La Grande stagnazione per noi è un rischio, ma non un destino

Stefano Cingolani

La Grande recessione è finita, non è diventata una Grande depressione e ci sono tutte le condizioni perché non si trasformi in una Grande stagnazione, come teme invece Lawrence Summers, perché gli spiriti vitali, fuori dagli sguardi attoniti del circo mediatico, stanno creando le condizioni per un nuovo ciclo di sviluppo. Ben Bernanke, che per l’ultima volta ieri ha presieduto una riunione dell’Open Market Committee, aveva davanti a sé un grafico della Federal reserve of St. Louis (il magazzino dei dati ufficiali): l’economia ha recuperato pienamente il livello al quale era giunta prima che, nell’autunno 2007, cominciasse la caduta.

    La Grande recessione è finita, non è diventata una Grande depressione e ci sono tutte le condizioni perché non si trasformi in una Grande stagnazione, come teme invece Lawrence Summers, perché gli spiriti vitali, fuori dagli sguardi attoniti del circo mediatico, stanno creando le condizioni per un nuovo ciclo di sviluppo. Ben Bernanke, che per l’ultima volta ieri ha presieduto una riunione dell’Open Market Committee, aveva davanti a sé un grafico della Federal reserve of St. Louis (il magazzino dei dati ufficiali): l’economia ha recuperato pienamente il livello al quale era giunta prima che, nell’autunno 2007, cominciasse la caduta. Ben settanta mesi di vacche magre, ma la differenza rispetto agli anni 30 è notevole: trascorsi settanta mesi dal crac di Wall Street dell’ottobre 1929, il prodotto lordo era ancora inferiore di un quarto e non si sarebbe ripreso pienamente fino alla Seconda guerra mondiale.

    Se è stata “evitata la fusione del nocciolo”, scrive il Wall Street Journal, lo si deve in buona parte alla Banca centrale americana che ha inondato l’economia di dollari, gettando denaro dall’elicottero, secondo le indicazioni di Milton Friedman. Tuttavia, la crescita negli Stati Uniti potrebbe essere migliore, come all’uscita da altre importanti recessioni (anche se mai così gravi e profonde). Dal 2009 a oggi il prodotto lordo è aumentato in media 2,3 punti percentuali, nelle altre fasi espansive viaggiava al tasso medio di 4 punti. La disoccupazione è scesa al 7 per cento, ma nel 2000 era al 4 per cento. I debiti privati sono passati dal 95 al 70 per cento del prodotto lordo, in compenso il debito pubblico è salito in modo assolutamente simmetrico. Sotto i detriti della crisi è rimasta la propensione al rischio; le aspettative di imprese e consumatori, sebbene meno fosche di quattro anni fa, restano ancora negative.

    Dunque, “stagnazione secolare”? L’ex segretario al Tesoro ha lanciato la sua provocazione il 3 dicembre al Fondo monetario internazionale e da allora, rilanciata da Paul Krugman nel suo blog sul New York Times, ha acceso il dibattito. Il virus giapponese, secondo Summers, si sta diffondendo in Europa e persino in nord America, mentre i Brics a loro volta rallentano come la Cina o si fermano come Brasile e Russia. Non si può andare avanti con tassi d’interesse negativi a meno di non alimentare ad arte una nuova bolla. La svolta tocca a Janet Yellen che a gennaio prenderà la poltrona del suo mentore Bernanke, sostenuta con tutta probabilità da Stanley Fischer una delle teste più solide e brillanti dell’economia monetaria che dovrebbe diventare vicepresidente.

    Il compito è arduo perché c’è il rischio di togliere alimento ai processi innovativi che nascono dal basso e hanno bisogno di molti capitali a basso prezzo. Nel maggio scorso, la McKinsey ha pubblicato uno studio sulle “tecnologie dirompenti” il cui impatto viene calcolato tra i 14 e i 33 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio: stampanti 3D, robotica, telecomunicazioni, genetica, in un ambiente di inflazione bassa e commerci aperti, possono da sole spingere la crescita. Gli Stati Uniti fanno ancora da locomotiva, ma anche l’Europa può agganciarsi al treno, una volta smaltito l’eccesso di debiti pubblici. Il deleveraging, sempre secondo McKinsey che ha istituito un osservatorio sulla riduzione dei debiti, procede nelle imprese, nelle banche, nelle famiglie e negli stati (sia pur più lentamente perché nessuno ha rinunciato a usare gli ammortizzatori sociali). Probabilmente ci vorranno ancora due anni; intanto il mercato si muove.

    L’energia è in piena rivoluzione; non si vedeva da decenni tanto eroico furore. Esplorazioni, scoperte di nuovi giacimenti di idrocarburi, fonti alternative accessibili (anche se sussidiate dai governi) e soprattutto le rocce, il gas e il petrolio da scisti. Gli Stati Uniti già prima del 2020 potranno contare sull’autosufficienza energetica, mettendo fine così a una dipendenza dal Golfo Persico cominciata con la Seconda guerra mondiale. “Il nord America sarà il gigante energetico del XXI secolo”, proclama Robert Kaplan su Stratfor e l’intera mappa del potere verrà ridisegnata. I costi stanno già calando e spingono l’industria manifatturiera a rimpatriare una parte dei propri impianti, assumendo operai e tecnici. Ha cominciato l’Auto, ma ormai è un fenomeno che coinvolge tutti i settori. Il re-shoring non è solo americano, per produzioni dove conta soprattutto la qualità si sta manifestando anche in Germania e persino in Italia. Difficile valutarne l’impatto macroeconomico, ma la spinta dal lato dell’offerta c’è ed è evidente.

    Ai mutamenti nell’industria si accompagnano quelli della finanza. Ritenuta (giustamente) responsabile della crisi e demonizzata (a torto), torna agli antichi fasti se guardiamo ai profitti delle banche d’affari e agli appannaggi dei banchieri. In realtà, sta subendo una grande ristrutturazione anche tecnologica per l’irrompere dell’e-commerce e della quasi-moneta elettronica.

    Il flusso di capitali, ai livelli pre-crisi fin dal 2012, si sposta verso l’occidente, sottolinea Andrew Cates, economista dell’Ubs, e finanzia i nuovi investimenti, mentre si vede già il ritorno di fusioni e acquisizioni. Il mondo delle comunicazioni è in febbrile subbuglio. In vent’anni la rete ha collegato solo l’un per cento della popolazione mondiale, dice Padmasree Warrior, stratega di Cisco che affila le armi al grido: “Internet per tutti, sempre e ovunque”. Persino l’agricoltura è attraversata da nuove onde d’innovazione, tanto più se cade l’ostacolo ideologico contro gli Ogm e se la Cina lancerà davvero le riforme promesse.

    E allora, dov’è la stagnazione? Il rischio esiste, gli animal spirits possono essere repressi e soffocati da scelte sbagliate o dal protezionismo verso il quale spingono le proteste populiste. Ma quel che abbiamo davanti a noi non è lo stato stazionario: la moneta abbonda, c’è forza lavoro sotto impiegata, esistono innovazioni pronte per l’uso. In realtà, il capitalismo sta reinventando se stesso, è la politica a far cilecca. Se Summers è pessimista per questo, allora ha ragione.