I tre segreti di Rohani
"Avevo vent’anni. Mio padre insisteva, mia madre pure e io non fui restio”. Sono le prime parole che il presidente iraniano Hassan Rohani ha pronunciato a proposito della moglie e sono anche le ultime. La primavera scorsa un sito iraniano (www.yjc.ir) ha provato a indagare la vita sentimentale di alcuni esponenti dell’intellighenzia khomeinista: l’ex comandante pasdaran Mohsen Rezai ha raccontato di aver messo il suo destino nelle mani della moglie di un ayatollah che gli ha presentato la giovane più brillante del suo corso di studi coranici.
Raineri In Siria Obama non ha più un interlocutore. Il più presentabile è in fuga
"Avevo vent’anni. Mio padre insisteva, mia madre pure e io non fui restio”. Sono le prime parole che il presidente iraniano Hassan Rohani ha pronunciato a proposito della moglie e sono anche le ultime. La primavera scorsa un sito iraniano (www.yjc.ir) ha provato a indagare la vita sentimentale di alcuni esponenti dell’intellighenzia khomeinista: l’ex comandante pasdaran Mohsen Rezai ha raccontato di aver messo il suo destino nelle mani della moglie di un ayatollah che gli ha presentato la giovane più brillante del suo corso di studi coranici. Gholam Ali Haddad Adel, consuocero di Khamenei ed ex presidente del Parlamento ci ha scherzato su: “Si è sposato tardi perché dopo ogni visita alla famiglia prescelta, la madre tornava indietro scuotendo la testa, oppure erano loro a non piacere alla ragazza”. Molti degli intervistati hanno fornito ulteriori dettagli sulla religiosità della sposa o la probità della sua stirpe, ma Rohani ha preferito non aggiungere altro e il riserbo non ha fatto che accrescere la curiosità.
Il basso profilo è tutt’altro che insolito nelle mogli dei politici iraniani (anche se persino Khojasteh Khamenei ha condiviso la sua ricetta per la felicità domestica: “Un tratto ammirevole del carattere di mio marito è che lascia i problemi di lavoro fuori dalla porta di casa”), la signora Rohani però non era riservata, ma invisibile, e proprio durante una campagna elettorale in cui se ne sono viste di tutti i colori: la moglie di un candidato riformista lamentarsi del marito incapace di scegliere un paio di scarpe da solo, il consigliere di Khamenei, Ali Akbar Velayati, ammettere in diretta: “Sì mi sono risposato due settimane fa”, al conduttore finto-incuriosito che, durante un dibattito, gli chiedeva conto della fede che gli luccicava al dito.
Non è lo stile Rohani, moglie e figli non hanno mai dato spettacolo, nessuna apparizione, neppure defilata ai comizi, nessuna passerella ai seggi. Così quando “lo sceicco della diplomazia” ha vinto le presidenziali è partita la caccia alla first lady. “La sposa aveva 14 anni e il matrimonio è andato come devono andare i matrimoni tradizionali” (ossia combinati), ha infine raccontato l’ottantaseienne madre del presidente sfinita dalle insistenze dei giornalisti. Quando, una settimana dopo il voto, l’identità della misteriosa moglie – la cugina Sahebeh Arabi – è stata infine rivelata dal corrispondente del New York Times, Thomas Erdbrink, lo staff presidenziale è subito corso ai ripari annunciando che la signora Rohani è una casalinga e non intende assumere alcun incarico ufficiale. Sahebeh è rimasta un mistero e nell’unica foto che circola sui media iraniani il suo volto è seminascosto da un chador nero.
