L'albo d'oro degli sceneggiati

E di colpo i Karamazov invasero le case degli italiani

Stefano Di Michele

Che poi, neanche c’è da starci tanto a pensare sopra, si sa. Buttarsi o non buttarsi? Buttarsi, signora Karenina, tra binario e motrice – sotto il treno, dopo averlo fatto tra le braccia di quel bellimbusto del conte Vrònskij. “Nell’obliqua ombra serale dei sacchi ammassati sulla banchina, Vrònskij…”. Non si può mettere piede in una stazione, pare, tanto all’inizio della faccenda quanto alla fine della stessa, senza incappare nel milite seduttore. Anna K. dietro la veletta, Anna K. dietro i vetri ghiacciati.

    Che poi, neanche c’è da starci tanto a pensare sopra, si sa. Buttarsi o non buttarsi? Buttarsi, signora Karenina, tra binario e motrice – sotto il treno, dopo averlo fatto tra le braccia di quel bellimbusto del conte Vrònskij. “Nell’obliqua ombra serale dei sacchi ammassati sulla banchina, Vrònskij…”. Non si può mettere piede in una stazione, pare, tanto all’inizio della faccenda quanto alla fine della stessa, senza incappare nel milite seduttore. Anna K. dietro la veletta, Anna K. dietro i vetri ghiacciati. Anna K. col cagnolino, Anna K. senza cane. Anna K. con la mamma del conte stesso – e lei che parla dei figli suoi, e la genitrice che parla del figliolo suo: a riprova che in viaggio non si dovrebbe dar confidenza a nessuno. Il primo incontro: Vrònskij sulla banchina, Vrònskij in carrozza. Lui fa l’occhio assassino, Anna K. fa l’occhio insieme sdegnoso ma attento. Un poveraccio sotto il treno per cominciare, lei sotto il treno per finire. Ognuno sa. Nella nuova “Anna Karenina”, da poco andata in onda su Rai Uno, Vittoria Puccini si fa (saggiamente) il segno della croce, una bimbetta accanto si fa il segno della croce pure lei. Apocalisse nell’aria. Fine. Titoli di coda. Allora? Nella vecchia “Anna Karenina” che tutti rimpiangono, Lea Massari si aggira solitaria su notturni binari – “Attenta, signora, a momenti passerà il treno”, l’avverte diligente il ferroviere – si toglie la veletta, si sente e si vede la locomotiva giungere, e giù (che poi, magari gli spettatori son sempre di troppo acile contentamento, ma farsi segare a metà per Vrònskij/Pino Colizzi, onestamente, con certi baffetti evocativi di un amministratore di condominio…).

    Perciò, 1974 vs 2013: diciannove milioni di spettatori contro cinque milioni e passa, ma si sa, tutt’altra televisione, canali moltiplicati, pubblico vagante – allora, quasi quarant’anni fa, persino l’operetta “L’acqua cheta” ne faceva venti. Scrive ora Aldo Grasso sul Corriere che “sembra di assistere a un vecchio sceneggiato della Rai con iniezioni di modernità”; annota su Repubblica Antonio Dipollina che pare, l’Anna Karenina sospesa sui binari, “atto dovuto alla tradizione dei classici – ma quelli veri – divulgati alle masse”. Quelli veri – dunque. Che quelli sì – prima che lo sceneggiato diventasse fiction, prima che la monumentale lunghezza con cui appunto venivano divulgati alle masse si contraesse in due rapide serate (come i treni, forse pure la messa in scena ha preso l’alta velocità). E peraltro, occorre tener conto che pure quella storica “Anna Karenina” arrivava in televisione quasi al tramonto di un’epoca, come sempre Grasso segnala nella sua “Storia della televisione italiana”: “Sandro Bolchi si affanna a mantenere in vita un genere in cui la Rai comincia a non credere più. Straordinaria la presenza di Lea Massari: da sola regge le sei puntate”.

