Vita da yacht

Michele Masneri

Uno yacht è probabilmente più importante di una moglie, e Rupert Murdoch ha deciso di liberarsi di entrambi. Dopo aver chiesto il divorzio dalla terza consorte, la cinese Wendi Deng, ha messo in vendita anche il suo Rosehearty, cinquantasei metri a vela costruito dai cantieri Perini di Viareggio: e tutti hanno voluto vedere un nesso tra le due separazioni. Il nesso forse però non c’è: i famosi amplessi extraconiugali recentemente finiti sui giornali, con protagonista l’ex premier britannico Tony Blair, non sarebbero stati consumati sull’armata di mare murdochiana ma piuttosto nella sua tenuta di Carmel, in California.

    Uno yacht è probabilmente più importante di una moglie, e Rupert Murdoch ha deciso di liberarsi di entrambi. Dopo aver chiesto il divorzio dalla terza consorte, la cinese Wendi Deng, ha messo in vendita anche il suo Rosehearty, cinquantasei metri a vela costruito dai cantieri Perini di Viareggio: e tutti hanno voluto vedere un nesso tra le due separazioni. Il nesso forse però non c’è: i famosi amplessi extraconiugali recentemente finiti sui giornali, con protagonista l’ex premier britannico Tony Blair, non sarebbero stati consumati sull’armata di mare murdochiana ma piuttosto nella sua tenuta di Carmel, in California. Non sarebbero insomma state contaminate le sei cabine del panfilo comprato in Italia nel 2005, tra schermi lcd anche sui ponti esterni, pannelli laterali rivestiti di pelle e interni molto tenui ed esangui e ton sur ton come in un boutique hotel o boutique Nespresso o qualunque non-luogo di gran lusso da stilista o inferior decorator sui toni chiari, beigini e grigini voluti dall’architetto francese minimalista e ospedaliero Christian Liaigre, disegnatore delle scenografie un po’ Ikea della terza vita del tycoon australiano. Liaigre infatti ha sistemato non solo la barca in questione ma anche la casa newyorchese dei Murdoch sulla Quinta Strada (comprata dai Rockefeller nel 2004, rimarrà alla moglie) e quella di Shanghai. Ma di tutti questi fondali da aeroporto e Armani-Café con penombre e stuoie e simmetrie giuste, il barcone è quello a cui Murdoch era evidentemente meno affezionato; né è lo yacht ove la coppia si sposò nella già memorabile cerimonia marinara nelle acque newyorchesi il  25 giugno del 1999; lì si trattava invece del Morning Glory, 48 metri sempre dei cantieri Perini, tre alberi, poi ceduto a Silvio Berlusconi che riuscì a comprarselo nel 2000 dopo lunghi corteggiamenti su e giù per la Sardegna e la Corsica – e quello fu l’unico affare tra i due, in tempi in cui si discuteva molto di una possibile cessione di Mediaset a Murdoch.

    Né sul Rosehearty si celebrarono i famosi battesimi filologici delle bambine Murdoch sulle acque del fiume Giordano, con permesso speciale dei sovrani di Giordania, e Blair a far da padrino anfibio alla piccola Grace. Semmai, vennero fuori (nelle audizioni parlamentari sul caso delle intercettazioni illegali del gruppo Murdoch, in cui Wendi ebbe parte attiva difendendo il marito da lanci di torte in faccia) diverse vacanze dell’attuale premier britannico, David Cameron, a bordo del veliero. Che nell’onomastica di famiglia ha un peso: il Rosehearty, oggi in vendita per 29 milioni di dollari, ma già da anni in affitto, ha lo stesso nome di una tenuta molto fitzgeraldiana che i Murdoch avevano a Long Island, poi venduta per 10 milioni di dollari: seppur simile per assonanza al “Rosebud” del Cittadino Kane di “Quarto Potere”, qui il nome non ha a che fare con giocattoli freudiani ma piuttosto con madeleine scozzesi. Rosehearty è il nome del paesino dove si insediò il bisnonno James Murdoch, pastore della calvinistissima chiesa di Scozia e fondatore della schiatta nel 1843.

