La regione in mutande verdi

Cristina Giudici

Fuori, i Forconi, gli antagonisti, i populisti, i sindacalisti, gli studenti che da giorni premono alle porte di Palazzo Lascaris come se fosse il Palazzo d’Inverno. Dentro, una maggioranza smarrita che cerca di tenere in piedi un governo regionale dai piedi d’argilla. Con un’opposizione divisa, di sinistra, che grida “Mandiamo a casa Cota” ma non ha il coraggio di dimettersi, perché non trova i numeri dei consiglieri necessari a far cadere la giunta e, in caso di nuove elezioni, teme la vendetta del voto antipolitico.

    Fuori, i Forconi, gli antagonisti, i populisti, i sindacalisti, gli studenti che da giorni premono alle porte di Palazzo Lascaris come se fosse il Palazzo d’Inverno. Dentro, una maggioranza smarrita che cerca di tenere in piedi un governo regionale dai piedi d’argilla. Con un’opposizione divisa, di sinistra, che grida “Mandiamo a casa Cota” ma non ha il coraggio di dimettersi, perché non trova i numeri dei consiglieri necessari a far cadere la giunta e, in caso di nuove elezioni, teme la vendetta del voto antipolitico. Nella regione Perduta, paradigma a settentrione delle disfunzionalità delle politiche pubbliche degli enti locali, tanto incensati da una ventennale retorica territorialista, forse è iniziato il conto alla rovescia. Di sicuro è cominciato l’assedio a Palazzo (Lascaris) che, nell’ex capitale sabauda, assomiglia sempre di più a una scatola vuota. Dopo lo scandalo per le spese pazze, che ha investito 43 consiglieri regionali della maggioranza e soprattutto il governatore leghista Roberto Cota, si sta scatenando una caotica guerriglia su un campo di battaglia in cui tutti i protagonisti, più che soldati, sembrano mosche che si dibattono dentro una bottiglia di vetro. E non tanto, non solo, per la faccenda dei rimborsi ai gruppi politici (la procura di Torino contesta una cifra considerevole, circa un milione e mezzo di spese personali sostenute dai partiti della maggioranza dal 2010 al 2013), che sta facendo perdere i lumi della ragione a Roberto Cota, mentre l’effetto sul Pd è la spinta a dividersi fra voglia di mandare a casa Cota e spasmodico attaccamento alla poltrona. No, il problema più grave è il debito, esorbitante. Superiore addirittura a quello in continuazione sbandierato dall’opposizione del Pd – come se a crearlo in buona parte non fosse stata proprio la giunta targata Pd, quella di Mercedes Bresso.

    “Dodici miliardi di euro, se si somma il debito commerciale della spesa corrente all’esposizione finanziaria, a cui si è arrivati continuando ad aggiungere enormi cifre al disavanzo, circa un miliardo di euro ogni anno”, spiega  al Foglio Gilberto Pichetto Fratin, vicepresidente della regione, che è stato chiamato all’assessorato al Bilancio nel marzo scorso per tentare la missione impossibile: risanare i conti. I conti di una regione, va detto, che più ha pagato il prezzo della recessione nel nord. Con 300 mila tavoli di crisi aperti dal 2010 a oggi e un calo della produzione industriale che nel 2013 è ancora al meno 5,6 per cento. Una situazione così allarmante che il Consiglio regionale ieri ha dedicato una seduta straordinaria al lavoro che non c’è più. E non solo nell’Automotive. L’assessore al Lavoro, Claudia Porchietto, ha confermato i dati record della disoccupazione: 9,8 per cento nel 2013 contro l’8,6 per cento del 2012. E ha rivolto un appello provocatorio al segretario pd, invitandolo ad affrontare la scommessa sul lavoro, con toni che indicano una sola cosa: in terra sabauda la campagna elettorale è cominciata.