    Fu comunque un genere a suo modo grandioso, quello dello sceneggiato televisivo. In tutt’altra Italia, va da sé: in bianco e nero, dalle sere brevi e le notti lunghe, un linguaggio che si scopriva e non ancora (troppo) s’imbastardiva, massimo due canali dove scegliere, un bottone o l’altro e pace, un ordine sociale/politico che stava per schiantarsi ma che ancora pareva solido. Fu grandioso, quel genere, perché portò milioni di persone (masse, si sarebbe detto; masse, si diceva) a prendere visione, prima elementare consuetudine (a prendere lettura magari più difficilmente: ma anche lì, si fecero molti più passi avanti di mille festival di letteratura o di lettura o di presentazioni di libri in rapido divenire: “Questa moda di presentare i nuovi libri, come i re dal balcone presentavano alla folla il principe ereditario appena nato, è recente…”, segnalava allarmato Ennio Flaiano nel 1962), con Tolstoj e Dostoevskij, Melville e Dumas, Emily e Charlotte Brontë, Stevenson e Thackeray e Chesterton, Cronin e Thomas Mann, Flaubert e Maupassant, Hugo e Jane Austen, Bulgakov e Dürrenmatt, Balzac e Pusˇkin, Dreiser e Lamartine, Dickens e Goncˇarov. Omero, persino – con la sua “Odissea” introdotta, puntata dopo puntata, da Giuseppe Ungaretti; persino Virgilio e la sua quasi indigeribile “Eneide”. Ovviamente gli italiani. Ovviamente Manzoni e i suoi “Promessi sposi”, ovviamente Collodi col suo “Pinocchio”, ovviamente De Amicis col suo “Cuore” – e poi Palazzeschi, Bacchelli, Fogazzaro, Nievo, Alianello, Deledda, fino a De Marchi, Capuana, Verga, Pellico, Silone, Svevo ecc. ecc. Quasi una regola, quello che ora pare eccezione – ciò che adesso la televisione (a torto, qualcuno dice; a ragione, c’è chi sostiene) non è più in grado di sopportare o di saper fare.

    Bene, almeno. Sensatamente, perlomeno. Persino l’Osservatore Romano, nel 1959, per raccontare i primi cinque anni di vita dell’italica Rai, elencava ammirato: “Nel complesso, oltre le centinaia di rubriche varie e di trasmissioni periodiche a carattere fisso, la Tv italiana ha presentato finora circa quattrocento lavori di prosa, una cinquantina di opere liriche, quattordici romanzi”. Uno dei grandi registi di questa fenomenale infornata di classici nella programmazione, insieme a Sandro Bolchi, fu Anton Giulio Majano – da “David Copperfield” a “Delitto e castigo”, da “La cittadella” a “La fiera della vanità”, da “Jane Eyre” a “L’isola del tesoro”, da “Una tragedia americana” a “Piccole donne”… “Majano – scrive Grasso – rappresenta felicemente l’ortodossia della regia televisiva nel teleromanzo”. Al tramonto ormai definitivo di quella stagione, nel 1990, il regista spiegava al Corriere della Sera ciò che era stato e ciò che si preparava a essere: “E continuo ad allibire constatando come esistano ancora degli addetti ai lavori – o pseudo tali – che confondono la fiction o il film con il romanzo sceneggiato, che è una lettura visiva analitica, e quindi fedele – o che si sforza di essere tale – dell’opera narrativa. Il film, invece, condizionato dalla durata, ne è tutt’al più un condensato tipo Reader’s Digest, e la fiction è priva normalmente di qualsiasi contenuto artistico”. Ciò che adesso è (l’opposto è), lo spiega benissimo sull’Espresso Carlo Freccero, che piuttosto invita a concentrarsi sui telefilm americani, le nuove grandi serie, “come fanno tutte le persone intelligenti ancora in circolazione”. Sostiene Freccero: “Mentre la Rai finanzia ancora sceneggiati alla Bernabei, tanto è vero che il più grande produttore di fiction in circolazione è ancora lui, i nuovi telefilm dettano il linguaggio dei tempi e mettono al bando l’ascolto distratto tipico della televisione. Per essere capiti richiedono una concentrazione assoluta e anche visioni successive. Reggono moltissime repliche e non si consumano”. La massa (la quantità), “progressivamente sostituita dalla moltitudine come somma di differenze, un concetto che ho preso in prestito da Toni Negri”. Però lo stesso, una decina di anni fa, si chiedeva addirittura l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi: “Perché non rileggere i romanzi storici dell’Ottocento e provare a tradurli in sceneggiati?”.

