Napolitano è arrivato a un passo dalla gran riforma dello stato e ha fallito, ora lasci la mano alla politica
Come dice Lidia, noi maschietti a una certa età, non sapendo fare l’uncinetto, dobbiamo trovare altre occupazioni. Questa considerazione modera un po’ le amarezze per recenti coinvolgimenti – pur molto esterni – con la politica, finiti abbastanza miseramente. Ma facciamo ordine: a metà del 2012 – mentre Mario Monti si avviava a un tristo tramonto – discutendo con presidenti di regione linciati, ex ministri del Lavoro, vicecapigruppo al Senato avevo trovato interessanti consonanze di idee.
Come dice Lidia, noi maschietti a una certa età, non sapendo fare l’uncinetto, dobbiamo trovare altre occupazioni. Questa considerazione modera un po’ le amarezze per recenti coinvolgimenti – pur molto esterni – con la politica, finiti abbastanza miseramente.
Ma facciamo ordine: a metà del 2012 – mentre Mario Monti si avviava a un tristo tramonto – discutendo con presidenti di regione linciati, ex ministri del Lavoro, vicecapigruppo al Senato avevo trovato interessanti consonanze di idee: sullo stato italiano con il suo assetto troppo elitario sin dal 1861 e dalle basi politico-sociali ristrette, esposto così a subire influenze dall’esterno non comparabili con quella di altre grandi nazioni europee (ai polacchi ad esempio per imporre condizioni simili alle nostre si è dovuto almeno organizzare qualche invasione in carro armato). Su uno stato che aveva retto solo perché la Guerra fredda gli assegnava una funzione strategica tale da sopperire a disfunzionalità strutturali, mentre nel nuovo contesto storico entrava in una crisi (innanzitutto a causa della parte ordinamentale della Carta) tra Weimar e Yugoslavia post titina da cui non uscirà senza nuove ampie basi – da destra e da sinistra – alle istituzioni, condizione peraltro indispensabile per avere uno straccio di ruolo in Europa.
Finalmente intravedevo qualche visione più organica rispetto ai tanti vagolare secondorepubblicani. Da qui un fervente darsi a scrivere – e ancora più ad aiutare a scrivere – libri e libretti. Un quasi esaltarsi perché un minimo appello “Autunno 2012” riusciva a impostare una strategia articolata di riforme costituzionali e quasi magicamente carte e riunioni polverose sembravano trasformarsi in scelte definite. A un certo punto si mise in movimento anche qualcosa di concreto. Soprattutto grazie a una tra le persone più perbene fra quelle che ho frequentato in questi anni: Raffaele Bonanni, divenuto catalizzatore principale di una riscossa “costituente”. Da Norcia a Roma suggerivo (non senza l’illuminante convergenza con un giovane bravo costituzionalista come Luca Antonini) di studiare l’esperienza della Carta europea che si era affidata a una commissione redigente esterna al Parlamento (anche Luciano Violante lavorava su questa idea) per cercare di superare i veti che nascono dal tran tran assembleare. Considerando che era impossibile organizzare una guerra per poter poi eleggere una Costituente, la scorciatoia di Bruxelles mi pareva la più ragionevole. Già a giugno del 2012, poi, sul Foglio spiegavo che la prossima legislatura per essere costituente doveva trovare un presidente della Repubblica garante del processo e che probabilmente la riconferma di Giorgio Napolitano era la scelta più utile. Era evidente, poi, come un tale processo potesse decollare solo in un clima di pacificazione che consentisse anche a Silvio Berlusconi di assumere ruoli più distaccati, senza liquidare il suo impegno innanzitutto di resistenza ai soprusi dello stato.
Nella primavera 2013 improvvisamente una parte notevole – mia figlia dice che quando scrivo cose simili non c’è più posto nella stanza riempita dal mio ego – delle (anche) mie proposte-previsioni pareva divenire realtà: chissà che non si riuscisse a fare il largo stato sognato da Giovanni Giolitti. Mi chiedevo.
Poi Napolitano è stato sconfitto dal giudice Antonio Esposito e non è stato capace di alcuna decente reazione.
Comprendo insofferenze per tanti aspetti del berlusconismo, capisco chi non sa resistere al fascino di una prossima ondata di appalti, nomine, salvataggi bancari, svendite che consentirà fruttuose amicizie. Ma quelli che sono diventati i Napolitano boy avendo cercato di legare la politica a un’analisi culturale (dandomi un’alternativa allo sferruzzare) come possono passare dal dire che il problema è allargare le basi dello stato a considerare antipolitica tutto ciò che non fa parte del loro (sempre più ristretto) ambiente? Come possono, dopo avere cercato le più larghe intese, chiedere scelte costituzionali circoscritte dentro una maggioranza per di più tarocca, perché formata da forze nate (come Ncd) fuori da verifiche elettorali? Come consentire, senza fare un plissé, che si liquidino i “saggi” la loro più preziosa creatura? Come passare dal “c’è da salvare la Repubblica” a “facciamo la crisi se volete il Mattarellum”?
Il fatto è che Napolitano, se in generale ha mostrato alcune inadeguatezze, ne ha espressa una gigantesca nello sperperare (dopo le tante delusioni delle Bozzi, delle De Mita, delle Iotti, delle D’Alema, delle Bassanini e degli accordi di Lorenzago) un buon varco per una vera riforma dello stato. Ora se non vuole aggravare questa gravissima mancanza, non gli resta che guidare una ordinata ritirata per rilegittimare – dopo gli Esposito, le Alte corti, i ribaltini, i falliti ministri quirinalizi, il licenziamento dei “suoi” saggi – la politica. E la sola via è il voto popolare che al di là dei risultati è comunque risanatore. Ci pensino anche i guaglioni finiti nei guai in suo nome.
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