    Ora, in Piemonte, tutti si concentrano su un simbolo-paradigma: le mutande verde padano acquistate dal governatore leghista Roberto Cota con i soldi dei contribuenti. Non ha resistito neppure il segretario in pectore del Pd, Matteo Renzi, che ha dichiarato: “Mettersi le mutande verdi è indice di qualcosa che non funziona nel cervello. Ma se proprio le vuoi, pagatele da solo”. E fuori da Palazzo Lascaris, fra le diverse frange di dimostranti che da giorni assediano il centro del governo regionale, le mutande di Cota sventolano come fossero una bandiera della riscossa. E non solo in Piemonte: le mutande di Cota ormai sventolano ovunque, sono state avvistate persino a Napoli in una protesta di piazza. Le ha tirate fuori in Aula, a Palazzo Lascaris, anche il consigliere regionale del M5s, Davide Bono: un paio di boxer colorati con un mazzo di carte stampate per sottolineare il gioco d’azzardo del governatore leghista e un asso di picche ben in vista, nel caso non avesse capito il suo destino. Ma a Cota, che ha governato per tre anni e mezzo con ignavia e inerzia, troppo preso dalle faide interne al Carroccio e al centrodestra, fra continui rimpasti di giunta e riforme annunciate e mai realizzate per via delle resistenze di diverse lobby, non si può imputare la colpa aver portato la regione Piemonte al default. Sì, perché anche se quasi nessuno lo ammette, a Palazzo Lascaris il crac di fatto è già avvenuto. La voragine del debito complessivo è oggi tale da impedire ogni investimento, visto che è stata superata la soglia di debito per accendere ulteriori mutui o contrarre nuovi debiti. “Quando mi sono insediato, a marzo, la regione era in default”, confida Pichetto, l’uomo che ogni sera spegne le luci quando lascia il palazzo della regione, diventato per i torinesi simbolo del fallimento “della peggiore classe dirigente d’Europa”, per parafrasare il nuovo segretario del Pd, Matteo Renzi, a cui tutti guardano, anche a Torino, nella speranza di un cambiamento.

    Tecnici e addetti al bilancio regionale, interpellati dal Foglio, sentono immediatamente l’impulso di prendere una penna e disegnare curve, sommare numeri di disavanzo, per spiegare come e dove sono stati spesi male i soldi pubblici, con politiche sbagliate e/o irresponsabili, e raccontare una storia che parte da lontano. Sin dalla giunta di Enzo Ghigo, che nel 2003 ha perso il controllo della spesa, creando un disavanzo di due miliardi. Anche se è stata la gestione allegra della “zarina” Mercedes Bresso ad aver creato una voragine nei conti pubblici del Piemonte. Fra il 2005 e il 2010 la Bresso ha mescolato le carte, accumulato molta polvere sotto il tappeto, mischiando le spese correnti con gli investimenti, distribuendo soldi a pioggia, cancellando debiti dai bilanci per far quadrare i conti, affidandosi ad assessori eccitati dalla finanza creativa che hanno avvelenato i fondi regionali con i titoli tossici dei derivati. E nessuno ha ancora sciolto l’enigma del disavanzo sanitario esploso l’anno scorso, relativo a un ammanco di 900 milioni di euro, dei crediti delle Asl nei confronti della regione, cancellati, cioè mai iscritti al bilancio nel 2007 e che poi sono riapparsi nei libri delle Asl nel 2012 e hanno portato di fatto al commissariamento della sanità. Come ammette il capogruppo pd in regione, Aldo Reschigna: “Nessuno lo dice, ma la sanità, in Piemonte è commissariata.

    Con il piano di rientro 2013-2015, il disavanzo è diminuito, ma il governo regionale deve chiedere l’approvazione al ministero dell’Economia, per ogni provvedimento di spesa. E sono stati cancellati 100 milioni per i servizi di extra Lea (prestazioni per garantire i livelli essenziali assistenziali ad anziani e disabili) per il 2014, che penalizzeranno ulteriormente l’assistenza territoriale. Pochi lo sanno, ma ogni mese in Piemonte arriva un funzionario dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari per verificare i conti della sanità”.

    Cota ha aggiunto al fallimento della classe dirigente targata Pd il disastro firmato dall’alleanza Lega-Pdl. Incapace o impossibilitata, ormai, a riformare un ente pubblico alla deriva. Così, fra disegni, cifre e curve e tecnicismi dietro cui ognuno in Piemonte si cela per raccontare la propria versione ciò che si capisce, in sintesi, nella regione Perduta, è che per anni sono stati fatti bilanci falsi. “In cui si scrivevano voci di spesa per creare una cortina di fumo, ma che poi rimanevano sulla carta, perché i fondi a disposizione erano molti di meno”, spiega al Foglio un tecnico del dipartimento del Bilancio piemontese, che ha lavorato con tutti e tre i governatori. “Oppure si inventavano cifre per far quadrare crediti e debiti e riassorbire in parte i disavanzi, ma le cifre previste non corrispondevano mai alla vera entità delle spese sostenibili”. Infatti basta leggere l’ultima relazione della Corte dei Conti piemontese che, sulla falsariga degli anni precedenti, ha lanciato nel luglio scorso un monito sul disastro economico e finanziario di Palazzo Lascaris. In cui si sottolinea  una “gestione sanitaria opaca”, “enormi discrasie fra entrate e uscite”; “cifre previsionali poco attendibili”, “una cattiva gestione degli errori sanitari” solo per citare alcuni dei passaggi più severi. La relazione della Corte dei Conti si conclude con una raccomandazione, che sembra più un ultimatum, a “rivedere la rimodulazione della spesa, altrimenti insostenibile”. La relazione si riferisce al bilancio del 2012, quando il debito era stimato sui 7 miliardi e mezzo. Invece ora il debito complessivo di 12 miliardi di euro è superiore alla somma del bilancio di previsione del 2014 della regione, che dovrà essere discusso in teoria, entro la fine di dicembre: 11 miliardi. Perché poi è intorno al bilancio, che ruota il conflitto politico a Palazzo Lascaris, ora in fase di stallo, per usare un eufemismo, dopo che i consiglieri regionali del Pd hanno annunciato le dimissioni differite per mandare a casa Cota una volta approvato il bilancio e i fondi strutturali europei 2014-2020 (2 miliardi e mezzo in sette anni, che potrebbero dare un po’ di ossigeno al tessuto produttivo) entro e non oltre il 28 febbraio.