    Eppure qualcosa resta. Persiste. Forse persino risorge – così che gli scaffali delle librerie sono piene dei Dvd di quegli sceneggiati, escono allegati ai giornali, diluiscono serate e giorni interi di voraci spettatori: forse nostalgici alcuni (nostalgia canaglia?), incuriositi altri. “Ci guardiamo ‘I fratelli Karamazov’, domenica prossima?”. Nel caso, ci vorrebbe l’intero fine settimana: trecentocinquanta minuti, Umberto Orsini e Lea Massari, Salvo Randone e Carla Gravina, Corrado Pani e Sergio Tofano in scena. Regia di Sandro Bolchi. Otto puntate – allora il decimo Dostoevskij televisivo. Weekend con un ponte di mezzo per gli storici “Promessi sposi”, sempre di Bolchi, 480 minuti, anno 1967, interpreti Tino Carraro e Franco Parenti, Salvo Randone e Lea Massari, Massimo Girotti e Luigi Vannucchi. Oltre a Renzo e Lucia, Nino Castelnuovo e Paola Pitagora. “Negli sceneggiati c’era sempre molto teatro – spiegò lo stesso regista, molti anni dopo – perché lo sceneggiato si richiamava al teatro, non si richiamava al cinema. Questo è il fondamento del genere. Gli attori erano attori di teatro e non di cinema, i mezzi erano della televisione e non del cinema per cui chiaramente gli espedienti erano della televisione”. Fu un evento, quello sceneggiato, cinquecento milioni di costo, persino l’annuncio della scelta di Lucia data in diretta al telegiornale, interrompendo un servizio sulla guerra in Vietnam. “La sua trasposizione dei ‘Promessi sposi’, fedele, umile e ossequiosa, resta una pietra miliare nella storia della tv italiana” – Grasso sul Corriere, quando Bolchi morì. Il punto limite, il massimo possibile – fu giudicato da alcuni (Angelo Romanò). Sette puntate, quasi novanta minuti a puntata, per “La fiera delle vanità” – “sceneggiato-fiume”, nel 1967. Cinquecento minuti per “La cittadella”, nel 1964. Due attrici furono tra le formidabili protagoniste di quella stagione – e di molte altre, a teatro: Ilaria Occhini e Anna Maria Guarnieri. Occhini iniziò nel 1956 con “L’Alfiere”, fu “Jane Eyre” con Raf Vallone, “Graziella” con Corrado Pani, la sventurata Sonja di “Delitto e castigo” con Luigi Vannucchi, la virtuosa Emmy Sedley nella “Fiera delle vanità”, insieme ad Adriana Asti, maliziosa Becky Sharp, protagonista con Alberto Lionello di “Puccini”. Guarnieri ha avuto anch’essa il suo Dostoevskij, “Umiliati e offesi”, con Enrico Maria Salerno, anzi due, c’è pure “L’idiota” con Giorgio Albertazzi e Gian Maria Volontè, “David Copperfield”, e soprattutto “La cittadella”, con Alberto Lupo, insieme a “E le stelle stanno a guardare” – tra minatori e miniere del Galles ricreate in quel di Massa Marittima, là in Maremma. Del resto, la foresta tropicale de “L’isola del tesoro” (1959) era il più rassicurante bosco laziale, e la Siberia di “Resurrezione” (1965, con Lupo e Valeria Moriconi) fu resa evocatica accontentandosi dell’altopiano di Aremogna, a Roccaraso.

