EDB, letterata speciale

Marianna Rizzini

Nel mondo delle favole le fate distribuiscono l’antidoto al dolore e alla morte, ma raramente ne parlano senza bacchetta magica. Bisogna vedere allora che cosa succede quando una donna che delle fate ha l’aspetto biondo, i modi gentili e l’obiettivo di portare in superficie ciò che non è visibile si mette a scrivere una storia molto forte in cui la vita, e l’amore per la vita, scaturiscono direttamente dalla lotta per l’adattamento continuo e a volte rabbioso al dolore più grande. Bisogna vedere che cosa succede quando le fate assumono il punto di vista non retoricamente pro life di chi, essendo confinato dall’amiotrofia spinale in una dimensione “non verticale” (cioè senza uso delle gambe), ma vivendo con forza d’animo e ironia al massimo delle proprie possibilità, non riesce a sentirsi una persona che “sarebbe stato meglio non far venire al mondo”, come le dice qualcuno.

    Nel mondo delle favole le fate distribuiscono l’antidoto al dolore e alla morte, ma raramente ne parlano senza bacchetta magica. Bisogna vedere allora che cosa succede quando una donna che delle fate ha l’aspetto biondo, i modi gentili e l’obiettivo di portare in superficie ciò che non è visibile si mette a scrivere una storia molto forte in cui la vita, e l’amore per la vita, scaturiscono direttamente dalla lotta per l’adattamento continuo e a volte rabbioso al dolore più grande. Bisogna vedere che cosa succede quando le fate assumono il punto di vista non retoricamente pro life di chi, essendo confinato dall’amiotrofia spinale in una dimensione “non verticale” (cioè senza uso delle gambe), ma vivendo con forza d’animo e ironia al massimo delle proprie possibilità, non riesce a sentirsi una persona che “sarebbe stato meglio non far venire al mondo”, come le dice qualcuno (né riesce, quella persona in sedia a rotelle, a dire “se mi succede qualcosa e vado in coma per favore staccatemi dalla macchina”, perché, pur capendo chi la pensa all’opposto, è troppo attaccata a quella vita strappata con i denti all’immobilità). In questa storia, che è la storia scritta da Emmanuelle de Villepin nel suo ultimo libro (“La vita che scorre”, Longanesi), in parte nato da una serie di incontri che hanno reso ineludibile l’impegno di Emmanuelle per i bambini affetti da patologie neurologiche, le fate si immergono dapprima in un racconto di guerra. Entrano in un villaggio francese distrutto per rappresaglia dai nazisti, guardano la vita di un orfano bambino che combatte da allora, e fino alla vecchiaia, per non sentirsi soltanto uno straniero sfiorato dall’amore – vero ma non viscerale – della famiglia che lo ha accolto e poi adottato. In questa storia le fate combattono la guerra anche in tempo di pace, molti anni dopo, mettendosi nei panni dell’orfano e voce narrante che deve affrontare il suo amore e dolore di padre di fronte a una diagnosi inappellabile per la figlia neonata: amiotrofia spinale, vita seduta, gambe che sentono ma non si ergono, mondo che vede ma non guarda.