    Anche se tutti guardano anche a un’altra data, quella del 9 gennaio 2014, quando il Tar dovrà pronunciarsi sulle false firme della lista elettorale “Pensionati per Cota”, che potrebbe invalidare e annullare la vittoria della giunta leghista, tre anni e mezzo dopo dall’inizio della legislatura. Un duello legale controverso, avviato da Mercedes Bresso, ancora convinta di essere stata scippata del suo scettro per poche migliaia di voti, nel 2010, grazie a un inghippo. Bresso, però, a sua volta ora deve affrontare i suoi guai giudiziari, visto che è indagata per finanziamento illecito per via di 8 mila euro spesi per la propaganda elettorale nel 2010 a sostegno della sua lista “Uniti con Bresso”, finiti nei rimborsi spesa del suo gruppo consiliare. Due settimane fa il gruppo consiliare del Pd ha annunciato la dimissione dei consiglieri dagli incarichi istituzionali in regione, che in teoria dovevano servire a fare pressione per alimentare la campagna per far cadere Cota, ma poi il Partito democratico è finito in un vicolo cieco. Per questo motivo, ora, il segretario del Pd piemontese, Gianfranco Morgando, ha chiesto al sindaco di Firenze di occuparsi in fretta della vicenda della giunta piemontese. Certo, quando due settimane fa la più alta carica istituzionale dem a Palazzo Lascaris, Roberto Placido, ha annunciato le sue dimissioni dalla vicepresidenza  regionale, sembrava che il Pd volesse andare all’arrembaggio per recuperare credibilità e riunificare un partito qui più che altrove balcanizzato fra le diverse correnti, qui più che altrove protagonista di una battaglia cruenta sulle primarie. E invece il vicepresidente uscente Placido – che già un anno fa, quando iniziò l’indagine sui rimborsi spesa, si presentò in Aula con un elmetto della Grande guerra in testa per annunciare teatralmente la campagna “Mandiamo a casa Cota” – è rimasto col cerino in mano, seppur determinato a far tremare le mura del Palazzo Lascaris. Lui, che da tesoriere del Pd fece una guerra accanita anche contro le leggerezze contabili di Mercedes Bresso – e denunciò il suo assessore al Bilancio, Paolo Peveraro, quello della finanza creativa, alla Corte dei Conti – è rimasto prigioniero dell’esitazione del suo partito, nonostante il sostegno del senatore Stefano Esposito, l’emblema della lotta Sì Tav.

    Infatti sabato scorso, a manifestare contro Cota per chiedergli di “andare a casa”, gli esponenti del Pd scesi in piazza si potevano contare sulle dita di una sola mano. Anche se il segretario piemontese Gianfranco Morgando, che verrà presto sostituito con un funzionario renziano della prima ora, sta cercando di finire il suo mandato con una maggiore coerenza e sta cercando di convincere gli alfaniani, guidati in Piemonte dal parlamentare Enrico Costa, a fare fronte comune contro il governatore Cota e a dimettersi con gli esponenti del Pd il 28 febbraio per evitare l’infamia di essere mandati a casa da un tribunale o dalla furia popolare.

    La vittima designata di tutto questo disastro amministrativo non è solo Palazzo Lascaris, ma anche la famosa macroregione del nord, che grazie all’asse leghista con Lombardia e Veneto, ambiva a disegnare – dopo il sostanziale fallimento del federalismo – a un’autonomia finanziaria tale per poter voltare le spalle al resto d’Italia e formare un sodalizio con le altre aree produttive dell’arco alpino: un progetto che ora sembra quasi una barzelletta. Studenti, Forconi, sindacalisti, pensionati, artigiani, disoccupati, attempati giacobini: ogni giorno un gruppo diverso si trova davanti a Palazzo Lascaris per protestare e sfogare rancori sociali, nella speranza di vedere qualche testa rotolare per le strade di Torino.