    Si andava pure in diretta, in quei primi anni di sceneggiati televisivi. Ogni puntata, come a teatro – senza registrazione. Ride, Ilaria Occhini: “Mi ricordo che stavo recitando ‘Graziella’ con Vallone, lui era già un attore molto famoso, fascinoso, affettuoso. Stavamo facendo una scena d’amore, quando una camera che ci doveva riprendere divenne cieca. Insomma, non vedeva più. Ma noi dovevamo lo stesso continuare ad andare avanti. Al buio, per intuito. Si sentiva solo la voce del regista che diceva: aria sulla Occhini! aria su Vallone! Oppure quando si recitava e intanto, dietro di noi, spostavano le pareti, le scenografie, così in pochi minuti, tra un abbraccio e l’altro, si passava dalla sala di un castello a una strada di Londra. Recitavamo allo stesso modo del teatro, lo studio era piccolissimo, non c’erano due ambienti, giravano le pareti mentre eravamo in primo piano…”. Ride, al ricordo, pure Anna Maria Guarnieri: “Da una bocca all’orecchio, la camera ci metteva venti minuti. Se una lacrima scendeva, quarantacinque minuti. Un incubo! Si andava in diretta, facendosela sotto. Poi, magari, dopo la programmazione del venerdì sera, era prevista la replica della domenica, e noi a ripetere in diretta la stessa identica puntata. Erano tempi diversi, rarefatti. Però era fantastico quel bianco e nero, anche il cinema in bianco e nero sembra più bello. Il colore appiattisce tutto, non c’è paragone”. Quegli sceneggiati, quei personaggi che finivano nelle poche case che già avevano il televisore direttamente dalle pagine di romanzoni ottocenteschi – o romanzoni novecenteschi: quelli di Cronin – magari fino ad allora ignorati, consacravano alla curiosità, alla popolarità, a curiose identificazioni. Per dire, Alberto Lupo, il buon dottor Manson, viene addirittura invitato a un congresso di medici veri. “Io sono un’irriconoscente, per molti versi – dice Guarnieri –. Gli sceneggiati davano molta popolarità, che a me pareva molta seccatura. Essere riconosciuti per strada era un incubo. Però poteva servire, per esempio, per aiutare mia sorella a trovare un posto all’asilo nido. Lei mandava me, io mi presentavo: buongiorno, sono quella che ha fatto ‘La cittadella’, potete trovarmi un posto all’asilo?”. Con più (ironico) piacere, Occhini rievoca quei momenti. “Mi ricordo una persona che, in via Condotti, dopo che avevo fatto ‘Jane Eyre’, mi si inginocchiò davanti. Quando andava in onda lo sceneggiato, prima dei film nei cinema facevano vedere la puntata di quella sera. Dicevano: stasera con l’Ilaria…”. Con qualche rimpianto, come sempre succede. “Bolchi mi chiese di fare il provino per Lucia dei suoi ‘Promessi sposi’. Io testarda rifiutai. Perché devo fare il provino? Vengo dall’accademia… Una presunzione idiota”. Sbuffa (con sorriso) Anna Maria Guarnieri: “Debbo riconoscerlo: sono un’ingrata. Quando mi sento ancora e sempre chiedere della ‘Cittadella’ e delle stelle che stanno a guardare, uffa! Sono andate troppo bene. Ancora adesso incontro carampane della mia età che mi dicono: avevo dieci anni, lottavo sempre con la mia mamma per vedere ‘La cittadella’ dopo ‘Carosello’, non volevo andare a dormire. Ma scusate, tutte dieci anni avevate? Però Alberto era veramente una persona carina, insieme eravamo due fifoni, due ipocondriaci. Ma nella ‘Cittadella’ ero troppo buona, troppo buona…”.

    A quegli anni, i primi anni Sessanta, risale il lungo amore tra Ilaria Occhini e Dudù La Capria – il giovane scrittore napoletano e quella che a lui appariva “la diva della nazione”, e di cui perdutamente s’innamorò. “L’incontro tra me e Ilaria era un fatto intimo, ma grazie agli sceneggiati finimmo in un turbinio di sguardi, anche in luoghi non molto frequentati. Su una spiaggia della Sardegna, davanti all’Asinara, non potevamo camminare, tutti volevano vedere Ilaria…”. Sono quasi cinquant’anni fa – più di cinquant’anni fa, e ancora Dudù ha lo sguardo fisso e stupito su quello schermo in bianco e nero: “La meravigliosa bellezza di Ilaria, mai nessuna in televisione bella come Ilaria…”. Ilaria: “Sì, ma intanto la gente un po’ pure si confondeva, ricordo un tassista che insisteva: lei è quella che ha fatto ‘La cittadella’! No, non sono io… Allora ha fatto ‘Una tragedia americana’!, replicava sicuro”. Insieme, Ilaria Occhini e Anna Maria Guarnieri, conservano un bel ricordo di quel Majano che tanti anni fa le portò in miniera e nei bassifondi di Pietroburgo. Ilaria: “Pensava sempre di fare cose importantissime. Era appassionato, bravo. Io venivo dall’accademia, ma mai ho avuto da ridacchiare su quello che diceva”. Anna Maria: “Ci ha resi tutti dei santini. Ma ci amava molto, ci proteggeva. Noi a volte sbuffavamo, irriconoscenti…”.