“Non si è mai visto un politico più discreto di Rohani”, ha sottolineato il giornale online Mashreghnews, ma più che discreto il nuovo presidente iraniano è spasmodicamente attento: ogni dettaglio della sua immagine è studiato, perfezionato, limato come se la sua vita passasse e ripassasse sotto la lente d’ingrandimento di un correttore di bozze rivoluzionario. Rohani ha osservato da vicino la parabola di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani: sa meglio di chiunque altro che le segretarie troppo profumate, le notti scapestrate e le ricchezze sfrontate in Iran prima o poi ti chiedono il conto; pensa che la lingua tagliente di Effat Marashi (la moglie di Rafsanjani) sia stata una iattura; è persuaso che il giorno in cui, davanti a una Porsche che romba su via Fereshteh il brusio sancirà “i soliti Rohani” lui sarà finito, risucchiato nel Pantheon dei satrapi iraniani antichi e moderni a cui resta solo odio da amministrare. Così il presidente si guarda le spalle e preventivamente protegge i suoi cari, dalla notorietà e dagli inciampi. Se in Iran ci fosse un premio per la vita esemplare di un grand commis de l’état lo vincerebbe lui che ostenta calma quando trionfa e non si scompone che gli tirino addosso una scarpa o lo sfidino nel bel mezzo di un discorso. E’ in quei momenti che Rohani si sente più forte: il sopracciglio si inarca, la bocca accenna un sorriso beffardo e il presidente guarda i suoi nemici con l’aria saggia e vagamente arrogante di un professore che ha già visto tutto, proprio come qualche giorno fa all’Università Shahid Behesti. Un gruppo di basiji ha iniziato a gridare slogan sugli inalienabili diritti nucleari svenduti a Ginevra. “C’è stato un tempo in cui coloro che guidavano il movimento studentesco non accettavano né soldi né ordini dalle autorità”, li ha fustigati Rohani. “Non sono basiji, solo quelli che si definiscono tali: è un basiji chi sacrifica i suoi interessi per quelli della nazione della religione e dell’islam, abbiamo 75 milioni di basiji in questo paese!”.
Poi c’è l’altro Rohani, l’uomo che sa che essere rispettati è importante, ma offrire l’illusione di essere mite e accessibile, un iraniano come tanti altri, lo è altrettanto. Così, due settimane fa, tra il discorso all’Università Shahid Beheshti e un incontro con il presidente afghano Hamid Karzai, Rohani è stato immortalato mentre si inerpica per i sentieri di Tochal, la stazione sciistica più vicina alla capitale. “Che bella Teheran dopo giorni di pioggia e di neve”, ha cinguettato l’account Twitter gestito dai suoi collaboratori. “Ciò che rende queste arrampicate in montagna ancora più piacevoli al presidente è incontrare persone che condividono i suoi sogni”, ha spiegato l’agenzia Isna accompagnando i primi piani di Rohani in tuta da sci, racchette e cappellino da baseball incorniciati dalle vette degli Alborz ad altri scatti in cui ragazzi e ragazze gli si stringono intorno “per ringraziarlo”.
“Rohani mochakerim”, “Rohani ti siamo grati” è la sintesi dei suoi primi 100 giorni di mandato. Lo ringraziano un po’ tutti, europei, americani e iraniani, che l’accordo nucleare regga oppure no, perché sei mesi sono già stati conquistati, mesi per sperare di salvare la legacy di Barack Obama e insieme l’economia iraniana, mesi in cui l’Europa valuterà molti affari che potrebbe tornare a siglare, mesi in cui le centrifughe continueranno a girare e in cui l’arricchimento dell’uranio sarà stato tacitamente accettato. Per Rohani è la scommessa più emblematica di una presidenza che sulla politica estera ha puntato tutto perché non ci sono, all’orizzonte, altre ricette per salvare un’economia che con le sanzioni perde 5 milioni di dollari al giorno e d’altra parte si tratta anche di una partita molto più complessa: la sfida tra due visioni marcatamente diverse sul futuro dell’Iran. Agganciare Washington e l’Ue potrebbe voler dire sottrarre Teheran all’abbraccio mortale di russi e cinesi, che difendono l’Iran al Consiglio di sicurezza e al contempo guadagnano grazie alle sanzioni: Mosca beneficia dell’esclusione iraniana dal mercato del gas naturale; Pechino ottiene petrolio a prezzi stracciati che poi ripaga in yuan piuttosto che in dollari o in euro. Potrebbe anche voler dire un’altra cosa: neutralizzare i cosiddetti “Gengis Khanis”, i sostenitori a oltranza della geopolitica dello “sguardo a oriente”, il tutto a favore dei nazionalisti alla Rohani, il partito trasversale che interpreta l’interesse del regime come un amalgama di diktat ideologici, ma anche economici, politici e strategici.
