Il malinteso europeismo dei “contratti per le riforme” di Merkel
Sul progetto di Unione bancaria, oggi e domani sottoposto all’esame del Consiglio europeo, pendono molte incognite per l’irrigidimento tedesco. Il progetto rappresenta un progresso, contribuendo a recidere il circolo vizioso tra esposizione delle banche e debiti sovrani, a contrastare la segmentazione dei mercati, a creare le condizioni per migliorare il rapporto degli istituti con famiglie e imprese; costituisce altresì un passo ulteriore verso l’integrazione di bilancio e quella politica.
Sul progetto di Unione bancaria, oggi e domani sottoposto all’esame del Consiglio europeo, pendono molte incognite per l’irrigidimento tedesco. Il progetto rappresenta un progresso, contribuendo a recidere il circolo vizioso tra esposizione delle banche e debiti sovrani, a contrastare la segmentazione dei mercati, a creare le condizioni per migliorare il rapporto degli istituti con famiglie e imprese; costituisce altresì un passo ulteriore verso l’integrazione di bilancio e quella politica.
Ma come un meccanismo perfetto trova in alcuni ingranaggi essenziali punti al tempo stesso di forza e di estrema debolezza. Intanto, l’iniziativa decollerebbe mutilata se la centralizzazione della Vigilanza non fosse preceduta dall’armonizzazione profonda di regole, criteri e metodologie, sancendo una vera par condicio degli istituti di credito dell’Unione quale che sia il paese in cui essi siano insediati. Poi si presenta il problema dei cosiddetti paracadute nel caso di crisi: servono, come si è detto da tempo, un Meccanismo unico di risoluzione delle crisi e l’istituzione di un fondo ad hoc per i relativi interventi. Su queste esigenze, a parole, sussisterebbe un’ampia convergenza. Tuttavia, quanto alla concreta architettura per soddisfarle, si pensa a scelte – il Consiglio di risoluzione formato dalle autorità nazionali le cui decisioni sono però sottoposte all’approvazione della Commissione Ue – che non sono nella linea della piena autonomia della relativa funzione, considerato il vaglio politico della Commissione, oltre all’allungamento burocratico dei tempi dei provvedimenti, che invece presupporrebbero l’incardinamento di un tale compito nell’istituzione che detiene anche i poteri di controllo per beneficiare della piena conoscenza delle vicende della crisi, pur nella separatezza delle due funzioni. Dovrebbe essere la stessa Bce, ma questa ipotesi registra il “nein” tedesco.
Quanto al fondo, si pensa alla sua alimentazione da parte delle banche secondo un decorso temporale di dieci anni per arrivare alla somma di 55 miliardi. Il fondo interverrebbe dopo che l’onere della crisi sia stato sopportato, nell’ordine, dagli azionisti dell’istituto in dissesto, dai creditori in genere e, in specie dagli obbligazionisti, prima di arrivare a coinvolgere anche i depositanti oltre certi limiti di somme depositate. E’, invece, essenziale prevedere anche l’intervento pubblico attraverso una mutualizzazione degli apporti da parte dei singoli paesi: se ogni stato dovrà provvedervi per le proprie banche perché la Germania è contraria a qualsiasi forma di collettivizzazione, viene meno uno dei punti necessari della integrazione bancaria. Perché i controlli sono accentrati ma per il sostegno degli oneri si torna al decentramento? Se si abbandonano le Vigilanze nazionali, che hanno la loro forza nella prossimità ai vigilati e nella connessione dell’attività con le diverse branche nazionali del diritto, allora l’alternativa deve essere immune da gravi carenze quali quelle che ora potrebbero restare non superate. Soprattutto perché l’accentramento oggi si pone ai limiti se non in violazione dell’articolo 127 del Trattato Ue che prevede la possibilità di trasferire la Vigilanza alla Bce, ma solo per “compiti specifici”, non certo nella sua interezza. Siamo nei pressi di una problematica che si avvicina a quella sollevata magistralmente da Giuseppe Guarino con riferimento alla violazione dei Trattati fondativi, e che meriterebbe di essere affrontata puntualmente. Dunque, si rifletta ancora prima di decidere di subire i diktat tedeschi.
Problemi similari presenta il progetto, che sarà trattato al Consiglio europeo, dei contratti riguardanti “le riforme per incentivi”. E’ chiaro che essi costituiscono un allontanamento dall’unitarietà dei Trattati, segmentando i rapporti nella bilateralità di questa specie di “dare e avere”. Ora è da ritenere che rispetto a quanto previsto dalle norme anzidette, è presumibile che questi “ contractual arrangements” dovranno contemplare vincoli in più, quanto meno nei tempi e nei modi di ottemperare alle già vigenti prescrizioni.
Allora non è errato parlare di una ulteriore cessione, sulla base di un “do ut des”, di una parte di sovranità, sia pure con la finalità di conseguire dei (presunti) benefici. Chi nega ciò, evidentemente parte dal presupposto che si tratta di elargizioni o di vantaggi ottriati: ma chi ne avrebbe il potere? Ed è mai plausibile una tesi del genere? L’altro problema che si pone è la nebulosità sulla solidarietà che conseguirebbe dall’assunzione di alcuni obblighi da parte dei singoli paesi. Se una premialità si pensa di introdurre, allora la via è quella della generalità dei paesi dell’Unione alla quale deve essere diretta questa innovazione e deve ovviamente essere compatibile con i Trattati. Anche in questo campo è bene contare fino a dieci, senza farsi trascinare da un acritico (e dannoso) fervore europeistico.
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