I figli perduti della Cina
Nella storia della legge cinese che dal 1979 obbliga al figlio unico, mancava solo l'autodafé di un personaggio famoso come Zhang Yimou, il regista di “Lanterne rosse”. Denunciato e braccato nel suo paese come fuorilegge procreativo, con i suoi sette figli (gli ultimi tre avuti dall'attuale convivente), ora è pronto – stando al quotidiano spagnolo Mundo – a scusarsi con le autorità e a fare non solo metaforicamente ammenda. La multa che lo aspetta, a indagini concluse e a violazione accertata (ma ormai è reo confesso) ammonta a diciannove milioni di euro.
Nella storia della legge cinese che dal 1979 obbliga al figlio unico, mancava solo l’autodafé di un personaggio famoso come Zhang Yimou, il regista di “Lanterne rosse”. Denunciato e braccato nel suo paese come fuorilegge procreativo, con i suoi sette figli (gli ultimi tre avuti dall’attuale convivente), ora è pronto – stando al quotidiano spagnolo Mundo – a scusarsi con le autorità e a fare non solo metaforicamente ammenda. La multa che lo aspetta, a indagini concluse e a violazione accertata (ma ormai è reo confesso) ammonta a diciannove milioni di euro.
L’episodio, risalente a pochi giorni fa, commenta come meglio non si potrebbe la pretesa “marcia indietro” della Cina rispetto alla politica del figlio unico obbligatorio, in nome della quale sono stati praticati centinaia di milioni di aborti e vengono tuttora calpestati i più basilari diritti umani. Le cifre ufficiali del ministero della Salute di Pechino parlano di 336 milioni di aborti dal 1979 (data in cui la legge ha cominciato a funzionare) e di 196 milioni di uomini e donne sterilizzati. Non raccontano però che la gran parte di questi interventi sono stati coatti. Una cauta promessa di ammorbidimento della legge era stata inserita nel comunicato finale del terzo plenum del Comitato centrale comunista, lo scorso novembre, con la possibilità di consentire alle coppie in cui uno dei due componenti sia figlio unico di avere due figli. La nuova regola dovrebbe essere applicata anche alle città, mentre in alcune zone rurali e per alcune minoranze etniche già esiste la possibilità di avere due figli (a patto però che il primo nato sia di sesso femminile o disabile), e se nella coppia entrambi i coniugi sono figli unici. Dal 2002, inoltre, avere un secondo figlio è già possibile per chi sia disposto a pagare multe che vanno dai 25.000 ai 100.000 euro, cifre riservate ai ricchissimi e ai burocrati di partito. Per tutti gli altri c’è la galera, la demolizione della casa, la perdita del lavoro, l’ostracismo, la sterilizzazione forzata. La “disobbedienza procreativa” è punita con azioni esemplari, con una ferocia di cui possiamo leggere nei racconti dello scrittore Mo Yan, in particolare nel romanzo “Le rane” (tradotto in Italia da Einaudi).
Sono bastati pochi giorni per capire che la svolta non c’è stata. Lo ha detto lo stesso vicedirettore della commissione per la Pianificazione familiare e la salute nazionale, Wang Pei’an, in un’intervista all’agenzia di stato Xinhua. Non ci sarà alcun “rilassamento” nella politica di controllo delle nascite, “una fondamentale politica di stato che sarà mantenuta ancora per molto tempo”, mentre “ogni provincia deciderà se e quando attuare” l’annunciata modifica riguardante le coppie in cui uno dei due coniugi è figlio unico.