Il presidente sa che sarà difficile, la Guida Suprema Ali Khamenei ondeggia tra un polo e l’altro e anche in Iran ci sono forze tutt’altro che favorevoli all’allentamento delle sanzioni. Non si tratta solo di falchi, contrabbandieri e speculatori. Come ha raccontato al New York Times l’analista politico ed economico Saeed Leylaz, “c’è una classe di nuovi ricchi che ha fatto fortuna grazie alle sanzioni”. Rohani li esorterà a reinvestire il bottino in Iran. “In tempi brevi non c’è ovviamente da aspettarsi un’inversione a U verso la trasparenza, lo sviluppo del settore privato, l’erosione del nepotismo e della corruzione”, precisa Leylaz, ma se l’avesse vinta il presidente “il peso dei pragmatici sull’economia iraniana crescerebbe”.
Ora che le cancellerie occidentali lo celebrano come lo “sceicco della diplomazia”, Rohani spunta all’improvviso come una figura centrale in alcune delle trattative più sensibili degli ultimi trent’anni: Foreign Policy lo inserisce tra gli interlocutori di Oliver North ai tempi dello scandalo Iran-Contra e il Washington Institute sottolinea il suo ruolo nelle consultazioni con tedeschi e inglesi ai tempi della fatwa contro Salman Rushdie. All’epoca però, per quanto approfondita fosse la sua conoscenza dei dossier e sincera la sua adesione al progetto khomeinista, Rohani era un insider che conosceva molti segreti, ma non giocava in prima linea.
Le prime avventure che in Iran lo fanno conoscere al di là della strettissima cerchia dei fedelissimi del nezam (il sistema) non sono materiale a cui chi gestisce le sue pubbliche relazioni attingerebbe volentieri. Nel maggio del ’92 a Mashad scoppiano dei disordini: un quartiere viene raso al suolo per consentire una speculazione edilizia che ha ricevuto un autorevole imprimatur governativo. Negli scontri bruciano delle copie del Corano e Rohani, che all’epoca guida il Consiglio superiore per la sicurezza nazionale, richiama un’unità dall’Afghanistan: muoiono 18 persone, 300 finiscono in carcere. Tuttavia l’episodio che più di qualsiasi altro cristallizza la sua immagine di bestia nera di studenti, dissidenti e manifestanti è posteriore. Nel luglio del ’99 Teheran è stravolta dalle manifestazioni più imponenti dalla rivoluzione. Rohani, vicepresidente del Parlamento, invoca la pena di morte contro “tutti i corrotti che hanno dichiarato guerra a Dio”. Geneive Abdo e Jonathan Lyon, corrispondenti in Iran e autori di “Answering only to God”, uno dei libri che meglio fotografano il fallimento della presidenza Khatami, registrano le reazioni sconvolte dei ragazzi mentre scoprono che uno dei loro più inflessibili persecutori è annoverato come un “moderato” solo perché parla inglese e ha familiarità con gli usi occidentali.
Fino al momento in cui prende in mano il dossier nucleare (2003) Rohani è “l’antidiplomatico” che ordina la chiusura di quotidiani, raccomanda l’abbattimento dei satelliti ed emargina gli intellettuali più liberali dal Centro di studi strategici di Teheran. Sembra incredibile che si tratti della stessa persona che in questi mesi ha flirtato con gli studenti, esultato per la riapertura della Casa del cinema e invocato social network per tutti, “perché non ci devono essere muri” – eppure è lui. Tra quel Rohani e colui che sorride come uno zio bonario ai giovani sulle piste di Tochal c’è la scoperta del potere (2003-2005) e l’ostracismo di Mahmoud Ahmadinejad. E’ dopo quella caduta che capisce che è davvero come dice Khomeini: “Dio dà tutte le regole del gioco”, baste saperle usare. Il Rohani degli ultimi anni è un uomo più prudente: si difende dagli attacchi di Ahmadinejad, tutela il suo rapporto con Khamenei ed evita di prendere posizione durante la tumultuosa estate del 2009.