    Nel frattempo Roberto Cota, difeso dal Carroccio, ma con evidente imbarazzo, fa finta di nulla e procede come se niente fosse, grazie all’esitazione del Pd e anche del Nuovo centrodestra, che sembrava inizialmente disponibile ad allearsi per far cadere la giunta, ma poi ha rinculato. Tutti consapevoli di non avere la necessaria credibilità per ripresentarsi alle elezioni ed essere rieletti, con la tempesta che infuria fuori, in una città che, assieme alla non lontana Genova, si segnala per un tasso di conflittualità sociale allarmante. Intanto la nuova classe dirigente del Pd guidata da Renzi non si è ancora insediata. Nel campo di battaglia le truppe avanzano in modo tanto scomposto che ora è riemersa addirittura l’ipotesi di una giunta bipartisan, un governo regionale di larghe intese, sotto la guida di Sergio Chiamparino, magari con la benedizione di Matteo Renzi, per risolvere l’emergenza economica e politica. Un’emergenza che è una somma di emergenze, o di sviste, che hanno portato la regione a essere di fatto fallita. Ecco perché l’assessore al Bilancio afferma di tenere il fucile spianato contro le Asl, per evitare che facciano un altro passo falso, sottraendo a caso altri fondi, visto che l’annunciata razionalizzazione non è stata ancora realizzata, e il tentativo dell’ex ad di Iveco, Paolo Monferino (chiamato l’anno scorso da Roberto Cota per eliminare sprechi e riformare il sistema sanitario) è stato boicottato. E infatti lui, che sollevò un putiferio, affermando pubblicamente che la sanità piemontese era tecnicamente fallita, appena ha potuto ha levato le tende e ha rassegnato le dimissioni nel marzo scorso, davanti alle forti resistenze a varare un piano di riforma del sistema sanitario. Al suo posto è arrivato Ugo Cavallera, navigato democristiano di lungo corso, che ha avviato una paziente mediazione, per riuscire a rilanciare la riforma, ormai improrogabile.

    Da qualsiasi verso la si prenda, la crisi della regione Piemonte pare un rompicapo. Ma forse c’è vulnus più profondo, una questione politica che non riguarda solo una terra da sempre simbolo di efficienza amministrativa e solerte burocrazia. Dal disastro economico e politico piemontese emerge anche un altro interrogativo sull’efficacia dei governi regionali. Governi che tanto si erano spesi negli anni scorsi, anche al di là della coloritura politica leghista – che del resto interessa solo le regioni del nord – per il federalismo fiscale, nella lotta fra territori periferici e stato centrale, nel rivendicare un’efficienza amministrativa giocoforza maggiore. Governi che però spesso, come qui, anche se va detto non sempre, hanno dimostrato una superba incapacità di contenere la spesa pubblica, esattamente come quello stato centrale che i governatori di turno hanno usato come bersaglio, alibi e capro espiatorio per problemi e fallimenti non sempre causati da Roma. Un tema ora molto dibattuto, anche nelle regioni più virtuose (giusto ieri a Venezia è andato in scena un dibattito dal titolo: “Le regioni sono da rottamare? Parliamone”, promosso da Scelta civica). A testimonianza che la riflessione sulla reale efficacia del modello regionale, che ormai ha quarant’anni non è più riducibile a un problema di inefficienza o inadeguatezza culturale delle regioni del sud – come è stato per anni un must della linea politica leghista – ma vale un po’ per tutti.

    E’ difficile prevedere se la giunta Cota potrà reggere alla pressione politica e mediatica. Con due assessori chiave, Gilberto Pichetto al Bilancio e Ugo Cavallera alla Sanità, che cercano di navigare a vista e tenere dritta la barra nelle tempesta. Consapevoli di non voler fare la fine di capitan Schettino, ma anche senza alcuna voglia di imitare il capitano Achab.

    Una settimana fa Pichetto è riuscito a depositare il testo del bilancio previsionale del 2014 che sembra fatto dal mago Houdini, visto che il disavanzo viene riassorbito e sparisce (quasi) come d’incanto (tranne quello sanitario per cui è stato previsto un piano di rientro), perché da mesi impazzisce con partite di giro per far quadrare i conti, penalizzati anche da una diminuzione di 400 milioni di euro di trasferimenti statali per il 2014. Un bilancio da ultimi giorni di Pompei, nell’altezza e nella bassezza dello spirito dei tempi, lui spiega: “Si tratta di un bilancio talmente risicato che serve solo per pagare gli stipendi. Mettiamola così: ormai siamo come una famiglia, che non può più andare al ristorante o in pizzeria, e neanche fare l’abbonamento a Sky. E se vuole comprare una casa, deve chiedere un prestito al vicino, perché il suo indebitamento è tale da non poter accendere un nuovo mutuo in banca”. Scherza Pichetto, ma non troppo. Eppure, davanti a un tale disastro, la guerriglia politica procede. Come se far cadere la giunta e mettersi alla guida di una regione Perduta fosse un premio cui ambire, e non una dannazione a cui sottrarsi.