La mostruosa macchina burocratico-coercitiva legata alla legge sul figlio unico non ha nessuna intenzione di smobilitare. Non vuole smobilitare quel mezzo milione di funzionari, con le commissioni e le sottocommissioni responsabili fino al più piccolo villaggio del paese, il sistema di delazione e di multe per i trasgressori, le promozioni e i premi per i funzionari che raggiungono gli obiettivi (poche nascite, meglio nessuna), il personale medico e infermieristico incaricato di visitare le donne in età fertile (soprattutto nelle zone rurali, quattro volte l’anno, per accertarsi che non siano illegalmente incinte ed eventualmente procedere agli aborti, anche all’ottavo o nono mese: in pratica si tratta di soppressione di nati). Tutto questo apparato, e il potere che consente di esercitare, è assai più resistente non tanto e non solo della nuova o millantata attenzione per i diritti umani, ma degli stessi allarmi sul futuro economico, e sul futuro tout-court, della Cina. Il Time di due settimane fa – titolo di copertina: “La crisi del figlio unico” – ha scritto che “nell’attuare il più grande esperimento di ingegneria sociale della storia umana, la Repubblica popolare ha semplicemente scambiato una bomba demografica a orologeria per un’altra”. Perché la nazione più popolosa del mondo, con un miliardo e 350 milioni di persone, “avrà presto troppo poche persone – o meglio, troppo poche persone del tipo giusto. Più di tre decenni di pianificazione familiare imposta dal governo, la cosiddetta politica del figlio unico, hanno ottenuto risultati al di là dei più grandiosi sogni degli artefici”. Ma quei sogni destinati a trasformarsi in tre incubi demografici: “Troppo pochi giovani, troppe poche donne e troppi anziani. Su Review, una rivista pubblicata dal Population Council di New York City, tre importanti demografi cinesi prevedono che ‘la politica del figlio unico sarà aggiunta ad altri errori mortali nella recente storia cinese’, accanto agli anni turbolenti della Rivoluzione culturale, 1966-1976, e alla devastante carestia artificiale del 1959-’61”. Scrivono i tre studiosi che i danni in termini di perdita di decine di milioni di vite umane provocati da questi due “errori” saranno superati, come impatto e come irreversibilità, da quelli indotti dalla politica del figlio unico: “Oggi le donne cinesi hanno, in media, circa 1,5 figli, secondo stime indipendenti, rispetto ai circa sei della fine del 1960 – scrive il Time – e per mantenere la propria popolazione, una nazione ha bisogno di un tasso di fecondità di almeno 2,1 bambini per donna. Entro il 2030, la popolazione della Cina dovrebbe raggiungere un picco di poco meno di 1,4 miliardi, per poi cominciare un lungo declino”.
Significa che nel 2050 un cinese su tre avrà più di sessant’anni, e un singolo in età lavorativa sarà potenzialmente (e pensionisticamente) responsabile per sei anziani, la coppia di genitori e le due di nonni. E’ questa la bomba demografica al contrario, che già manifesta i suoi frutti: secondo l’Ufficio statistico nazionale, lo scorso anno per la prima volta in Cina la popolazione in età lavorativa si è ridotta. E’ una serissima preoccupazione, scrive il Time, “per un governo che dipende dall’abbondante manodopera per promuovere la crescita economica, a sua volta necessaria per la stabilità sociale”.
Si annuncia, riassumendo, l’impossibilità di sostenere in futuro il sistema pensionistico e di mantenere la base produttiva del paese, e con essa il vantaggio competitivo derivante dall’abbondanza di forza lavoro. Di fronte a tutto questo, dice al Time un esperto di popolazione dell’Università di Pechino, gli stessi modesti aggiustamenti alla legge del figlio unico potrebbero portare un milione di nascite in più ogni anno: “Troppo poco e troppo tardi”.
L’altra piaga, di cui molto ma mai abbastanza si sta parlando negli ultimi anni, è quella dello squilibrio tra i sessi, provocato dagli aborti selettivi delle bambine in un paese che, alla tradizionale preferenza per i maschi, aggiunge l’obbligo del figlio unico, che quindi “deve” essere maschio. Il normale rapporto tra maschi e femmine – la cosiddetta sex ratio – è di 105 a 100, in condizioni normali e a ogni latitudine, se non intervengono fattori artificiali. In Cina, gli aborti selettivi hanno fatto salire nel 2011 la sex ratio a 119 a 100, e in certe province addirittura a 135 maschi ogni 100 femmine. Reggie Littlejohn, l’attivista americana che con l’associazione di cui è fondatrice, Women’s Rights Without Frontiers, combatte contro le sterilizzazioni e gli aborti forzati in Cina, ha detto in un’intervista ad AsiaNews che “sembra di assistere a un disastro demografico a rallentatore. Oggi in Cina ci sono 37 milioni di uomini in più rispetto alle donne e questo destabilizza la società: genera tr affico di esseri umani, dentro e fuori il paese; favorisce la criminalità; molte donne vengono rapite e vendute come mogli… Questo ha creato i cosiddetti ‘villaggi degli scapoli’, dove vivono solo uomini. Sono zone molto remote e gli abitanti vengono chiamati ‘bare branches’, ‘rami nudi’, perché non porteranno mai avanti il loro albero genealogico”. Dice il Time che “la loro crescente frustrazione rappresenta un’enorme minaccia per il Partito comunista – giovani uomini privi di legami sono un perfetto bacino demografico di protesta. Già ora decine di manifestazioni su piccola scala scoppiano ogni giorno in Cina, nonostante il governo spenda 125 miliardi dollari l’anno per quello che definisce ‘mantenimento della stabilità’, più di tutto il suo bilancio della difesa”. Un altro effetto indotto dallo squilibrio tra i sessi è la bolla immobiliare nelle grandi città. I giovani maschi diventano competitivi sul mercato matrimoniale solo se possono permettersi una casa.