Il segreto del suo successo però sta tutto nella creazione di una squadra che ha avvolto e riavvolto il film della sua vita. Rohani ha addomesticato la vanità: ora che ha finalmente conquistato il suo posto al sole non deve più dimostrare di essere il migliore, il primo della classe a cui troppe volte è stato preferito un ragazzino più brillante: ora Rohani deve fare un passo indietro, abbracciare la cultura popolare, ammirare il cantante Shajarian, far finta di non detestare i leggings che hanno invaso Teheran e allo stesso tempo continuare a sorridere distillando parole enigmatiche su Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi mentre i suoi abili consiglieri – Mohammed Reza Sadegh, (ex advisor di Rafsanjani) Mohammed Ali Vakili (ex direttore di Etemad) e il suo speechwriter Hadi Khaniki – vegliano su di lui. Di tutti i suoi angeli custodi però, colui che gli è più indispensabile, l’unico su cui metterebbe la mano sul fuoco nonostante i malumori che crea in un team altrimenti molto affiatato è suo fratello Hossein Fereidoun, l’uomo nell’ombra che alcuni descrivono come “l’uomo delle ombre”.
Sono cresciuti insieme nel villaggio di Sorkheh nella provincia settentrionale di Semnan, la famiglia della madre vanta importanti legami clericali, il padre Asadollah Fereidoun è un uomo di pochi mezzi che si divide tra un negozio di spezie, il lavoro nei campi e una carpenteria. Dei suoi cinque figli Hassan è il più studioso: frequenta la scuola coranica, prima localmente e poi a Qom, ma segue anche corsi di inglese, filosofia e matematica. Studia legge all’Università di Teheran, ma nel frattempo è già stato conquistato dalla idee di Khomeini, una passione che condivide con il fratello minore. Allora, come adesso, il loro è un rapporto stretto, a tratti competitivo. E’ nei primi anni della militanza, braccato dalla Savak che Hassan Fereidoun abbandona il suo cognome e diventa “Rohani” (letteralmente religioso o spirituale). “Fereidoun è un antico nome persiano tratto dallo Shahnameh (“Il libro dei re”, il poema epico di Ferdowsi) non so perché i miei antenati lo abbiano scelto”. E infatti se ne disfa senza troppi sentimentalismi. Prende diversi cognomi in considerazione in quegli anni, Islami, Imami e Tashayoei – tutti alludono ad un’affiliazione all’islam – ma alla fine gli amici lo convincono a rimanere “Rohani”.
In quegli anni si sposa, ma è spesso all’estero a Londra dove viene anche arrestato per attività rivoluzionarie clandestine e a Parigi alla corte di Khomeini. Quando scoppia la rivoluzione Hossein (che mantiene il cognome Fereidoun) entra a far parte del suo servizio d’ordine e inizia un’ascesa che lo porterà anni dopo a scalare i ranghi del servizio diplomatico. Governatore di Karaj e ambasciatore in Malesia, anche Hossein Fereidoun vanta un rapporto privilegiato con Rafsanjani, sebbene nelle sue memorie l’ex presidente faccia un riferimento piuttosto criptico “a certi fatti” che lo riguardano e che dal tono paiono incresciosi. Nella vita di Rohani però c’è un’ombra molto più drammatica: la morte di uno dei suoi cinque figli avvenuta in circostanze mai chiarite nel 1992. Stando alla versione delle autorità, il ragazzo si è ucciso a causa di un amore non corrisposto. Una seconda ipotesi, avvalorata da persone vicine all’entourage del presidente, è che sia stato ucciso non si sa da chi e per motivi ancora oscuri in una casa di campagna. Il quotidiano panarabo Al Sharq al Awsat invece dà credito alla storia del suicidio ma lo ascrive alla disperazione del ragazzo per la corruzione, la violenza e la deriva autoritaria di un regime di cui suo padre condivide il peso. Le cronache dell’epoca riferiscono che è stato tumulato in un settore del cimitero riservato agli esponenti della nomenclatura. “Ha commesso un grave peccato”: sono le uniche parole che i giornali attribuiscono al presidente a proposito della morte del figlio.
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