Lamento per Anna

Stefano Di Michele

Poi vennero le padelle e le bidelle e uno screanzato monello fiorentino – a chiudere tutto. Ma questo poi, adesso, infine… Però prima… Anna sfilava lenta la Muratti dal pacchetto, la fiamma dell’accendino si moltiplicava tra le pupille scure e le perle bianche che pendevano dalle orecchie. Lei prestava uno sguardo al cielo, sopra il cortile di Montecitorio – che tra limoni e palme pareva magari di sentire uno degli orologi di Villa Bellini, giù a Catania – e insieme uno sguardo all’interlocutore. “Dimmi…”. Gettava fumo, Anna, gettava fumo come se fosse profumo di zagare.

    “Anna bello sguardo / sguardo che ogni giorno / perde qualcosa…” (Lucio Dalla, “Anna e Marco”)

    Poi vennero le padelle e le bidelle e uno screanzato monello fiorentino – a chiudere tutto. Ma questo poi, adesso, infine… Però prima… Anna sfilava lenta la Muratti dal pacchetto, la fiamma dell’accendino si moltiplicava tra le pupille scure e le perle bianche che pendevano dalle orecchie. Lei prestava uno sguardo al cielo, sopra il cortile di Montecitorio – che tra limoni e palme pareva magari di sentire uno degli orologi di Villa Bellini, giù a Catania – e insieme uno sguardo all’interlocutore. “Dimmi…”. Gettava fumo, Anna, gettava fumo come se fosse profumo di zagare. Pareva la pubblicità di certi cioccolatini degli anni in cui ancora studiava Giurisprudenza – e un po’ aveva il mito del Che e molto aveva il mito di Berlinguer, e i cuori già mandava in volo come la palla da provata pallavolista – c’erano allora il “gigante buono” e “Lulù coi suoi occhi blu”. Bella Anna, Anna elegante, Anna, va da sé, intelligente. Che dice adesso, e sempre ha detto: parlate dell’intelligenza, non della bellezza e dell’eleganza. Trattasi altrimenti, avverte, di “preventiva delegittimazione”. E questa è certo cosa giusta e buona. Ma a essere intelligenti, poi, son capaci tutti – persino i più fessi ne colgono un lampo, un riflesso. Il quarto d’ora d’intelligenza è come quello della notorietà: a nessuno si nega, all’idiota soprattutto. Ma la bellezza di più persiste nella memoria, proprio perché meno resiste nella realtà.

    L’eleganza scava. Resta nell’aria il fumo della Muratti – presta naso anche il più incallito tra i fanatici antitabagisti. Gli anni passano – pure per Anna passano, lei ci ride e ci scherza sopra: “Alla mia età sei roba da amatori…”. Ma lo stesso, figurarsi, non è certo Anna meno della fascinosa Consuelo Pilar cantata dalla Vanoni – sempre la sua gonna lanciata al cielo qualcuno in volo ancora segue. Anna fu (è) più che bella: fu icona. Piaceva a (quasi) tutti i compagni, pure a (quasi) tutti gli avversari. Piaceva a uomini e donne. Persino – e ce ne sono pubbliche testimonianze – a lesbiche e gay. “Mi è sempre piaciuta moltissimo, come donna e come politica”, segnalò con equilibrio istituzionale e sana partecipazione erotico-sentimentale Paola Concia. “I gruppi lesbici avevano fatto di Anna la loro icona”, spiegò Chiara Valentini. Anna che nell’Aula del Senato faceva calare il silenzio quando parlava. Anna che ognuno ammirava – il baciamano, la fiamma rapida dell’accendino se mai occorreva: come patetici boys davanti alla wandissima sul palco. Anna che travolgeva il congresso del partito – ventuno applausi beccava, persino dal più rude delegato. Anna sapeva di donne e legge, economia e riforme, partiti e letteratura. Ora persino i provoloni incalliti vaganti nel Palazzo, che assediavano intelligenza e bellezza ben oltre i suoi quaranta inverni shakespeariani che “avranno assediato la tua fronte”, si sono rarefatti. E’ corteggiata?, le chiesero anni fa. “Sempre meno. Non so se aumenta l’autorevolezza o diminuisce il fascino”. Ché cautela sempre serve: mai sperare, intelligentemente, nella completa redenzione del coglione.

