Perché Tokyo e Londra svettano su un'Eurozona stagnante
Basta deflazione. Per la prima volta, dopo più di quattro anni la parola maledetta non figura nel rapporto mensile del governo sulla situazione economica del Giappone: l’indice dei prezzi segnala un rialzo dell’1,2 per cento su base annua, con grande soddisfazione del governatore della Banca centrale, Haruhiko Kuroda, che da quasi un anno inonda i mercati con un fiume di denaro (67 miliardi di dollari ogni mese) per scuotere l’economia del Sol levante.
Basta deflazione. Per la prima volta, dopo più di quattro anni la parola maledetta non figura nel rapporto mensile del governo sulla situazione economica del Giappone: l’indice dei prezzi segnala un rialzo dell’1,2 per cento su base annua, con grande soddisfazione del governatore della Banca centrale, Haruhiko Kuroda, che da quasi un anno inonda i mercati con un fiume di denaro (67 miliardi di dollari ogni mese) per scuotere l’economia del Sol levante. Recessione addio, annunciano invece i negozianti, grandi e piccoli, di Londra dopo un Natale più ricco del previsto: gli inglesi hanno speso l’1,7 per cento in più di un anno fa, nonostante i redditi siano cresciuti solo di uno striminzito 0,2 per cento. Roba da far rabbrividire la Bundesbank ma che a Threadneedle Street, sede della Bank of England, viene considerato di buon auspicio: è il segno che la fiducia nella ripresa si sta diffondendo, a mano a mano che scende la disoccupazione, ora al 7,4, entro la primavera al 7 per cento, poco più della metà del 12,5 che affligge l’Eurozona.
Certo, molte cose rendono diverse l’economia giapponese da quella di Sua Maestà. Ma entrambi i paesi, nel corso del 2013, hanno imboccato strade autonome per uscire dalla crisi generale, lasciandosi alle spalle l’austerità fiscale e cercando di abbinare una politica monetaria aggressiva a riforme strutturali. Con quali risultati? Meglio di quanto temuto (o sperato) dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che un anno fa aveva salutato la politica espansiva di Tokyo con un eloquente “auguro loro buona fortuna” e ieri ha nuovamente cassato qualsiasi “allentamento monetario arbitrario” da parte della Banca centrale europea, cioè a dire che gli stimoli monetari non possono durare all’infinito. In Giappone però la miscela composta da svalutazione (lo yen è ai minimi dal 2008) e incentivi monetari record ha attratto la bellezza di 142 miliardi di investimenti dall’estero, che hanno spinto al rialzo sia la Borsa sia i profitti dei grandi esportatori. Il prodotto interno lordo – da anni abituato a variazioni da prefisso telefonico – viaggia a un tasso di crescita del 3,4 per cento. A Natale, finalmente, sono tornati a crescere i consumi, comprese le composizioni gastronomiche, gli osechi, che possono arrivare anche a costare 2-3 mila euro. I risultati, insomma, non mancano, ma la partita dell’Abenomics è tutt’altro che vinta. Innanzitutto perché la crescita finora è stata drogata dall’espansione del debito, 287 miliardi di dollari di nuovi titoli per sostenere gli investimenti di origine statale. La riscossa dei conti pubblici, secondo gli strateghi di Tokyo, comincerà ad aprile, in coincidenza con l’aumento dell’Iva, che salirà dal 5 all’8 per cento. A fine anni Novanta una mossa del genere fece sprofondare l’economia. Stavolta, assicura il primo ministro Shinzo Abe, non andrà così. Avrà ragione se i colossi di Tokyo, che scoppiano di liquidità impiegata per lo più oltre confine, aumenteranno gli investimenti e i salari in patria, magari perché invogliati dal calo delle tasse societarie. Per ora ci sono solo pallidi segnali: per la prima volta, dopo 17 mesi, gli stipendi non sono scesi. Ma il fenomeno riguarda solo i grandi, e non le piccole e medie imprese che rappresentano i tre quarti dell’economia. I padroncini, che operano sul mercato interno, temono che il rialzo dell’Iva provochi una nuova flessione dei consumi. E stringono a loro volta i cordoni della borsa. Tocca ai ministri di Abe il compito, non facile, di convincere i giapponesi che il letargo è finito. A suo vantaggio giocano l’occupazione, ormai a un passo dal pieno impiego, e le riforme per aprire l’economia alla concorrenza (vedi importazione di riso e libero scambio con gli Stati Uniti) e alla governance (ieri è stata approvata una legge a tutela degli azionisti di minoranza). Ma anche la carta del nazionalismo che Abe ha giocato con la visita al tempio Yasukuni, memoriale dei caduti (e dei criminali) di guerra, compiuta non a caso nel giorno del primo compleanno del governo.
La ricetta british per imprese e (più) lavoro
A Londra, per fortuna, la strategia per la ripresa non presenta aspetti così bellicosi. Ma, pur di uscire dal tunnel dell’austerità, il governo Cameron e il governatore della Banca centrale Mark Carney non hanno esitato a battere strade inedite. Con qualche successo, visto che il governo ha potuto annunciare che, negli ultimi mesi, il pil è cresciuto più del previsto (più 1,9 per cento la stima per il 2013). E’ una magra consolazione, se si pensa che l’economia è ancora sotto del 2 per cento rispetto al 2007 e che ci vorranno ancora cinque anni perché la ricchezza pro capite reale torni ai livelli pre-crisi. Ma è un grande risultato rispetto a Eurolandia che, di questo passo, rischia di essere sorpassata alla grande dalla Gran Bretagna. Tra pochi mesi, poi, potrebbe avvenire il risparmio più gradito: per la prima volta, dopo sette anni, i salari cresceranno più dell’inflazione. Anche in questo caso, sottolineano i critici, il miracolo ha i suoi lati negativi. Il miniboom dell’economia è trainato dall’impennata del mercato immobiliare, a sua volta sostenuto da una legge “generosa”: chi compra una prima casa può limitarsi a versare un anticipo del 5 per cento per avere diritto a un bonus pubblico, sotto forma di prestito a tasso iperagevolato, del 20 per cento. Ma, al contrario, hanno deluso i tentativi di stimolare gli investimenti nel settore produttivo con incentivi al sistema bancario attraverso la formula del funding for lending seguita con grande attenzione dal presidente della Bce Mario Draghi. Non per questo il governo demorde. A febbraio, con la nuova sessione parlamentare, verranno introdotte nuove misure per aumentare la concorrenza tra le banche allo scopo di favorire le piccole e medie imprese. Tra queste l’obbligo per i grandi istituti di comunicare alle new bank (create su spinta del governo) o alle finanziarie la reale situazione delle imprese clienti “di modo da favorire una competizione leale e migliori condizioni”. Le differenze non mancano: il Giappone, che può contare su uno straordinario stock di risparmio delle famiglie, ha snobbato l’austerità. La Gran Bretagna, invece, ha sottoposto il settore pubblico a una drastica cura dimagrante prima di cambiar registro.
Ma c’è un tratto comune: sia Tokyo sia Londra hanno deciso nel 2013 di mettere una politica monetaria espansiva al servizio delle riforme strutturali, possibili solo dopo che si è rimesso in moto il volano della crescita. L’Europa, invece, ha scelto il percorso opposto.
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