    “La gente vede ma non guarda”: questo pensa Emmanuelle de Villepin, scrittrice con una laurea in Legge nel cassetto e una vita precedente tra Francia, Svizzera e Stati Uniti, paladina della Fondazione Dynamo e poi di Together to go (Tog), fondazione per la riabilitazione gratuita di bimbi con patologie neurologiche (in cui si impegna con tutta la famiglia). Ma Emmanuelle è anche la madre di tre ragazze (Neige, Alix e Mita) e la moglie di Rodolfo De Benedetti, il figlio più “industriale” (e calvinista) dell’Ingegner Carlo, demiurgo editoriale del gruppo Espresso-Repubblica. Ed è, Emmanuelle, la signora con la “r” e i capelli da Goldie Hawn che a Milano tutti chiamano “Emm”, un po’ francese un po’ newyorchese un po’ italiana, da venticinque anni a suo agio nei palazzi discreti che nascondono cortili e giardini come dentro uno scrigno. A un livello ancora più profondo, Emmanuelle resta comunque e sempre la sesta di otto figli di una grande famiglia francese (cugina dell’ex ministro e poeta Dominique), fata ad honorem da quando, adolescente, dopo un fatto traumatico e grazie alla scrittura di una favola (“La notte di Mattia”, pubblicata soltanto trent’anni dopo, con le fotografie di sua figlia Neige), riuscì a produrre per se stessa l’incantesimo inseguito invano nei mesi del lutto sordo e delle lacrime che non riescono a scendere: elaborare con trasposizione fantastica la morte per incidente del fratello Hervé, e intanto trovare un senso alla fatica del vivere in una famiglia allargata e aperta nel bene e nel male. Nel bene: perché tra i De Villepin c’erano la condivisione, la musica, il disordine creativo e l’imprevedibilità di due genitori bohémienne nella Francia di fine anni Sessanta (padre formidabile e pieno di amori e madre formidabile e piena di sorprese, come svegliarsi in piena notte e decidere di andare a fare colazione in riva a un lago a chilometri di distanza, e pazienza se il giorno dopo si doveva andare a scuola). E famiglia aperta anche nel male: per la solitudine provata nonostante tutto, in mezzo a tutti quei fratelli, amici, parenti (tanti, ma la quantità spesso è nemica dell’intensità).

    Nel mondo reale, oggi, Emmanuelle de Villepin ha incontrato un’altra fata ad honorem, Lisa Noja: avvocato di trentanove anni che la dimensione “verticale” non l’ha mai conosciuta, perché impossibilitata dalla nascita a camminare, ma è riuscita a mettersi le ali da sola, diventando avvocato e donna dal grande sense of humour, capace della felicità consapevole di chi da sempre combatte contro i suoi limiti, con l’aiuto di un padre indistruttibile e di una madre filosofa (la madre è Antonia Noja, anima scientifica del centro Tog: davanti alla diagnosi di amiotrofia per la figlia, Antonia si è messa a studiare medicina, diventando una delle maggiori esperte in tema di riabilitazione dei bambini con problemi neurologici).

    Nel mondo rarefatto dei ricordi e della fantasia, invece, Emmanuelle non ha mai chiuso la porta all’immaginazione, nutrita fin dai primi anni di vita dai racconti del fratello Hervé, architetto che organizzava per lei spedizioni al cimitero, a suo dire terra di folletti, e dalle leggende che ruotavano attorno al castello di campagna dei nonni, in Francia, teatro di riunioni estive tra cugini e scorribande sotto un albero spettrale, detto anche “mano della strega”: rami nodosi che si protendevano come dita verso il cielo e intrappolavano l’aria nelle notti di vento, producendo uno strano suono, quasi un lamento di donna – da cui la leggenda del fantasma vagolante di una ragazza uccisa laggiù da un principe cattivo, in pieno Medioevo. Il castello dei nonni, per Emmanuelle, è il luogo della memoria affettiva. Lì viveva un’incredibile zia (prestata al romanzo con il nome di “tante Manou”), “curva come un vecchio corvo” e capace di presentarsi in chiesa uscendo direttamente da una botola sotto l’altare, collegata ai suoi appartamenti nel palazzo. Aristocratica-partigiana durante la guerra, capace di nascondere in cantina decine di compagni durante la Resistenza, la zia inceneriva con battute i conformisti e i freddi di cuore. Emmanuelle la adorava, e pare che suo marito Rodolfo sorrida ogni volta che la sente nominare. E anche se oggi Emmanuelle al castello non va più, è come se le sue stanze e i suoi personaggi facessero ancora parte di lei. Perché dopo quelle estati, per lei, è cominciata un’altra vita: il collegio in Svizzera, la convivenza con l’adorata sorella maggiore Alix a Ginevra, l’università con l’idea di diventare avvocato (con molti racconti intanto scritti nel cassetto), il primo amore con il futuro attore Christopher Lambert, il secondo e definitivo amore con Rodolfo. I due erano sciatori provetti, di buona famiglia ma di mondanità selettiva (ancora oggi Emmanuelle preferisce alla feste le cene per pochi in casa, e Rodolfo le maratone in bicicletta – una volta si trovò in cima a un passo dolomitico con James Murdoch, figlio di Rupert, e sembrò a tutti un segnale del destino: a quando l’avvicendamento anche editoriale con il padre Carlo?). Poi l’avvicendamento ci fu (Rodolfo è presidente esecutivo del gruppo Cir e di Cofide, ma l’editoria e la politica restano più che altro una passione paterna).