Sempre sul Time, si racconta del villaggio di Fangcheng, una comunità nella provincia di Henan della Cina centrale. Nella scuola elementare, la classe del maestro Yin Le ha 27 ragazzi e 13 ragazze. Quella proporzione, soprattutto nelle zone rurali, è ormai la regola, e poche donne significa anche che il crollo demografico sarà ancora più spaventoso (e intanto, nel 2012, 13.600 scuole elementari sono state chiuse per mancanza di alunni). Un altro effetto collaterale della legge sul figlio unico è la compravendita dei neonati. Di recente il quotidiano Youth Daily ha raccontato di una funzionaria addetta alla pianificazione familiare della provincia del Fujian che ha venduto un bambino – probabilmente un neonato “illegale”, nato dove già c’era l’unico figlio consentito – a una coppia, che a sua volta lo ha rivenduto, e così per altre due volte. A ogni passaggio il prezzo del piccolo maschio aumentava. Era almeno la quarta volta che la funzionaria integrava così lo stipendio statale.
Ora sono in molti a domandarsi, anche in Cina: ne valeva la pena? La risposta prevalente dei demografi è che no, non ne valeva affatto la pena. Perché la riduzione del tasso di fecondità delle donne, anche nei paesi molto popolosi dove però le politiche coercitive alla cinese non ci sono state, è spontaneamente diminuito con l’alfabetizzazione e l’accesso al lavoro. Il “risparmio” di quattrocento milioni di nascite, al quale i dirigenti cinesi attribuiscono lo sviluppo economico del paese, secondo più aggiornati studi di demografia sarebbe stato pari o di poco inferiore anche se non si fosse adottata la politica del figlio unico, e non si sarebbe innescata la bomba a orologeria al contrario di cui parla Time.
Molto si capisce guardando alle origini. Come è accaduto che la Cina passasse dall’incitamento maoista a fare molti figli alla “yitaihua”, la politica del figlio unico? Lo spiega Anna Meldolesi nel suo bel libro, “Mai nate. Perché il mondo ha perso 100 milioni di donne” (Mondadori), dedicato al fenomeno dell’aborto selettivo delle femmine in Asia ma anche nelle comunità orientali in occidente e in alcuni paesi dell’ex blocco sovietico. Nel capitolo dedicato alla Cina (dove, solo in teoria, l’aborto selettivo per sesso sarebbe vietato), si racconta di come l’idea di controllare drasticamente le nascite prese corpo con la modernizzazione promossa da Deng Xiaoping. All’inizio, lo slogan era: “Uno non è poco, due è giusto, tre è troppo”. Il primo figlio non doveva nascere prima che la madre avesse compiuto ventiquattro anni, e tra il primo e il secondo dovevano passare almeno tre-quattro anni, a seconda del contesto, rurale o urbano. Si ottengono buoni risultati (si passa da sei a tre figli in media per donna) ma poi, alla fine degli anni Settanta, la svolta. Si deve a un astrofisico militare di formazione sovietica, Song Jian, la messa a punto di un progetto demografico che ora può apparire pazzoide ma che all’epoca, e fino a oggi, ha goduto dell’aura di scientificità. Come scrive Anna Meldolesi, “dal calcolo delle traiettorie missilistiche, incredibilmente, Song passa a contare le culle”. Fatale fu il suo incontro, nel 1978, con due specialisti olandesi della teoria dei giochi, seguaci del Club di Roma di Aurelio Peccei e dunque teorici della decrescita necessaria per impedire l’estinzione delle risorse energetiche e alimentari mondiali. Uno dei due esperti, Geert Jan Olsder, affascina Song Jian con un modello matematico di dinamiche demografiche applicate a un’isola virtuale. Ma quello che per lui è un sofisticato esercizio di calcolo sulla carta (basato oltretutto sui poco fondati assunti dell’“ambientalismo scientifico”), per l’astrofisico cinese diventerà la base teorica delle future politiche demografico-totalitarie del suo paese.