    Anna poteva essere al posto di Veltroni al partito. Anna poteva essere al posto di Amato al Viminale. Anna poteva essere al posto di Lombardo a Palazzo dei Normanni. Anna poteva essere al posto di Grasso al Senato. Anna poteva essere al posto di Napolitano al Quirinale – e c’è da immaginare che figura, tra arazzi e corazzieri! Invece persino al suo posto di ministro, un dì di rovinose e stitiche maggioranze, misero la Katia Bellillo da Foligno: va bene la sorellanza, molto male l’incomprensione. Ovunque avrebbe potuto essere, Anna. E ovunque, va da sé, con merito e capacità. Forse è colpa di quel dannato “soffitto di cristallo” da lei individuato – che non si frantuma, che non si spezza, che non cede. Schiaccia, preme, torchia. Le donne, si capisce. “Si chiama soffitto di cristallo: le cariche più alte le vedono, ma un soffitto di cristallo impedisce loro di salire”. Quindi Anna volò – ma non fino alle nubi più alte, non fino alle stelle più distanti, quasi a ritrovarsi (per sua e per nostra mestizia) come in certi versi del suo amato Giovanni Giudici, “una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre”. Poi adesso lo sgarbo finale, e non si trovò posto – per volontà dei nuovi che giunsero, che varcarono l’Arno in abito ghiaccio come mantelli di cavalieri teutonici, e dentro albe rumorose conquistarono l’antica fortezza del Partito – tra la folla dei duecento della nuova Direzione. Anna non c’è. La compagna Finocchiaro Anna – nostro vanto e nostro onore, color corallo e luce vermiglia – non siederà tra i non pochi che saranno adunati a costruire la sorte che verrà. Dei Gian Burrasca, degli sgarrupati di sangue fresco fornito e antico sangue famelici – e l’assedio vero, in questo inverno di scontento e ingratitudine dove all’onor del mondo vanno le Madie, lo hanno portato a lei, che reale e imperiale e intelligente si ritrova esattamente come un’altra Anna, la bizantina Comnena di mille anni fa, figlia prediletta del basileus Alessio, cantata da Kavafis: che tutto al culmine si vide sfilare, “una sola pena profonda ebbe (benché / ce lo nasconda) questa greca superba, / di non aver saputo, lei così capace / mettere le mani sulla Corona – che le soffiò, / per così dire, quell’insolente di Giovanni” (deve essere, Giovanni, il nome bizantino di Matteo – forse).