    Majano e Bolchi. E poi, ancora, si chiamavano Edmo Fenoglio, Daniele D’Anza, Vittorio Cottafavi, Franco Enriquez, Giacomo Vaccari – forse il più moderno di tutti, morto a soli 32 anni in un incidente stradale: aveva appena terminato il “Mastro don Gesualdo” con Enrico Maria Salerno e Lydia Alfonsi. E forse Mario Landi e i suoi “Maigret” con Gino Cervi – in fondo, anche Simenon è (era) già un classico. Loro, soprattutto, gli artefici di quella stagione. E ancora attori: come Paolo Stoppa, Rina Morelli, Franco Volpi, Nando Gazzolo, Renato Rascel, Turi Ferro, Alida Valli, Arnoldo Foà… Stagione di cui Ciampi dal Colle invocava il ritorno, ma che ogni ritorno ha in realtà reso più distante e irripetibile – e ne hanno rifatte, pure molte, di “Cittadelle” con medici generosi e “Promessi sposi” braccati da bravacci e Innominati e di Anna K. in lacrime sul bordo di un binario: tutto molto più veloce; tutto molto più asmatico, col respiro mozzato. Altra televisione, altri occhi, altre orecchie. “Il successo è tale da costringere le sale cinematografiche a posticipare l’orario dell’ultimo spettacolo” – annota “La storia della televisione italiana” di Grasso persino per sceneggiati come “Il caso Maurizius”, del pur non notissimo Jakob Wassermann: impossibile prevederlo adesso. Pure, si dribblava tra le parole che era vietato usare (“membro”, per esempio, fosse pure uno del Parlamento, meglio di no: un po’ come diceva a proposito della questione Mark Twain: “Odio ripetermi”), e le raccomandazioni di cui tener conto: “Le relazioni illegali debbono sempre essere configurate come anormali” (perfetta, quindi, la locomotiva sulla fedigrafa), “Le danze non debbono consentire nudità immodeste” (diventino settanta, i sette veli della Salomè). Al massimo, altro poteva sfuggire alla censura: come la citazione di Marcuse che, temerariamente, Tino Buazzelli aggiunse alla sceneggiatura del suo “Papà Goriot” (1970) – “di cui solo pochi spettatori si sono accorti”. Non si faceva molta sperimentazione, con gli sceneggiati – un po’ azzardò Ugo Gregoretti col “Circolo Pickwick” (1968), ma non era il caso e non erano mai popolari i risultati. Il regista ammise di aver messo giù una sceneggiatura “kamikaze”, volendo rompere con gli sceneggiati alla Majano; Achille Campanile fu feroce e sublime: “La Tv ha trasformato in teppisti i quattro pickwickiani. La scena si svolge nell’Empireo. All’aprirsi del sipario anime di scrittori e di poeti passeggiano gravemente coi piedi sulle nuvole e la testa tra le medesime. Su una nuvoletta appartata, Dickens, il capo tra le mani, singhiozza amaramente. Intorno a lui si stringono colleghi costernati, con facce di circostanza”. Così come avvertiva Bolchi, padre nobile dell’arte dello sceneggiato: “Io non sono d’accordo con quanti sostengono che un testo debba servire da pretesto, perché un regista possa poi ricreare una sua opera personale. Se ciascuno di noi ha qualcosa da dire, qualcosa che ‘urge’ dentro, non vedo perché debba usare violenza al lavoro di altri”.

    C’era un’inviolabilità, dello sceneggiato televisivo – ben recitato, un po’ pedante, popolare seppur non superficiale (rispetto a certe fiction di oggi, “Il mulino del Po”, pur con il suo ritmo rallentato “per riprodurre i ritmi arcaici del mondo contadino” – il solito Grasso – o “Il giudice e il suo boia” hanno la solennità di un’adunata dell’Accademia dei Lincei). E infatti, violato il suo codice, in tutt’altro si è trasformato. La fiction, appunto. Le serie – le moltissime italiane, le infinite americane. Il linguaggio mutato. Le facce che sono tutt’altro. Dicono molto, le facce dei protagonisti degli sceneggiati.