    Dunque molte memorie familiari e tradizionali tra preghiere e brughiere. E la rotta scozzese era poi anche la principale del più celebre yacht di tutti i tempi, il Britannia, di cui il 2013 celebra i sessant’anni. La nave in dotazione alla famiglia reale inglese era stata varata il 16 aprile 1953 dai cantieri della John Brown & Company di Clydebank (Scozia), ultima di una serie di 83 navi reali che dal 1660 erano in dotazione ai sovrani inglesi – serie poi ingloriosamente interrotta per spending review e cattiverie di primi ministri anni Novanta. Il Britannia era stato varato direttamente da Sua Maestà Elisabetta, con un tradizionale e fantozziano lancio di bottiglia di vino inglese – lo champagne sarebbe stato considerato troppo esotico e lussuoso nell’immediato Dopoguerra inglese di restrizioni – e di Elisabetta è stato notoriamente l’unico grande amore. Una delle poche foto storiche che la ritraggono con un sorriso convincente è quella scattata da Lord Lichfield nel 1971 e mostrata lo scorso anno alla grande mostra alla Royal Portrait Gallery, dove una Elisabetta insolitamente gaia si sporge sul ponte del Britannia, ripresa da sottobordo – mentre l’unica immagine esistente della sovrana in lacrime è quella all’atto dello smantellamento del Britannia, nel 1997, con addirittura un ditino regale a tergersi una lacrima.

    A bordo del panfilo, disegnato da lei stessa con l’ausilio del duca di Edimburgo, Elisabetta aveva compiuto il suo primo grand tour da sovrana, 43 mila miglia, sei mesi di viaggio intorno al mondo, con 276 discorsi, 508 “God save the queen” intonati da bande locali, 13.213 strette di mano. Il duca aveva in particolare disegnato le specifiche tecniche, mentre la regina si era occupata di dettagli come le tende in chintz e maniglie e paralumi, scrive Sally Bedell Smith in “Elizabeth The Queen” (Penguin, 2012). Arredato con sobrietà inglese e usi marinari, non da bru-bru della domenica con foularino e champagnino (il principe Filippo nasce ufficiale di marina), Elisabetta sul Britannia ha compiuto tutti i suoi viaggi da boss del Commonwealth. A bordo si è consumata la vita reale dell’ultimo mezzo secolo: qui trascorsero la luna di miele anche Carlo e Diana, con una crociera nel Mediterraneo che ebbe il suo clou sulle coste egiziane e un banchetto di stato con il presidente Sadat (lei si voleva già suicidare). Già sul Britannia nel 1979 durante la tradizionale crociera nelle isole occidentali della Scozia, Carlo aveva chiesto in moglie una signorina da bling ring, Amanda Knatchbull, che gli aveva detto di non pensarci neanche; invece Diana accettò, come scrive Tina Brown nelle sue “Diana Chronicles” (2007), e fu condannata a una serie interminabile di crociere col plaid sulle ginocchia: “A lei piace chiacchierare con tutti i camerieri e i portantini e i marinai mentre io adoro starmene in coperta a leggere uno dei libri di Lauren van der Post”, scrive Carlo nelle sue memorie, e Diana già sbroccata che si aggira sottocoperta sembra una Jasmine dell’ultimo Woody Allen, parlando anche un po’ da sola in cerca di Xanax e drink.
    Nei migliori anni della loro vita il Britannia però li rese anche un po’ felici, forse: la tradizionale crociera scozzese agostana vedeva il royal yacht passare di fronte al castello di Mey, residenza della regina Madre – con cui le truppe di terra e di mare si scambiavano messaggi in codice marinaro tramite sbandieramenti, tipo, dal castello: “Cara Lilibet, porta limoni. Qui al castello li abbiamo finiti” (sempre Tina Brown). Poi il Britannia passava al largo di Oban, località famosa non soltanto per il suo whisky, ma anche perché residenza della mamma di Diana, la traviatissima e smandrappata Frances Shand Kydd, che aveva abbandonato il conte Spencer per gettarlo nelle mani della aspirazionale Raine McCorquodale, figlia della scrittrice rosa Barbara Cartland (talmente vaporosa e impresentabile da essere placée appositamente nascosta alle nozze reali del 1981 dietro una colonna di Westminster, si vendicò con Diana sostenendo che “di libri ha letto solo i miei, e non li capisce”). Lo yacht reale passava di fronte alla tenuta della neo-hippy Frances Kydd, faceva un rapido inchino e tutti erano contenti, si fa per dire, prima di proseguire per il castello tremendo di Balmoral (quello del film “The Queen”), luogo di inenarrabili etichette e vessazioni, col tronetto della regina Vittoria morta dove nessuno per nessuna ragione può mai sedere, e almeno cinque cambi d’abito al giorno.