    Noi tutti amammo Anna – di perle e fumo e corallo, come in certe foto di Ferdinando Scianna. Siamo ora partigiani in gramaglie, consolabili certo, ma afflitti pure. Ne ebbe stima l’Elefantino, che aveva emesso barrito contro l’Unità, “linguisticamente e tendenzialmente omicida”, disse, “se mi ammazzano ricordatevi che è su mandato linguistico di Antonio Tabucchi e di Furio Colombo in concorso tra loro”, e seguirono denunce e processi e condanne e chissà cosa – e lì da Vespa una sera si trovarono proprio Anna e l’Elefantino (e Giovanardi a far di terzo). E’ il giornale dei Ds, dissero ad Anna. E lei: “Non lo è più, purtroppo, nel senso che noi lo finanziamo ma non sempre, diciamo, è esattamente espressione della maggioranza del partito. Ma non è questo il punto, diciamo: è un giornale libero, dove una direzione libera sceglie anche la linea editoriale” – insomma, l’indispensabile da dire (diciamo), e l’insospettabile cronaca dell’Unità stessa offre la misura dell’insoddisfazione per il pronunciamento della compagna Finocchiaro, “sorride, guarda in basso, rivela un po’ di imbarazzo”. L’Elefantino insiste: “Un foglio tendenzialmente ‘omicida’…”. Anna: “So che tu hai questa opinione”. A sinistra spesso il sospetto (anticamera, vestibolo, sgabuzzino della verità) corre – né troppi aggettivi usa Anna, né troppa indignazione mostra, né troppo fervore fa intendere: pur magistrato, pur di Violante amica, forse perché amica pure di D’Alema (“persona deliziosa… è timido, ha un blocco nelle relazioni con le persone”, l’azzardo e la riposta considerazione), e si sa: chi va con l’inciucista impara a inciuciare. Anna sorride, fuma, cerca misura nelle parole. Così da scivolare dall’immaginario eretico abbraccio dalemiano a quello sconsacrato berlusconiano – e questa primavera, quando si doveva votare il presidente del Senato, Peppe Arnone, dal comitato “Pio La Torre per il rinnovamento della politica”, scrisse ad Alfano che “è dei vostri donna Anna, non è donna di sinistra, e non da oggi”, segnalava il pensiero in proposito di “uno dei più brillanti intellettuali di questo paese, Alessandro Baricco” (spiegava appunto, il “brillante intellettuale”, che “uno come Bersani può invece mandare ancora la Finocchiaro in televisione a dire frasi che anche nella loro struttura sintattica non esistono più”), e invitava infine Angelino, lo scrivente Peppe: “Caro Alfano, non potete perdere un’occasione simile: quella di eleggere alla seconda carica dello stato la persona più berlusconiana che siede al Senato: Anna Finocchiaro”. La quale, peraltro, diede ennesimo motivo di dubbio ai moralisti che mordevano i polpacci del suo partito, quando difese Renato Schifani dalle accuse di Marco Travaglio in una memorabile puntata del programma di Fabio Fazio. “Trovo inaccettabile che possano essere lanciate accuse così gravi, come quella di collusione mafiosa, nei confronti del presidente del Senato – disse l’allora capogruppo del Pd a Palazzo Madama – in diretta tv e sulle reti del servizio pubblico senza che vi sia alcuna possibilità di contraddittorio”.

    Come a certi di sinistra succede – a D’Alema è successo, persino a Violante è successo: il parricidio è continuo, il matricidio si fa strada – cantavano pure a destra le lodi di Anna, mai dogmatica e mai fanatica. La Mussolini disse: “Voterei sempre, tutta la vita, per Anna presidente della Repubblica”. Si fece lirico Sandro Bondi (un capitolo del suo libro con Sabelli Fioretti ha per titolo: “Quanto mi piace Anna Finocchiaro”) – è, il suo farsi lirico,  forse poco parsimonioso ma sempre partecipe: “Nero sublime / Lento abbandono / Violento rosso / Fugace ironia / Bianco madreperla / Intrepido mistero”. Di Anna ognuno diceva – bene diceva. Lino Jannuzzi la lodava mentre teneva a bada l’impossibile maggioranza di Prodi: “Con un altro capogruppo non sarebbe durato un giorno”. Persino sull’antipatizzante Giornale s’impennava nel 2007 la prosa di suo piuttosto dispettosa di Giancarlo Perna, posizionandosi a metà tra quella brancatiana e un’habanera della “Carmen”, un pizzico omerica: “E’ proprio bella. Senza tracce di nevrosi contemporanea, la senatrice Ds ha una tranquilla muliebrità all’antica. Alta e morbida, tornita e levigata. E’ già uno spettacolo come appare in tv, col filo di perle al collo, i capelli neri, gli occhi chiari e la bocca vermiglia. Ma l’ideale sarebbe vederla illuminata da uno scintillio di lapilli dell’Etna, avvolta in un peplo che si gonfia lievemente sul seno, scende sinuoso sui fianchi e si affusola ai piedi della dea”. Seno, fianchi, dea, morbida, tornita, bocca: tutto, e il meglio… Quell’anno, al congresso diesse, la compagna Finocchiaro fece furore – insieme fu Carmen e pure Escamillo. Va al microfono e (sempre dal Giornale) in quel momento esatto “è sceso il silenzio che, stando all’Apocalisse, precederà il Giudizio universale nella valle di Giosafat” – da esultare, messa così, ma anche da procedere a qualche rapido, vigoroso esorcismo. Ventuno applausi furono registrati, ventuno: come una Muratti in più di quelle nel pacchetto. Da far schiattare tutte le Leopolde del mondo. “Faremo come Temistocle, che decide di affrontare per mare l’armata persiana anziché aspettarne l’arrivo dietro le spesse mura di Atene!”. Gli ateniesi diessini parevano già tutti sistemati e allertati, chi a poppa e chi a prua, al comando della Compagna Ammiraglia. “Vamos, compañeros!”. Ma ancora il soffitto di cristallo cadde su Anna – e fu Veltroni, con meno cinta di Atene e più spiaggia di Sabaudia, a essere innalzato.