Sembra incredibile ma nasce così, da un personaggio che aveva sbagliato mestiere ma evidentemente dotato di grande capacità di convincimento, la teoria del figlio unico obbligatorio. Quando viene presentata al Congresso scientifico di Chengdu del 1979, di fronte a una schiera di demografi e funzionari provenienti da tutta la Cina, solo alcune voci perplesse si contrappongono. A essere conquistato dalla teoria è soprattutto il successore del Grande timoniere, Deng Xiaoping, che lega l’obiettivo di decrescita demografica alla “quattro modernizzazioni”. Il Quotidiano del popolo lancia una campagna martellante, parte la propaganda e il governo centrale assegna localmente le quote di nascite da non superare. Saranno i funzionari periferici, i volenterosi carnefici di donne e bambini cinesi. Chi ha denunciato le violenze contro i “fuorilegge procreativi”, come l’attivista cieco Chen Guangcheng, paga con la persecuzione e il carcere. Nell’aprile del 2012 Cheng stava scontando già da sei anni una condanna agli arresti domiciliari, e in coincidenza con l’arrivo a Pechino del segretario di stato americano, Hillary Clinton, è riuscito a raggiungerla nella capitale, da dove ha ottenuto di espatriare in America. Su ciò che concretamente ha comportato e comporta tuttora la “pianificazione familiare” in Cina, va letto il libro di un altro dissidente, Harry Wu, che dopo diciannove anni passati nei campi di lavoro è a sua volta espatriato negli Stati Uniti, dove ha fondato la Laogai Research Foundation (il libro, il cui titolo in inglese è: “Meglio dieci tombe che una nascita extra”, in italiano è “Strage di innocenti. La politica del figlio unico in Cina”, Guerini e Associati).
Ma, lo ripetiamo, anche volendo chiudere gli occhi sugli abomini causati dall’imposizione del figlio unico in Cina, rimane l’assurdità di una formula che, è sempre più evidente, sta portando sull’abisso demografico ed economico il paese. Eppure, scrive il Time, “ancora oggi il governo lega il suo successo economico al regime del figlio unico, trascurando di menzionare gli effetti negativi segnalati dagli scienziati sociali. Pechino agisce come un fratello maggiore saggio che dispensa consigli ad asiatici, africani e latinoamericani desiderosi di replicare nei loro paesi d’origine la traiettoria economica della Cina”.
Il fatto è che la Cina ha avuto e ha tuttora un importante complice, in quell’equivoco, nell’agenzia dell’Onu per la questione demografica (Unfpa). Nel 1978, alla vigilia della svolta cinese, l’Unfpa aveva firmato un memorandum d’intesa con Pechino, nel quale si fissavano obiettivi e forme di cooperazione. Da allora, l’agenzia ha fortemente contribuito a finanziare la politica coercitiva di controllo delle nascite, garantendo assistenza tecnica e organizzativa e soprattutto chiudendo gli occhi di fronte a reiterate e palesi violazioni dei diritti umani. Basti pensare che nel 1990, una nota dell’Unfpa per l’Usaid (l’agenzia americana per lo sviluppo che è anche la maggiore fonte di finanziamento per l’Unfpa) sosteneva che la politica cinese del figlio unico si basava sull’assenso volontario, e che non risultavano forme di coercizione. L’allora direttrice dell’Unfpa, la pachistana Nafis Sadik, nel 1991 dichiarò addirittura che l’esperienza cinese in materia di pianificazione doveva diventare un modello. A un certo punto, però, diventa impossibile negare l’evidenza. E allora Rafael Salas, a capo dell’Unfpa dal 1969 al 1987, scopre il “rispetto per la diversità culturale” e afferma che quello che vale per l’occidente in Cina non vale. Insomma, per gli standard cinesi, sterilizzazioni e aborti forzati non sono vere violazioni. Prima ancora, nel 1983, l’Onu aveva assegnato il premio per la popolazione a Qian Xinzhong, ministro per la Pianificazione familiare di Pechino, per la capacità di organizzare politiche di controllo delle nascite “su larga scala”.
Non poteva mancare l’appoggio degli ambientalisti Club di Roma style. Il botanico inglese David Bellamy (incredibile la quantità di dilettanti impegnati a propalare teorie demografiche senza fondamento), nell’introduzione a “The Gaia Atlas of Planet management” elogiò i cinesi che, consapevoli “dei limiti dell’ambiente, usano tale consapevolezza per pianificare in modo sostenibile la popolazione”. Molti elogi alla politica demografica cinese arrivarono anche dal Wwf, con motivazioni che, a leggerle alla luce di quel che oggi sappiamo – ma che anche allora era attingibile – suonano tragiche e grottesche allo stesso tempo: la Cina è additata come esempio per la capacità di “persuasione” nel “cambiare l’atteggiamento verso la gravidanza”.
Sulla natura dei mezzi di “persuasione”, andrebbe interpellata la Fondazione Laogai. Potrebbe raccontare di quei funzionari dell’Ufficio della pianificazione familiare della provincia di Henan che nel marzo del 2008 arrestarono una donna non sposata di 23 anni, al settimo mese di gravidanza, e di come uccisero il bambino dopo averle provocato il parto. Reggie Littlejohn potrebbe invece parlare di Jin Yani, una giovane donna incinta di nove mesi, sottoposta ad aborto forzato per aver portato avanti una gravidanza senza averne il permesso (serve sempre un documento di autorizzazione delle autorità locali per fare un figlio) e nonostante quello che attendeva fosse il suo primo bambino.
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