    Cherie Blair ricorda un “orrore che non è possibile definire a parole”; anche perché tra pellicce e trofei di caccia tarlati e molti veicoli d’allergie, lì i reali venivano fuori al naturale, con la principessa Anna che alla sua amichevole proposta “chiamami Cherie”, aveva risposto: “Mi sembra che Mrs. Blair vada benissimo”. E la regina madre coi complessi da parvenu scozzese, dunque formalissima anche in circostanze minori, e sempre un’etichetta di stato, con tiare e decorazioni e fasce anche per merende nel bosco, si disse poi “mortificata” quando Mrs. Blair si presentò a pranzo con un tailleur pantalone, probabilmente la prima donna ad aver mai esibito quell’indumento nel castello reale (Mrs. Blair si disse poi mortificata a sua volta per la cacca che i corgi facevano dappertutto tranne che nei posti giusti, e che scrupolosi valletti raccoglievano).

    Però tornati a bordo del Britannia la vita trascorreva lieta: nel 1977, mentre la regina si trovava alle Barbados per il Giubileo d’argento – i primi venticinque anni di regno – un Concorde della British Airways passava a volo radente per salutare la sovrana. Tutti erano contenti, e il panfilo di stato serviva anche in altre innumerevoli occasioni: per esempio meeting internazionali, come quello al largo di Civitavecchia in cui il 2 giugno del 1992 sarebbero stati decisi non soltanto la vendita dei pezzi migliori del capitalismo italiano ma anche lo smantellamento dello stato imprenditore e ad abundantiam della Prima Repubblica – lo scrive Massimo Pini ne “I giorni dell’Iri, storia e misfatti da Beneduce a Prodi”, Mondadori, 2000; lo ricorda Massimo Mucchetti in “Licenziare i padroni”, Feltrinelli, 2003. A bordo della real fregata ci sarebbero stati in un vertice molto segreto rappresentanti di Morgan Stanley, Goldman Sachs, Schroders, Jp Morgan, Credit Suisse – oltre a rappresentanti delle élite italiane, fra cui dirigenti di imprese pubbliche, vertici di istituzioni bancarie e un solo uomo politico, l’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi. Solo un mese dopo quel vertice marinaro, come ricordò Natalino Irti, il 2 luglio 1992 fu elaborato in fretta e furia il testo del decreto legge che convertì Iri, Ina e Imi da enti pubblici in società per azioni; e pochi giorni dopo iniziò in effetti Tangentopoli.

    Il Britannia nella traversata civitavecchiese seguiva poi forse la rotta di un altro celebre yacht, la nave Elettra di Guglielmo Marconi che tra Civitavecchia e Santa Marinella dispiegava vele e cablogrammi, a suo tempo definita da D’Annunzio “candida nave che navigava nel miracolo e animava i silenzi”, ma a differenza di quella non fu smantellato ma trasformato in attrazione turistica: l’11 dicembre 1997 in diretta nazionale da Portsmouth, con le famose lacrime di Elisabetta, lo yacht di stato andava in pensione: in uno dei momenti più di magra tra il popolo britannico e i suoi reali. La manutenzione e le spese – ventuno ufficiali, 256 uomini di equipaggio – non erano considerate più sostenibili, e John Major si prese la responsabilità di chiudere una tradizione di yacht reali che partiva da Carlo II.
    Adesso il Britannia è spiaggiato nel porto di Edimburgo, dove con un biglietto da 12 sterline si può visitare la suite della regina e quella (separata) del principe Filippo; le cambuse e il cinema di bordo; con 14,95 sterline si possono comprare invece anche una serie di francobolli commemorativi, con 29,95 un piatto piuttosto brutto che ricorda il varo della nave reale, mentre “per i tuoi eventi aziendali” recita la brochure, si possono organizzare pranzi da 8 a 196 ospiti.

    Però dopo i grandi giubilei e le nozze e i bebé reali e tutto questo palinsesto quotidiano praticamente gratis, qualcuno comincia a dire che è ora di sdebitarsi con la Ditta, e di regalare alla regina un’altra barca. In fondo, ha scritto sul Daily Mail Robert Hardman, storico reale (sua l’ultima biografia della regina, “Our queen”, pubblicata da Hutchison), siamo una nazione marinara, e ciò che è mancato nel grande Giubileo sul Tamigi è stato proprio uno yacht coi colori Windsor. Una barca decente per la regina costerebbe molto meno di tutti quei volgari aerei che anche l’ultimo capo di governo europeo si concede; anche Tony Blair nel libro di Hardman si dice “tremendamente pentito” di non aver offerto sostegno bipartisan all’allora premier John Major quando si trattò di restaurare con cinquanta milioni di sterline il Britannia, o di farne fare uno nuovo. “Un terribile errore”, ha detto Blair, e ora i realisti marinari cercano sostegno per costruire un nuovo yacht reale; che potrebbe essere un veicolo di pubblicità enorme per l’industria cantieristica britannica, oltre che per la famiglia reale. Bisogna trovare però il modo: chiedere soldi al popolo non parrebbe molto accorto.