    La compagna Finocchiaro fu compagna davvero, quando c’era da essere compagni. Non voleva la svolta occhettina, narrano che scoppiò in lacrime alla visione del nuovo simbolo della Quercia che aveva schiantato ai suoi piedi la falce, il martello e la bella e cara bandiera rossa. Poi se le asciugò. Fece sempre figure migliori – così devota alla causa, così poco simile alla configurazione donna/sinistra/impegnata su cui i giornali reazionari ricamavano e che quelli progressisti vezzeggiavano. Quando fu nominata ministro – l’annuncio glielo diede D’Alema mentre percorreva, c’è da credere, e qui ancora Brancati soccorre, tra accecamenti e pubbliche ammirazioni, la via Etnea – uno stolto cronista dell’Unità ebbe a scrivere, nella cronaca del giuramento quirinalizio, che S. E. Finocchiaro come madrina di cresima stava abbigliata. La stoltezza con una risata e occhiataccia di brace fu segnalata, il modello sartoriale riabilitato, l’onore stilistico restituito. L’intera storia, che dal comunismo ha portato il granitico partito alla ribollita tardo democristiana di oggi, ancorata alle sue perle, Anna – “donna Anna” per alcuni, “Annuzza” per altri – ha vissuto. Così: dal dominio congressuale al mesto sortire dall’anonima Direzione di fresco attruppamento. Quasi era evocativa, al momento di gloria massima, la compagna Finocchiaro, di Teresa Uzeda principessa di Francalanza, quella dei “Viceré” catanesi di Federico De Roberto: “Gran donna, la principessa! Basta dire che rifece la casa già fallita!”. Seppure, si capisce, con appositi e necessari scongiuri – la nobildonna defunge a inizio del romanzo, Anna ha vigore e salute da vendere – le cronache che la raccontavano s’appaiavano alle iscrizioni barocche con la quale alla principessa i sottoposti rendevano onore: “Sotto muliebri spoglie / cuore gagliardo pietoso / animo eletto munifico / spirito svegliato fecondo / onninamente (e che vuol dire?, giustamente chiedeva il barone Carcaretta nelle pagine di De Roberto) degna / della magnanima stirpe / che la fé sua”. Ma ecco, in agguato, padelle, bidelle e monello. “Sempre pulcinellate?”, avrebbe chiesto don Blasco. Sempre forse no. Adesso, però, sì.