    Andrebbero studiate. “Eravamo molto giovani, ma non lo sembravamo”, spiega Anna Maria Guarnieri. Erano facce di un’altra epoca. Era giovane Alberto Lupo, per dire, quando faceva il medico impegnato. Ma sembrava molto più anziano. Erano facce molto italiane – di quell’Italia, di una per sempre perduta fisiognomica. Nelle fiction di adesso, il protagonista magari è quarantenne (abbondante), magari sta lottando da solo contro una schifosissima accolita mafiosa, ma ha sempre qualcosa di bambinesco, di incompiuto, di non finito. Perché così adesso sembrano le facce degli italiani: incompiute. Ma non fu la crudeltà o l’insensibilità o la sola ottusità dei burocrati Rai (anche se furono capaci di non farsi vedere ai funerali di Majano, uno che aveva forgiato i loro anni migliori) a decretare la morte degli sceneggiati. Fu la loro stessa vecchiaia. Si spensero, serenamente e tra un po’ di distrazione, come certe vecchie zie dimenticate, fiori e qualche opera di bene – magari dopo una tardiva e femminista “Madame Bovary” nel 1978 (era Carla Gravina), o il primo nudo maschile nel 1982 (“Delitto di stato”, dal romanzo di Maria Bellonci), quello di Sergio Fantoni: “Mi chiedo perché la gente si meravigli tanto vedendo un nudo e resti indifferente quando un personaggio, per esempio, uccide un altro uomo”. Ecco – un po’ tutto accadde anche perché la gente cominciò a non meravigliarsi più tanto. A chiedere di più. Spesso era una lingua molto bella, almeno accurata, quella degli sceneggiati – nonostante la ripulsa di Leonardo Sciascia, “per me la televisione è come scrivere un libro sull’acqua: il nulla, il vuoto: ho un rifiuto totale a vederla”, e il “vade retro” imperioso di Guido Ceronetti, “l’immagine televisiva non ha il valore della fotografia: è degradata a serva della parola parlata, del gergo e della spiegazione chiara”. Però non era più una lingua utile – né, si capisce, è detto che una lingua utile possa essere una bella lingua. Ma anche la televisione non era più, e da parecchio, il fanfaniano “focolare dei tempi moderni” ove, nientemeno, attruppare “babbi, mamme e figlioli, a discorrere delle cose d’Italia”.

    O forse i “tempi moderni” bruciavano così tanto da tracimare dal focolare di casa. C’erano i “Love boat” e i “Magnum P. I.” all’orizzonte, pallide stelle che annunciavano il mondo eretico e ardente e dannatamente più funzionale dei vampiretti seduttori, dei sopravvissuti di “Lost”, il fervore operativo di qualche squartatore sempre appostato nel campus – altro che il povero Darcy o i rancori dei “Buddenbrook” o le infelici “Sorelle Materassi” depredate dal nipote un po’ coglione. Oppure la raffinata struttura di serie come “Mad Men” e “Downton Abbey”. Non più lingua, linguaggi. Brevità. Rapidità. Da completare in fretta ogni cosa, per non lasciare ogni cosa incompiuta. O forse ogni cosa – conclusa o rimasta a metà che sia – persiste. “Nell’archivio permanente rimandato dalla Tv – assicura Carlo Freccero – la nostra giovinezza vive in eterno alimentando anche i miti delle generazioni successive. Per questo oggi manca quella benefica frattura che contraddistingueva il passaggio e lo scontro tra padri e figli. E’ tutto un unicum immobile”. Si è andati ovunque; si è rimasti sempre allo stesso posto. O si è finiti da dove si era partiti. Come l’Ulisse atteso da Irene Papas (sette puntate, 1968: ma per Achille Campanile “la poesia di Omero consisteva nel trasformare delle lavandaie in principesse. In queste riduzioni si fa il viaggio a ritroso: la poesia dei riduttori consiste nel trasformare delle principesse in lavandaie…”). Ritornati all’Itaca/Italia di partenza: la felicità del ritorno e l’inevitabile tedio dopo tanto vagare. Riapprodati insieme al “Conte di Montecristo” – anno 1966: ricchi (mica tanto) e spietati (speriamo non troppo). Pisù che altro solo molto annoiati. Forse. Anzi: di sicuro.