Ops, è scomparsa l'inflazione. Ora il problema è farla tornare
Dall’inizio della crisi con tutto questo interventismo delle Banche centrali, analisi e commentatori hanno più volte segnalato il pericolo di una crescita esponenziale dell’inflazione in tempi più o meno rapidi. Ebbene in cinque anni, nel mondo sviluppato, è successo esattamente l’opposto: l’inflazione sembra scomparsa, l’indice dei prezzi al consumo nei 34 paesi Ocse è sceso di 3,5 punti dal 2008 a oggi, ed è all’1,5 per cento (depurato da costo di energia e cibo).
Dall’inizio della crisi con tutto questo interventismo delle Banche centrali, analisi e commentatori hanno più volte segnalato il pericolo di una crescita esponenziale dell’inflazione in tempi più o meno rapidi. Ebbene in cinque anni, nel mondo sviluppato, è successo esattamente l’opposto: l’inflazione sembra scomparsa, l’indice dei prezzi al consumo nei 34 paesi Ocse è sceso di 3,5 punti dal 2008 a oggi, ed è all’1,5 per cento (depurato da costo di energia e cibo). Al punto che ora, secondo gli analisti, il pericolo (in particolare in Europa) è la deflazione, cioè una riduzione dei prezzi foriera di una contrazione dei consumi con risvolti depressivi per il ciclo economico. La preoccupazione dei banchieri centrali, che hanno già dispiegato politiche monetarie non convenzionali, è dunque riuscire a creare (sana) inflazione nel 2014. Non è bastato immettere moneta o concedere prestiti agevolati alle banche. Bisogna che la massa monetaria cominci a circolare (velocemente) attraverso investimenti e acquisti. Che sia per dare solidità alla ripresa economica (è il caso della Federal Reserve), ipotecare la fine di una recessione persistente (è il dilemma della Banca centrale europea) o per risvegliare un’economia depressa (è la speranza della Banca centrale giapponese) poco importa.
Il problema comune è che l’indice dei prezzi è inferiore al livello desiderato. Lo dicono i numeri. I prezzi al consumo negli Stati Uniti sono cresciuti solo dell’1,2 per cento a novembre nonostante quindici mesi di stimoli monetari senza precedenti. Stimoli che la Fed comincerà a ridurre da gennaio: non comprerà più 85 miliardi di mutui e titoli di stato ogni mese ma 75. E’ l’inizio del cosiddetto “tapering” ossia il ridimensionamento del secondo programma di Quantitative easing lanciato dall’inizio della crisi. In ogni caso la Fed dovrà “scontrarsi col problema della bassa inflazione”, diceva ieri il Wall Street Journal, tant’è che i tassi resteranno vicini allo zero più a lungo di quanto preventivato, secondo la relazione pubblicata ieri dal Fomc, il comitato di politica monetaria della Fed. In Europa il panorama è variegato ma la “scomparsa” dell’inflazione è palese. In Inghilterra la Bank of England stimola ma l’inflazione è appena sopra il target del 2 per cento e tende a scendere.
In Eurozona a novembre l’indice dei prezzi al consumo è allo 0,9 per cento (la Bce punta al 2). Inoltre, in generale “l’inflazione probabilmente resterà debole nel corso dei prossimi anni”, dice un report di ieri della società di ricerca CreditSights. Questo perché soprattutto i paesi sotto stress (Cipro, Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda) stanno già sperimentando disinflazione. In un anno l’indice dei prezzi al consumo in Grecia è sceso di 2,9 punti, a Cipro l’inflazione è negativa dello 0,8 per cento. E nei paesi un tempo noti come Piigs sfiora lo zero: Portogallo (più 0,1), Italia (più 0,6), Irlanda e Spagna (più 0,3). Austria e Germania sono al l’1,5. Per il presidente della Bce, Mario Draghi, le vie d’uscita sono due: spingere le banche a mettere in circolo il denaro nell’economia rendendo costoso parcheggiare i soldi in Bce oppure stampare moneta, come la Fed.
Per Michele De Michelis, responsabile investimenti di Frame Asset Management, società elvetica con 600 milioni di euro in gestione, questa sarebbe “la miccia capace di far defluire d’un colpo la liquidità immessa dalle Banche centrali globali e genererebbe inflazione”. E’ con questa convinzione che De Michelis scommette su titoli legati all’inflazione, al contrario della maggior parte degli investitori. Non a caso negli Stati Uniti ora si accusa l’ortodossia monetaria della Bundesbank, che, osteggiando l’ipotetico Quantitative easing della Bce, ostacola la ripresa europea e di conseguenza minaccia quella americana, come ha scritto ieri Melvyn Krauss, professore emerito della New York University, in un editoriale su Bloomberg.
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