    Difficile immaginare ciò che avvenne nel 1947 con re Haakon di Norvegia, nato principe Carlo di Danimarca, ufficiale di marina. Il sovrano aveva accettato lo scalcinato trono di Norvegia nel 1905 solo a patto che gli venisse donato un panfilo di stato, e lo dovette aspettare per cinquant’anni, e dovettero passare due guerre mondiali, fino al 1947, quando i sudditi, compresi i bambini delle scuole, si autotassarono, per regalare al vecchio e rispettato padre della patria il suo yacht, il Norge, che il re utilizzò felicemente per dieci anni, fino alla morte (oggi è passato al nipote, re Harald, che lo usa anche in missioni ufficiali).

    Si era tentato un utilizzo pubblico e statale anche di un altro yacht piuttosto iconico, il Christina O (già semplicemente Christina), anch’esso oggi in vendita e appartenuto naturalmente a Aristotele Onassis. Comprato dall’armatore greco nel 1954, era stato in realtà precedentemente una fregata della marina canadese che l’astuto Onassis comprò per pochi soldi imbellettandolo tipo “Vendo casa disperatamente”, trasformando i suoi 99 metri nel più lungo status symbol del mondo in tempi pre-minimalisti e pre-troika, con bagni dai rubinetti d’oro e maniglie d’avorio, caminetti di pietre preziose, lavandini in lapislazzulo e piscina scoperta sul ponte principale con mosaici a rappresentare tauromachie. Arredato con mobilio Luigi XIV e quadri da museo, inclusi un Rubens, un El Greco, un Renoir, gli sgabelli del bar davanti alla vetrata panoramica, dove Onassis maltrattava le fidanzate e offriva l’aperitivo, erano rivestiti in pelle di balena. A bordo del Christina si svolsero le storie d’amore molto iconiche con Maria Callas e poi con Jacqueline Kennedy e si tenne anche il ricevimento per le nozze di Ranieri e Grace di Monaco, al largo del Principato nel 1956. Alla morte di Onassis, nel 1975, la barca passò poi alla figlia malmostosa Christina che a sua volta lo regalò al governo greco per farne uno yacht di rappresentanza, forse con scarso senso di opportunità: e adesso è stato messo in vendita a Montecarlo.

    Lì è ormeggiato anche il Sokar, nuovo nome dello Jonikal, il sessantatré metri a motore che Mohamed al Fayed, proprietario dei grandi magazzini Harrods, aveva fatto comprare in fretta e furia al figlio Dodi nel 1993 per irretire Diana e scorrazzarla tra il Mediterraneo e Parigi tra autisti ubriachi e note di Julio Iglesias, e magari poi sposarla facendo molto innervosire la regina. (E a leggere sempre le “Diana Chronicles”, che tristezza nel constatare che né Diana era interessata al burino Dodi, né tantomeno il povero burino Dodi a lei, invece eterodiretto dal padre egizio ossessionato dall’establishment e da questo regolarmente vessato). A Monaco tanti anni fa era ormeggiato anche il Sereno di Angelo Rizzoli, fondatore dell’impero editoriale e nonno dell’Angelo Rizzoli morto a Roma qualche giorno fa. Quarantatré metri a motore, “il più lungo del Mediterraneo”, all’epoca. “Molti scrittori, c’era anche Pietro Nenni, e Ungaretti, vecchissimo”, scrive Christian De Sica in “Figlio di Papà”. “Commendatore! Ecco le cotolette! Ci sono le cotolette! E tutti mangiavano ’ste cotolette e lui a aveva un bocchino al sapore di menta, finto, e diceva: De Sica, lei mi ha dato una coltellata alla schiena con quell’Umberto D”. Scrive sempre De Sica jr.: “Frank Sinatra diceva che non è difficile avere uno yacht, è difficile avere gli amici disposti a venire su quello yacht”.