In principio era Berlinguer
La nostalgia di Berlinguer non è cosa nuova a sinistra, ma aveva raggiunto livelli di guardia all’ombra incombente delle primarie e chissà che non si rinfocoli per il trentennale della morte, l’11 giugno 2014, ora che per alcuni si è aggiunto un altro lutto da rielaborare. Lo spettro benevolo e ammonitore del Segretario si aggira un po’ ovunque di questi tempi, non solo nelle invocazioni di Gianni Cuperlo, sfortunato custode della nicchia dei Lari di partito, o nelle memorie d’infanzia di Giuseppe Civati, che alla morte di Berlinguer lega il proprio battesimo politico.
La nostalgia di Berlinguer non è cosa nuova a sinistra, ma aveva raggiunto livelli di guardia all’ombra incombente delle primarie e chissà che non si rinfocoli per il trentennale della morte, l’11 giugno 2014, ora che per alcuni si è aggiunto un altro lutto da rielaborare. Lo spettro benevolo e ammonitore del Segretario si aggira un po’ ovunque di questi tempi, non solo nelle invocazioni di Gianni Cuperlo, sfortunato custode della nicchia dei Lari di partito, o nelle memorie d’infanzia di Giuseppe Civati, che alla morte di Berlinguer lega il proprio battesimo politico. Aleggia sul romanzo di Francesco Piccolo “Il desiderio di essere come tutti”, ispira il monologo teatrale di Eugenio Allegri “Berlinguer. I pensieri lunghi” come pure il graphic novel “Arrivederci, Berlinguer” di Elettra Stamboulis e Gianluca Costantini. Paolo Rossi, nel suo ultimo spettacolo, dialoga con il portabandiera della “questione morale” per informarlo della miseria amorale in cui siamo precipitati, e a fine agosto, a Venezia, Mario Sesti e il musicista Teho Teardo lo avevano omaggiato con il breve film “La voce di Berlinguer”.
Nella affollata kermesse nostalgica non poteva certo mancare lui, Walter Veltroni, che dall’eredità berlingueriana ha saputo discostarsi in modi spesso coraggiosi, ma che ha annunciato per maggio il suo documentario “Quando c’era Berlinguer”, prodotto da Sky Cinema. Dichiara di essersi ispirato tra le altre cose ai film su Kennedy, ed è un dettaglio che non va lasciato cadere; perché in quel prodigioso alambicco che è la mente di Veltroni (reduce peraltro da un monologo all’Auditorium di Roma per i cinquant’anni dalla morte di JFK), i due reagenti – Kennedy e Berlinguer – si combinano in modi sorprendenti proprio grazie al catalizzatore del cinema. E il prodotto di questa reazione chimica, che ha implicazioni ben più vaste del solo Veltroni e dei suoi sincretismi ideologici a suo tempo fin troppo sbeffeggiati, si può descrivere in una formula semplice: la nostalgia di Berlinguer è diventata una forma di “vintage politico” che ha qualcosa (o molto) a che fare con il vintage cinematografico e televisivo, il gusto rétro per i film, gli oggetti, i personaggi di venti o trent’anni fa.
