Provocazione o devozione? Perché Abe è andato al santuario Yasukuni

Giulia Pompili

L'agenda nazionalista di Shinzo Abe, da un anno esatto alla guida del governo di Tokyo, è ormai in pieno regime. “Japan is back”, diceva durante la campagna elettorale e non si trattava solo di una ripresa economica. Per Abe il Giappone deve tornare alla Tradizione. Lo dimostra la sua visita di ieri al santuario shintoista Yasukuni, nella capitale giapponese. Una visita improvvisa ma ufficiale, con tanto di stampa al seguito – l'ex premier e mentore di Abe, Junichiro Koizumi, insieme con Yasuhiro Nakasone (1985), fu l'unico primo ministro dal Dopoguerra in poi ad andare annualmente a rendere omaggio al santuario, ma specificava di farlo “da privato cittadino”.

    L’agenda nazionalista di Shinzo Abe, da un anno esatto alla guida del governo di Tokyo, è ormai in pieno regime. “Japan is back”, diceva durante la campagna elettorale e non si trattava solo di una ripresa economica. Per Abe il Giappone deve tornare alla Tradizione. Lo dimostra la sua visita di ieri al santuario shintoista Yasukuni, nella capitale giapponese. Una visita improvvisa ma ufficiale, con tanto di stampa al seguito – l’ex premier e mentore di Abe, Junichiro Koizumi, insieme con Yasuhiro Nakasone (1985), fu l’unico primo ministro dal Dopoguerra in poi ad andare annualmente a rendere omaggio al santuario, ma specificava di farlo “da privato cittadino”.

    Il problema con il santuario Yasukuni, costruito nel 1869 dall’imperatore Meji, è che nel libro delle anime, che contiene 2.466.532 nomi di militari e servitori dello stato caduti in guerra, sono segnati più di mille individui ritenuti dal tribunale della Seconda guerra mondiale “criminali di guerra”. Fra loro anche quattordici persone classificate come criminali di classe A, condannate per “crimini contro la pace”. Nel 1978, quando quei quattordici nomi furono aggiunti alla lista delle anime ricordate nel santuario, l’imperatore Hirohito decise di sospendere le visite ufficiali allo Yasukuni. Aveva visitato il santuario otto volte dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’ultima volta nel novembre 1975. Da allora ogni visita di membri del governo di Tokyo suscita le reazioni indignate dei paesi che hanno avuto a che fare con l’esercito giapponese. Abe sapeva che il suo tributo da uomo di stato in un luogo così controverso avrebbe incontrato l’opposizione di Cina e Corea del sud e il rimprovero di Washington. Ma lo ha fatto ugualmente. Ieri il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha convocato l’ambasciatore del Giappone in Cina, Masato Kitera. Pechino ha definito la visita di Abe al santuario “totalmente inaccettabile”, l’agenzia cinese Xinhua in un editoriale ha scritto che “il capo del governo di Tokyo sa perfettamente cosa sta facendo, la sua visita è una provocazione calcolata per alimentare le tensioni”. L’ambasciata americana a Tokyo ha fatto sapere: “Il Giappone è un alleato prezioso e amico. Tuttavia l’America non può che essere delusa dal fatto che il leader giapponese abbia compiuto un’azione che aggrava le tensioni con i vicini”. Il ministro della Cultura di Seul, Yoo Jin-ryong, ha definito la visita di Abe “un comportamento anacronistico che danneggia non solo i rapporti tra la Corea del sud e il Giappone, ma anche la stabilità e la cooperazione nell’Asia nordorientale”.

    Da tempo non si registrava un tale raffreddamento dei rapporti diplomatici tra i vicini del Pacifico, proprio per questo secondo gli osservatori alla provocazione cinese del mese scorso – quando Pechino ha esteso la sua zona di controllo aereo sulle isole contese con il Giappone – non si doveva rispondere con un’altra provocazione. Eppure nel tributo di Shinzo Abe allo Yasukuni un motivo religioso c’è, come lui stesso ha spiegato in una nota: “Purtroppo le visite allo Yasukuni sono diventate una questione politica e diplomatica. Alcuni le criticano perché potrebbero sembrare un omaggio ai criminali di guerra, ma lo scopo della mia visita, in occasione dell’anniversario della mia nomina a primo ministro, è quello di venire a riferire alle anime dei morti in guerra come la mia amministrazione ha lavorato durante questo anno e rinnovare l’impegno del Giappone a non intraprendere più una guerra”.

    Shinzo Abe aveva fatto visita al santuario Yasukuni già nel novembre del 2012, prima della sua elezione. Nell’aprile scorso aveva autorizzato alcuni membri del governo, senza andare lui stesso per motivi “diplomatici”, ma durante l’anno aveva eseguito delle “masakaki”, le offerte shintoiste. Abe è molto devoto, ed è legato al santuario per motivi anche famigliari. Come ricordava ieri il corrispondente da Tokyo della Bbc, Rupert Wingfield-Hayes, il nonno di Abe Nobusuke Kishi durante la Seconda guerra mondiale faceva parte del governo di Tokyo e dopo la resa del Giappone fu arrestato dagli americani. Imprigionato perché sospettato di essere criminale di guerra, fu poi rilasciato senza processo.

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.