, dei pochi soldi, della quotidiana paura, della diurna rabbia. O il “porco!” o il dito medio che ti hanno alzato contro – che dopo ore e una lunga doccia ancora stanno sulla pelle, racconta un amico sbirro: come malattia, lebbra che non passa. “Chi può sape’ che cavolo ci sia / nel core di un solerte funzionario / dell’alta poliziaaaaaa!!!!!!” – cantava Vittorio Gassman, viscido Scarpia nella “Tosca”. Ma tu mica sei alta polizia, contorta burocrazia, sbirro de piazza e sbirro de corteo – basco nero che certi coglioni ti vogliono al cimitero, celerino che hai gli insulti pure dalle “jene degli stadi” (Franco Battiato) e non solo dalle jene delle strade, “noi siamo quelli che non dicono mai basta / vi diamo le cinghiate sulla testa / bastardo celerino te lo giuro / se prendo il manganello te lo ficco in culo”, fiamme gialle e fuoco che arroventa. Sei la polizia sul marciapiede, al centro della strada, là dove parte la molotov e il cassonetto brucia e il fumo penetra dentro il casco e cala nel petto come un pugno. Poi, certo, c’è tanta brava gente in piazza, che a volte ti sembra di vedere nella loro la tua stanchezza – così la barricata pare meno alta, il fossato meno ampio, il fuoco meno ardente. Uno sfiorarsi, non uno scontrarsi. Chi pensa, da un fronte all’altro, che un limite c’è, e che un limite non si supera: perché il celerino protegge, e protegge pure il manifestante. Non una resa – mica puoi arrenderti a chi vuole il tuo sangue e la testa spaccarti o sfregiartela a cinghiate, piuttosto un riconoscersi (un farsi riconoscere) dal meglio che oltre lo schermo del casco c’è: un disperato/preoccupato che ti somiglia, dentro quel fumo dei falò, dentro quel sonno che non arriva. Ma uno stato, se vuole reggere, se vuole esistere, non confonde i ruoli – e tu sei poliziotto e carabiniere e finanziere, proteggere e difendere e limitare devi, sennò non esisti, né paradossalmente esistono quelli che davanti ti sfilano, persino i cretini o i banditi che ti insultano. Mica c’entra Pasolini – che figurarsi, allora come adesso, che voglia di stare con uno stronzetto figlio di papà: solo buon senso.

    Ora Grillo dice che ti devi rifiutare di scortare i politici, non proteggerli più, di non fare più barriera col tuo corpo davanti ai Palazzi (del potere, dicono; delle istituzioni, pare più vero). E figurarsi, sotto quei caschi, quanti vaffanculo arrivati – a raffiche, silenziose raffiche: al ministro stronzo, l’onorevole cafone, il sottosegretario arraffone, la malagente, “uomini vocianti che strascinano / pacchi di soldi forse male guadagnati”, buffoni e ladri ed eletti. Tanti di quei vaffanculo da fare un vaffa che dura dodici mesi, altro che un day – il ridicolo stitico vaffa ticket. Mica è il primo, il vaffanculista genovese – con una simile pensata, con una simile aspirazione. Ma sempre una cosa sono gli sbirri, e sempre una cosa diversa sono gli altri – e Grillo vuole solo che tu non sia ciò che sei, che ti annulli, che ti cancelli. Cosa sei poliziotto, se non fai il poliziotto? Cosa resta, infine, di quel poco o di quel tanto che faticosamente resiste? Poi, tolto il casco e arrotolati gli striscioni, si sa: complicata la vita, belle le sue complicazioni. E certi amici sbirri – smessa l’armatura di stoffa che si fa sempre più sottile, consumata da anni e scontri, perché poi chi cazzo te la cambia mai?, come ce l’hai te la tieni!, hanno pensieri e curiosità quasi più sovversivi e sorprendenti (di vita, di letture, di amori) di tanti che sulla pubblica via si pavoneggiano spazzolandosi la loro icona di (finti) martiri rivoluzionari avvolti dal tedio, dalle parole fatte, dal ferro e dalla pietra dei loro pensieri.