Che cos’è, in fin dei conti, il vintage? In un bel libro dello storico del cinema Emiliano Morreale, “L’invenzione della nostalgia”, si trova il necessario per distillarne l’essenza: è il vagheggiamento sentimentale di un’epoca forse mai esistita e che comunque non è necessario aver vissuto, un’“età dell’innocenza” da cui ci separa la cesura di un trauma storico, di un lutto irreparabile. Ed è una nostalgia creata in vitro, che nasce dai media e si alimenta dai media, che rimanda non tanto alla realtà di una stagione trascorsa quanto alle mille immagini che ne evocano l’atmosfera. Tutto nasce nell’America del dopo Kennedy, con il filone dei “nostalgia movies” inaugurato nei primi anni Settanta da “American Graffiti” di George Lucas. Lo schema di fondo è elementare, ma si porta dietro tutto un modo di scandire la memoria individuale e intrecciarla a quella collettiva: c’è un cataclisma simbolico – l’omicidio di Kennedy o la guerra in Vietnam, per lo più – che sancisce la “fine dell’innocenza”, personale e nazionale; per esorcizzare il disastro, o al contrario per acuire il rimpianto delle cose perdute, si restaura allora il feticcio malinconico e rassicurante degli anni Cinquanta, gli “Happy Days” di Fonzie, il miraggio retrospettivo di una società ancora sana, ottimista e piena di sogni, quando i ragazzi erano nel peggiore dei casi bulletti impomatati che coltivavano innocue trasgressioni e le ragazze, con le loro poodle skirt e le loro ballerine, sapevano ancora arrossire davanti al bellimbusto che le invitava al ballo di fine anno. Poi tutto è andato in malora, tutto contaminato, tutto corrotto.
Per qualche via lo schema deve aver attecchito dalle nostre parti, se prestiamo fede alla battuta maliziosa di Nanni Moretti in “Aprile”: “Io me li ricordo negli anni Settanta, a Roma, alla Figc, i giovani comunisti romani: stavano tutti i pomeriggi davanti al televisore a vedere ‘Happy Days’, Fonzie… E questa è la loro formazione politica, culturale, morale!”. Ma anche senza passare per Fonzie, tutto spinge a pensare che il mito nostalgico di Enrico Berlinguer e della stagione posta sotto il suo segno, interrotta da una morte anch’essa a suo modo spettacolare, sia diventato per i postcomunisti nostrani una variante locale, con tutte le differenze del caso, del mito dell’innocenza perduta a Dallas. C’erano una volta i comizi di piazza, le passioni politiche genuine, il calore delle feste di partito, il sentimento di comunità, in una parola c’era una volta la sinistra. Muore Berlinguer, e il senso della favola si smarrisce. Il presente è una terra straniera: la politica si fa astratta, manipolatoria, indecifrabile, arriva in scena quell’attore insidioso chiamato comunicazione. E’ l’inizio del buio, si potrebbe dire con Veltroni, padre indiscusso del vintage di sinistra, non per caso ossessionato dall’archetipo della fine dell’innocenza (il suo libro su Bob Kennedy si chiamava “Il sogno spezzato”, quello su Berlinguer “La sfida interrotta”) e collezionista dei piccoli feticci generazionali (programmi tv, figurine dei calciatori e soprattutto vecchi film) che danno il senso di una continuità immaginaria con un tempo irrecuperabile.
Di tutto questo, il romanzo di Francesco Piccolo “Il desiderio di essere come tutti” è una rivisitazione ironica e capovolta (in fin dei conti, la sua “vita impura” con Berlusconi, che occupa la seconda sezione del libro, è più umana, schietta e generosa della sua “vita pura” con Berlinguer); ma pur rimescolando le carte e ingarbugliando lo schema, ne lascia intatte le linee essenziali. I funerali di Berlinguer, e prima ancora il rapimento di Aldo Moro e il naufragio della prospettiva del compromesso storico, inaugurano il tempo che Piccolo chiama dell’“ormai”, quando si fa strada la sensazione scoraggiante che sia tutto finito, tutto alle spalle. Illusioni politiche e illusioni personali sono accomunate in una sola cerimonia funebre. E a questo sentimento della fine Piccolo mescola le avvisaglie di un nuovo inizio, impuro e minaccioso: è il 1984, nasce la Lega Lombarda, il governo Craxi emana il decreto Berlusconi che salva le tv private. Incipit vita nova.