    La coppia De Benedetti-De Villepin ha pochi amici storici, e molti conoscenti nell’intellighenzia milanese che ha votato Giuliano Pisapia sindaco come nell’imprenditoria conservatrice. Forse perché Emmanuelle è curiosa, e non ha schemi preconcetti. E’ rimasta amica del primo amore Lambert, e molto stupita dalla sua abitudine di calarsi gli anni sulle riviste. E’ diventata amica di un’altra ex di Lambert, Alba Parietti, la donna che ha presentato a Marco De Benedetti, cognato di Rodolfo, la futura moglie Paola Ferrari. E’ molto legata alla suocera Mita (da lì il nome della terza figlia), ma poi resta volentieri accoccolata nel piccolo nocciolo centrale della sua famiglia, quello che da bambina aveva desiderato invano, immersa com’era in un tourbillon di amici e nuovi compagni dei genitori: le bastano il marito e le figlie, con cui Emmanuelle scambia idee e riti (tradizione vuole che il 24 dicembre tutte e quattro le “ragazze” si ritrovino per una sciata pazza e solitaria, all’ora in cui le piste stanno per chiudere e gli altri sono già in casa a preparare il cenone – ed è l’unica discesa dell’anno per Emmanuelle, ora più che altro dedita al fondo come Rodolfo). Il matrimonio cominciò con una richiesta al futuro sposo: se ci viene una femmina la chiamiamo Neige (come la bambola che Emmanuelle aveva da piccola, in montagna, durante una lunga convalescenza post tubercolosi in cui imparò a sentirsi amica della neve, bianca e luminosa a differenza della noia nera dei pomeriggi passati in casa).
    La storia della famiglia di suo marito le ha ispirato il romanzo “Tempo di fuga”, racconto di un doppio esilio, di un doppio amore e di una doppia fuga tra Francia, Russia e Svizzera, anche se in epoche diverse (il nonno di Rodolfo fuggì in Svizzera durante la guerra con figli e moglie per paura delle persecuzioni razziali). Non è un romanzo storico, ma il contesto storico è sempre il punto di partenza per l’Emmanuelle-scrittrice, che prima di iniziare a scrivere (tutti i pomeriggi, con una tazza di tè) si documenta. L’ha fatto anche per il secondo libro, “La ragazza che non voleva morire”, storia di una giovane terrorista cecena che cambia idea un momento prima di farsi esplodere. L’ambientazione dell’ultimo romanzo, invece, le è come venuta incontro senza troppo cercare: il castello dei nonni era a poche miglia da Oradour, il paese detto “martire” per la durezza della rappresaglia nazista contro i partigiani attivi nella zona: uomini fucilati, donne e bambini rinchiusi in chiesa con un esplosivo che non scoppia, e quindi uccisi a bruciapelo mentre scappano. Pochissimi i superstiti. Emmanuelle ricorda di aver sentito parlare di Oradour da bambina, e nel suo ricordo verità e leggenda si accavallano: sua madre forse andava alla merceria del paese, molti avevano parenti morti nella strage, molti avevano sentito i racconti dell’orrore dai sopravvissuti. Ma quei fatti sono soprattutto un pretesto per raccontare la lotta psicologica contro il senso di esclusione.