    E pure, nell’Anno Domini 2013 – sinistri scricchiolii si sentono lungo la Penisola. Ti sputo, sbirro. Passa con noi, sbirro. Non fare il tuo lavoro, sbirro. Come se sempre bastassero i fiori da una parte, come se sempre bastassero i manganelli dall’altra. Ma è una storia più antica di ogni cronaca – di ogni quotidiano stupore, quello degli estremi che finiscono col toccarsi. Persino negli anni Cinquanta, persino quando davvero la Celere in piazza era pura repressione (109 civili uccisi, “un numero di vittime difficilmente giustificabile non solo dal punto di vista umano e politico, ma anche da quello tecnico-professionale”, scrivono Donatella della Porta e Herbert Reiter nello studio “Polizia e protesta”), sparo facile, manganello sempre in azione – ed erano operai e contadini: non per dire, ma certo pure le controparti hanno diverse dignità. E andarono a manganellare persino i tubercolotici all’ospedale di Firenze, e c’era certo da vergognarsi ad andare, e il ministro Scelba (era, il celerino, pure detto scelbino: sua creazione, a sua immagine) poteva così riassumere i sei morti e i cinquanta feriti di Modena: “C’era una fabbrica occupata. Venne l’ordine di sgomberare la fabbrica. Un agente, durante l’azione, si sentì minacciato e sparò per difendersi. Ecco i morti di Modena”. Così: indecorosamente. Dall’altra parte i militanti comunisti (il Pci togliattiano, grosso e minaccioso e filosovietico, mica la ciarliera pantomima attuale da pub e da Twitter, forconisti e vandeani e centrosociali – questi ultimi un po’ a loro stessi abbandonati, un po’ tendenzialmente sfaccendati – jacquerie di veri disperati e di non pochi fatui) rudi e tosti fronteggiavano i celerini cantando: “E se la polizia ’n ce lascia perde / e se la polizia ’n ce lascia in pace / risponderemo sulle barricate / piombo su piombo”. Eppure – proprio perché solo la granitica stupidità impedisce di vedere e di pensare oltre bianco/nero, io/tu, buono/cattivo – dietro l’apparente immobilismo ferroso, molte cose nell’ombra finivano con lo sfiorarsi prima, con l’intrecciarsi poi.

    E così fu che il 25 agosto 1950 “un forte nucleo dei tuoi fedeli sottufficiali e carabinieri” scrisse “al compagno Di Vittorio”, mitico segretario della Cgil. “Ancora risuona nei nostri animi l’eco armonioso della tua possente voce dell’indimenticabile discorso del 2 giugno a Piazza del Popolo – facevano sapere marescialli e appuntati al capo comunista – Armati di bombe e mitra ci disposero in ogni angolo della piazza come a bada dei leoni del Colosseo. La sporca coscienza dei clericali impose un imponente spreco di forze”. Fedeli nei secoli, e fedeli al Partito – nella coscienza, perlomeno, essendo la pubblica adesione vietata e sconsigliata. “Apparentemente rimanemmo immobili ai posti assegnati, perché minacciati, ma intimamente il nostro pensiero era legato a quanto esponevi ed al di là della divisa. Come se tu sentissi il battito dei nostri cuori, il tuo accenno a noi carabinieri, figli del popolo, ci fece riempire di gioia l’animo e ci sentimmo ancora maggiormente legati alla classe dei lavoratori”. Ciò che il colonnello doveva ignorare, ciò che il generale mai avrebbe saputo, la truppa confidava al capo sindacale: “Siamo molti, moltissimi che simboleggiamo per quest’idea tua, ma purtroppo vi è fra noi qualche elemento che ci sorveglia e dobbiamo soffocarla apparentemente. La fede è grande e non ci spaventa questo sistema infame”. Così dicevano, quei carabinieri: “Sistema infame”. Sempre a Di Vittorio, il 27 dicembre 1950, scrive “un discreto numero di agenti di Ps”, e dunque “ci rivolgiamo all’eccellenza vostra, uomo magnanimo, che dedica la vita per la giustiza del povero e dell’umile lavoratore, perorando le giuste cause con calore, per il bene dell’umanità che trova solo ingiustizie e disillusioni”. Il 1° aprile del 1952, “un devotissimo gruppo di appuntati della Guardia di Finanza e dei Carabinieri” prende carta e penna e “si rivolgono a Lei, maggiore esponente dei diritti del popolo, affinché Ella ottenga dal nostro Governo quanto i militari delle due Armi ardentemente desiderano”. Un “gruppo di carabinieri”, quattro anni dopo: “Chi potrebbe aiutarci è all’oscuro di tante cose; voglia Lei onorevole con la sua opera sempre pronta verso i più miseri venirci incontro col suo aiuto presso i responsabili e far sì che si ravvedano e provvedano giustamente per tutti”. Settembre 1956, lettera firmata “la Polizia d’Italia”, sempre al dirigente comunista: “Ill.mo Onorev. Di Vittorio, facciamo appello alla Vostra Clemenza perché vogliate intervenire a tutela dei nostri diritti che, purtroppo, vengono del tutto abbandonati. Abbiamo, come sempre, apprezzato il vostro vivo interessamento per tutte le classi sociali e chiediamo a Voi, Ill.mo On., che prendiate in considerazione anche la nostra situazione, la quale è del tutto esasperante, perché ci è impossibile andare avanti così”. E ancora marescialli, brigadieri, vicebrigadieri, agenti di custodia, ecc. ecc. Pensioni, carriere, stipendio, mensa, divise, trasferimenti, paure, matrimoni… Lettere conservate negli archivi della Cgil e pubblicate qualche anno fa, a cura di Myriam Bergamaschi, in un libro, “Caro papà Di Vittorio…” (edizioni Guerini e Associati).

