Postumi a se stessi
La verità, sconsolante quanto si vuole, è che non siamo pronti per Matteo Renzi: né io né voi. Come quei convalescenti che si affezionano al letto d'ospedale e che trovano conforto nel rigirarne e sprimacciarne all'infinito il cuscino, sappiamo in astratto che dovremo alzarci, che prima o poi saremo dimessi, ma abbiamo bisogno di indugiare ancora un poco sulle vecchie diatribe, sulle vecchie scaramucce, sulle vecchie ragioni d'incazzatura.
La verità, sconsolante quanto si vuole, è che non siamo pronti per Matteo Renzi: né io né voi. Come quei convalescenti che si affezionano al letto d’ospedale e che trovano conforto nel rigirarne e sprimacciarne all’infinito il cuscino, sappiamo in astratto che dovremo alzarci, che prima o poi saremo dimessi, ma abbiamo bisogno di indugiare ancora un poco sulle vecchie diatribe, sulle vecchie scaramucce, sulle vecchie ragioni d’incazzatura. E così, quando un amico mi ha segnalato che giovedì al Teatro San Genesio di Roma c’erano Caselli e Ingroia a presentare il loro libro “Vent’anni contro”, e che con loro c’era pure Travaglio, e che era previsto perfino Camilleri, ero così ringalluzzito che ho perso il conto dei piccioni e delle fave, sono montato sul primo autobus e ho occupato un posto da habitué con la migliore vista sul palco. Non mi aspettavo di sentire niente di nuovo, solo pezzi di repertorio e “standards”, le care atrocità di sempre. Suonala ancora Antonio, suonala ancora Marco: per me. Sono stato esaudito, come quelli che vanno ai concerti degli Inti Illimani. Tutte le hanno dette, che Brusca è il padre della Bicamerale, che l’attentato a Costanzo era un segnale di Cosa nostra per forzare la discesa in campo di Berlusconi, e poi l’amico Falcone, il mio maestro Borsellino, l’agenda “rròssa”, la trattativa indicibile, e i pezzi dello stato che usano Riina come un burattino, e l’ambiguo Napolitano, e siamo tutti con Di Matteo, e teniamo alta la tensione della lotta alla mafia, e non lasciamoli soli (in coda, tra gli applausi, un paio di bis su Borsellino).
C’era quell’aria natalizia di famiglia, quel piacere di ritrovare glorie al tramonto – Caselli pensionato, Ingroia fluttuante nello spazio cosmico come quegli astronauti che hanno perso ogni ancoraggio, Travaglio ingrigito e spelacchiato che, al pari di certi zii bizzosi ma in fondo innocui, scrive ormai per i piccoli fan delle scuole superiori divertendoli con i suoi nomignoli. Sentivo di voler bene a tutti. Poi però la scenografia ha attirato la mia attenzione. Quattro poltrone rosso fuoco su un palcoscenico nero come la pece, una porticina serrata sullo sfondo, qualche scampolo di attrezzeria teatrale: uno scenario astratto, stilizzato, metafisico. E ho capito, con un brivido, che quella che stava andando in scena era una variazione su “Huis clos” di Sartre, e che eravamo tutti morti e tutti all’inferno senza saperlo, condannati a sparare in eterno le stesse cazzate, a commentarle, a ridacchiarne. Volevo scappare.
Ho provato a scrollarmi di dosso questa rivelazione perturbante, ma ormai ero caduto in una zona crepuscolare ai confini della realtà, e quando ho acceso il televisore con l’intenzione di scacciar via l’incubo sono stato assalito da un nuovo brivido. A “Servizio pubblico” c’era Santoro che intervistava Barbara Spinelli, reduce peraltro da un editoriale necrofilo che avrebbe mandato la cena per traverso a Kay Scarpetta, dove allestiva un paragone meticoloso e protratto tra il regime italiano e un cadavere incartapecorito il cui ventre gorgoglia anche dopo morto. Ma non era propriamente un’intervista, era uno strano spettacolo di marionette e di ventriloqui, o un dialogo nel regno dei morti. Santoro era Santoro ma non era Santoro, leggeva (o almeno così si è capito) delle domande di un’intervista fatta da Travaglio, che però era lì accanto, in teoria vivo e vegeto e parlante; e Barbara Spinelli non era Barbara Spinelli, viva anch’essa in teoria, era un’attrice più giovane di quarant’anni che recitava la parte di Barbara Spinelli intervistata da Travaglio interpretato da Santoro, il tutto per ricostruire un vecchio colloquio tra Spinelli e Napolitano su De Magistris, citando Bobbio, Montanelli, Biagi… Lo sentite anche voi il brivido, adesso? Vi è spuntato il sesto senso? Vedete anche voi la gente morta?
Siamo tutti postumi a noi stessi e gesticoliamo a vanvera su un palcoscenico infernale. Ed è a questo punto che un bravo drammaturgo, o anche solo compassionevole, calerebbe sulla scena un deus ex machina. Matteo, rottamaci.
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