    Rinfacciò le padelle dell’Ikea, Matteo Renzi alla compagna Finocchiaro, il cui nome circolava – quando nel buco nero dell’urna si sparò alle spalle di Marini e Prodi – per il Quirinale. Le maledette padelle. Antiaderenti, fu specificato – ma lì, sullo scivoloso padellame, insieme a un mesto stenditoio, nel carrello strapieno di ordinari manufatti, due uomini di scorta a far ala e un autista a spingere, qualcosa di Anna cadde. Come se le perle si sfilassero dal filo. Tic-tic-tic… Mon Dieu! Come se i coralli impallidissero. Come se fosse l’ultima sigaretta ed è giorno di chiusura dei tabaccai. Maledette foto. Impeccabile sempre, Anna: col tailleur rosso fuoco, il foulard abbinato, orecchini incantevoli. Maledette padelle. Gliele lanciò tra i piedi, Renzi: “Non può diventare presidente chi ha usato la sua scorta come carrello umano per fare la spesa da Ikea”. Anna: “Sei un miserabile”. Godeva il Fatto: “Finocchiaro canta ‘Pazza Ikea’, dirige l’orchestra Matteo Renzi”. Seguì l’uscita infelice sulle bidelle: “Stiamo parlando di parlamentari della Repubblica, non stiamo parlando di bidelle”. Si può precisare, correggere, dare completa lettura. Si può. Ma quella frase lì rimane – monca, magari; imbarazzante, comunque. Fece gran festa Maurizio Crozza a “Ballarò”: “Come si fa a paragonarle? Le bidelle lavorano!”. E lei in studio rideva, ma di riso amaro rideva – quasi da singhiozzare veniva. Poi le vicende giudiziarie che in Sicilia hanno coinvolto suo marito, il ginecologo Melchiorre Fidelbo. Persino certe banane al supermercato, sempre presente la scorta, ha messo di mezzo l’Espresso (seguì querela). Anna sorride meno – dice che cerca di limitare il fumo; magari è un po’ più nervosa, ammette. E a volte neanche si può più sorridere – se il Corriere così titola: “Rottamata all’ultima corsa l’eterna candidata Finocchiaro”. E Anna, tra la brace e il vermiglio, sempre più somiglia a quella della canzone di Dalla dallo sguardo bello, “sguardo che ogni giorno perde qualcosa”. Disse: “Un uomo, con il mio curriculum, l’avrebbero fatto presidente della Repubblica”. Disse che scherzava. Disse: “Il paese è pronto ad avere un presidente della Repubblica donna”. Disse seria. E perfetta sarebbe stata, Anna – già compagna, già viceré, già principessa. Sempre già molte cose. Sempre mai abbastanza. Sempre così.

    Sulla mistica della rottamazione Anna è stata immolata. “Rumor di ciottoli sotto gli zoccoli del destriero consolare…”, ha forse udito, come la doña Flora di un romanzo del suo amato Abraham Yehoshua (dicono sia stato Violante a farla appassionare alla letteratura ebraica). Lei che ebbe ventuno applausi, non ha avuto posto tra centinaia disponibili. Ora i capelli non sono più tanto neri, come quando debuttò a Montecitorio – una spolverata di grigio sopra, come zucchero a velo sul pandoro natalizio. Bella di più quieta bellezza. Lei, che ha sempre detto di amare gli uomini che sembrano secchioni – ebbe modo di trarne elogio per Marco Follini: secchione tipico – è finita tra le mani del novello Franti: non di uno dei barbari che assediavano le mura, ateniesi o spartane o catanesi che fossero, del suo gran partito; ma il barbaro stesso a cui i suoi compagni di vita e di strada hanno aperto le porte e offerto le chiavi della città. Sono franate le torri, si è fatto più minaccioso il soffitto di cristallo.

    Anna come sono tante – però non molte ce ne sono state. E di sicuro non ce ne sarà un’altra… Rimetterà magari a consolazione il vecchio disco di Lucio Battisti che amava – “Balla Linda” da una parte, “Acqua azzurra acqua chiara” dall’altra. Quando le ragazze che andavano per la maggiore dovevano essere bionde e lisce e magre come acciughe, svedesi di paese, e lei invece era come Angelica, di carni e capelli corvini: da farci pazzo Orlando e pure Rinaldo, Sacripante e pure Ferraù: ventuno applausi, non uno in meno. Ebbe giustificatissima rivincita. Ma intanto il luminoso cristallo pare mutarsi in oscuro piombo. “Questo caro sgomento mio d’esistere…”, scriveva il suo amato Giudici. Quasi niente, si direbbe, rispetto allo sgomento per l’esistenza di Renzi. “E in ogni caso l’essere è più del dire” – lo sa Anna e lo sa il poeta.