    I mondi che si fronteggiano, inevitabilmente finiscono col conoscersi un po’ – l’odio può accrescersi, ma pure la curiosità aumentare. Fu il sommo latinista Concetto Marchesi che sull’Unità pubblicò un corsivo intitolato “Malviventi in divisa” dopo essere stato malmenato dai celerini in piazza Colonna, e quando urlò che era un parlamentare quelli ancora più forte randellarono. Lo stesso successe negli anni Cinquanta a Pietro Ingrao, proprio sotto la sede del Messaggero, a via del Tritone. Raccontò l’ex presidente della Camera: “Una squadra di polizia era riuscita a stringere un piccolo nucleo di manifestanti e menava duro. Mi intromisi protestando. A domanda, tirai fuori come risposta il tesserino da deputato. Il poliziotto furente che mi stava di fronte rispose con una secca randellata sulla mia testa. Non era nulla di grave. Ma il manganello toccò un punto del cuoio capelluto molto irrorato, quindi il sangue veniva giù copiosamente. Tra le urla e i fischi, mentre una compagna gentile con un fazzoletto cercava di fermare il sangue sulla mia zucca…”. Quelli volevano fare (almeno far finta di voler fare) la rivoluzione, quegli altri la rivoluzione (credevano, facevano finta di credere) vedevano imminente. Però, lo stesso, scrivevano all’Unità – dopo aver deciso, alla fine degli anni Sessanta, che Ps stava per “Poveri sfruttati”. “Io non posso scioperare né manifestare. Il netturbino sì. Io non ho un sindacato. Il netturbino sì”. Metaforicamente, oltre quarant’anni fa, con i cronisti dell’Unità i celerini già si toglievano il casco: “Siamo diventati quelli del manganello. Basta una riunione di studenti o una fabbrica in sciopero e a noi tocca restare a disposizione in caserma. Per gli scioperi alla Fiat ci hanno tenuto 13 ore in servizio e dopo tre ore di sonno eravamo di nuovo sui tigrotti ai cancelli di Mirafiori. Quando si è stanchi, con i nervi a pezzi, si carica e si picchia con più rabbia”. E Fortebraccio, sempre sull’Unità, alto volava: “E quando si è trattato di annoverare gli agenti come lavoratori e come fratelli, spinti al loro mestiere da comandi che, in molti casi, li hanno indotti persino al delitto, chi sono state le prime, se non le sinistre con i comunisti in testa, a ricordare la miseria dalla quale provenivano…”. Vennero i poveri morti del terrorismo, manifesto del Pci negli anni Settanta: “Sparano alla divisa, dentro c’è un uomo. Sparano a tutti noi”: il contorno di un corpo disegnato sull’asfalto col gesso, un cappello da sbirro rovesciato a terra. Scrisse il capo della polizia, Vincenzo Parisi, su Polizia Moderna (era ormai l’89): “Ci poniamo, nei confronti di queste problematiche, con una profonda volontà di comprensione, verso coloro che sono in piazza, che vivono gravi momenti di disagio come i disoccupati, i senzatetto, i cassaintegrati. Siamo aperti al dialogo sull’ecologia, nei confronti della quale è tanto sensibile il mondo di oggi; siamo tutti per la pace”.

    Quindi figurarsi che scoperta, quella di Grillo. Manco fossero, gli sbirri nostri, i marinai della Potëmkin. C’è un uomo nella divisa; c’è la testa di un uomo sotto il casco. A volte c’è un cervello nella testa. A volte pure no. Ma questo sempre vale per ogni testa che bordeggia quella barricata.

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