L’accenno alla televisione commerciale è essenziale per illustrare il cortocircuito che si crea tra immaginario cinematografico e immaginario politico, e per capire come mai la nostalgia di Berlinguer si intreccia così spesso alla nostalgia del cinema – alla nostalgia cioè di un’altra vittima della nuova epoca inaugurata dagli anni Ottanta. In un saggio che apparirà sul prossimo numero della Rivista di politica di Rubbettino, Andrea Minuz, studioso di cinema e autore di un libro su “Fellini politico”, parla di “un gioco di specchi tra ‘crisi della sinistra’ e ‘crisi del cinema’ (specie del cinema italiano), in cui una diventa metafora dell’altra (c’era una volta il cinema, c’era una volta la sinistra)”. Il caso più vistoso è il film di Roberto Andò “Viva la libertà”, uscito a ridosso delle elezioni di febbraio, osannato da Repubblica, elogiato da Vendola e da Civati, perfino raccomandato da Scalfari a un riluttante Papa Francesco. Il protagonista (Toni Servillo), uomo folle e ispirato che si ritrova quasi per caso a guidare alla vittoria un grande partito di sinistra in crisi di consensi e di identità, ha per numi tutelari Enrico Berlinguer e Federico Fellini, e non certo il Fellini della “Dolce vita”, ma il tardo Fellini della campagna contro le interruzioni pubblicitarie nei film: “Fellini, insomma, come una variante artistica della ‘questione morale’”, scrive ancora Minuz; “Fellini travolto dall’imbarbarimento televisivo della società italiana cui ha provato a opporsi con gli ultimi aneliti del cinema”.
Le due nostalgie gemelle si compenetrano anche nel breve documentario “La voce di Berlinguer”, a giudicare dalle parole con cui lo stesso Mario Sesti lo presentava in un’intervista raccolta a Venezia: “In Italia la politica è stata un’esperienza così forte, così viva – come la musica, come il cinema – in cui tante persone insieme condividevano la stessa emozione”. I comizi di Berlinguer affiancati al rito condiviso della sala cinematografica, e la sua morte come trauma ancora immedicato: “Da una parte il film ci dà la percezione di un lutto… dall’altra l’idea che le cose avrebbero potuto davvero essere diverse e non lo sono state”. Il sogno spezzato, la sfida interrotta. Non per nulla il film si apre su una scena che è quasi l’equivalente simbolico, a sinistra, delle riprese di Zapruder dell’attentato a Dallas: il malore di Berlinguer nell’ultimo comizio di Padova a piazza della Frutta (il filmato inaugura anche il graphic novel “Arrivederci, Berlinguer”, dove è scomposto fotogramma per fotogramma in una interminabile agonia warholiana). E’ illuminante rileggere, all’indomani delle primarie, la recensione che l’Unità dedicò al film, dove sequenze di Bertolucci e Pasolini (altro feticcio vintage e assillo nostalgico del melodramma postcomunista) si alternano alle riprese dei volti dei compagni ammaliati dalla voce del Segretario, il tutto con un’estetica della “bassa definizione” che esalta le imperfezioni visive e sonore per dare, con un artificio, il senso di una realtà meno artificiale: “La sua voce echeggia sopra le folle di militanti, sui primi piani dei volti, delle bandiere, dei pugni chiusi. Uomini e donne, corpi, persone reali, quando ancora la politica non aveva conosciuto la ‘smaterializzazione’ della rete (…) in un’Italia che da lì a poco avrebbe conosciuto il baratro e la perdita di identità che oggi conosciamo tutti”. Le pellicole sgranate d’epoca come ultima chance di un ricongiungimento tutto immaginario con i “corpi” delle “persone reali”, con il fantasma di una comunità assente.
C’è qualcosa di ironico nel fatto che la nostalgia di un’epoca autentica, non ancora contaminata dalla tv e dallo spettacolo, sia alimentata da meccanismi della memoria collettiva che appartengono proprio alla società dello spettacolo e alla cultura televisiva, non così diversi da quelli che ispirano i remake affettuosi dei vecchi film, la poetica del revival, i canali tematici che ritrasmettono programmi di trent’anni fa. Ma ben più ironico è che il liquidatore del patrimonio sentimentale di tutta una generazione, quella dei “ragazzi di Berlinguer”, sia un giovanotto con addosso la giacca di Fonzie.
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