    Ed è per questo che “La vita che scorre” nasce all’intersezione tra la storia di Lisa Noja, che contro l’esclusione ha vinto una battaglia, e il desiderio di Emmanuelle di descrivere il sentimento universale di chi sperimenti la non-appartenenza totale a un mondo: la bimba che cresce “senza gambe” e l’orfano che cresce come “appoggiato sulla vita”, in bilico tra nostalgia della madre uccisa e la voglia di oltrepassare il “cerchio di fuoco” che lo separa dai nuovi affetti. Nel libro un Antoine settantacinquenne si racconta a ritroso, da vedovo della meravigliosa Elena, ragazza e mamma post Sessantotto con un debole solo teorico per i “finti Kerouac” che l’avevano abbandonata per girare il mondo, e da padre mai rassegnato di Elisa, la bimba in sedia a rotelle che della vera Lisa Noja ha la forza, il sorriso e in parte il vissuto. Oggi Lisa dice che la sua famiglia l’ha protetta dalle scene di ordinaria ottusità che l’Elisa del libro ha sperimentato su di sé, e che Emmanuelle si è sentita raccontare dai genitori di Lisa o di altri ragazzi con disabilità: le bidelle che a fine anni Settanta si rifiutano di portare in bagno la bimba che non può camminare, la preside che alza le braccia dicendo “non posso costringerle”, la cugina e migliore amica di Elisa che, quando scopre di essere incinta, insiste perché Elisa le confermi con un test genetico la diagnosi di molti anni prima – l’amiotrofia spinale – perché lei un bimbo “come lei” non lo vuole, e glielo dice così, dritto in faccia. “Le scelte di una donna sono tutte da rispettare”, dicono oggi Lisa ed Emmanuelle, “ma non c’è una sola scelta possibile, e nessuna strada è da colpevolizzare”. Lisa non vuole condannare “chi non se la sente”, ma pensa “che molti nascondano la loro paura dietro all’idea che ci sia un’unica scelta giusta”. Emmanuelle dice che “a volte è come se ci fosse una discriminazione al contrario, ex post, verso chi mette al mondo un bimbo con un problema neurologico o una disabilità di qualsiasi tipo e grado. Mi è capitato di sentire una signora, durante un evento di Tog, dire a Lisa ‘una volta quelli come lei li buttavano dalla rupe Tarpea’, e Lisa con la sua ironia ha risposto: ‘Sì, ma anche le vecchie signore’. Un caso limite che è spia di un sentimento di chiusura verso la diversità. Ma il rispetto dovrebbe essere nei due sensi: la donna che ha messo al mondo un bimbo disabile non dovrebbe essere giudicata, ma aiutata nel percorso di riabilitazione che permetterà al figlio di vivere al massimo delle proprie possibilità, percorso tanto più efficace quando è precoce”. Tutto il resto, dice Lisa, “fa parte della sfera personale della persona, che io rispetto qualsiasi sia la scelta finale. Solo stiamo attenti a non cadere nell’eccesso di voler negare anche psicologicamente la possibilità di una decisione diversa”. Lisa sa di essere stata, nella difficoltà, fortunata: ha avuto una madre e un padre che l’hanno sostenuta, ha potuto studiare, è andata negli Stati Uniti dopo la laurea per il “bar-exam”, è diventata avvocato, lavora in un grande studio di Milano. Le piace la politica, si è candidata alle elezioni con il Pd (“ma in fondo alla lista”), ci riproverebbe “perché l’impegno diretto per la cosa pubblica mi diverte e mi appassiona”, e pensa che non sia “molto furbo” pensare “che chi ha una disabilità non possa essere anche una risorsa”: “Un disabile non è solo una spesa per lo stato. Se il disabile non perde le chance che ha, se viene da subito affiancato con terapie giuste, se diventa quello che potenzialmente può diventare, è una ricchezza per la collettività. Guarda me: ho un reddito da avvocato, pago molte tasse. Se tutti i ragazzi che nascono con una disabilità venissero presi in cura da subito, chissà quanti professionisti in più – e introiti in più per lo stato – ci sarebbero”. Forse per questo quando Emmanuelle vede un bimbo neuroleso che fa musicoterapia pensa che “è come un primo passo contro il senso di esclusione”: lui si muove impercettibilmente, e a ogni piccolo movimento parte il suono di un violino o di un pianoforte. Ed è come se capisse che anche lui, nel suo piccolo, incide nel mondo, e allora sorride, forte di un suo personale modo di vincere la condanna all’immobilità.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.