Quelli che il monito

Stefano Di Michele

Paese del sole (pur con nevicate a bassa quota e alluvioni verso nord-ovest e maiali che rovistano tra i rifiuti della capitale), paese dei limoni in fiore – piuttosto paese dove è in fiore, ormai, il monito. Conosci tu il paese dove fioriscono i moniti? E’, il monito, ormai pratica nazionale, degno proponimento che come stemma nobiliare o corna da commedia dell’arte decora quasi sempre un titolo di giornale. Tutti ne hanno da fare, ognuno ne ha colpevolmente da ricevere.

    Paese del sole (pur con nevicate a bassa quota e alluvioni verso nord-ovest e maiali che rovistano tra i rifiuti della capitale), paese dei limoni in fiore – piuttosto paese dove è in fiore, ormai, il monito. Conosci tu il paese dove fioriscono i moniti? E’, il monito, ormai pratica nazionale, degno proponimento che come stemma nobiliare o corna da commedia dell’arte decora quasi sempre un titolo di giornale. Tutti ne hanno da fare, ognuno ne ha colpevolmente da ricevere. Paese di ammonitori, e dunque paese di ammoniti – e gira, il monito, si trastulla tra quotidiani e televisioni, tra contro-moniti e nuovi moniti e moniti che ci si passa di mano in mano: tieni conto di quello che ha detto quello… C’è il monito alto, elevato, verso il quale sempre mostrare un principio di capo chino e comunque l’orecchio sempre attento: monito presidenziale, monito papale, monito (ma solo a volte) intellettuale. C’è poi il monito di mezza tacca, più posizionato verso l’ammezzato che innalzato verso il solaio: il monito ministeriale, quello sottosegretariale, il monito giornalistico (che spesso nel parapiglia a quello intellettuale si mischia). Tutti al monito siamo soggetti, tutti dal monito siamo tentati: perfetti allenatori di calcio il lunedì mattina, accaniti monitori nel resto della settimana. Che è poi, a ben guardare, il monito cosa sottilmente diversa dal semplice ammonire – come soffio leggero di zucchero a velo che si posa, non crosta dura di zucchero caramellato – e quasi mai il monito stesso a opportuna ammonizione conduce. E’ la buona intenzione, la giusta indicazione, l’auspicata direzione: grida manzoniane, però senza gridare e senza Manzoni. E dunque spesso lo sguardo si fa opportunamente partecipe, mentre quasi impercettibilmente le spalle si sollevano a significare che il peso del monito stesso non è stato ricevuto, o che come fastidiosa forfora già a terra è precipitato. Ci si sente un po’ come Massimo Troisi in quel film dove incrocia il funereo Savonarola: “Ricordati che devi morire!”. “Come?”. “Ricordati che devi morire!”. “Va bene…”. “Ricordati che devi morire!”. “Sì, sì… mo’ me lo segno…”. I moniti si toccano, si inseguono, si confondono, simili alle acciughe che fanno il pallone cantate da De André. Per cui alla fine ogni combinazione pare possibile, ogni incrocio avverabile, ogni situazione concepibile: come quando si lanciano le monetine e si cerca un responso nei Ching. Tutto può sfiorarsi, persino la Costituzione e il bordo campo. Così, se per caso si ricercano le parole “Monito/Napolitano/Totti” – a dire del tentativo di inverosimile compiuto – ecco che spunta una pagina di Repubblica del maggio 2010, ove un “monito di Napolitano” risulta indirizzato al capitano della Roma dopo uno scontro, diciamo non proprio ispirato al fair play, tra lo stesso e Mario Balotelli (“Mi ha detto: negro di m…”). “E’ un atto inconsulto”, disse il capo dello stato. “Mai sono stato razzista, mai sarò razzista”, garantì il diretto interessato. Ma ecco che subito dopo si incrocia anche un’altra notizia: “Totti, monito alla Roma: si vince coi giocatori forti”. Ognuno il monito si prende, ognuno il monito dà.

    E’ certo – per statura sua, per gravoso impegno, per sensibilità istituzionale – il presidente Napolitano primario autore di moniti nazionali. Del resto, essendo a capo di scombinato paese con scombinati paesani, la pratica ha una sua indiscutibile giustificazione. Ora che la sera di Capodanno è alle porte, e prima di metter mano a zampone e lenticchie l’italico sguardo precederà l’italico stomaco verso lo studio presidenziale lassù al Quirinale, il momento del Monito Supremo si approssima – il monito di Capodanno che vale per tutto l’anno. Saranno giovani e lavoro, si capisce e già si intuisce, riforma elettorale e riforme costituzionali, crisi e buon senso, la saggezza presidenziale e gli scapocciati politici che fingono di prendere appunti (“mo’ me lo segno…”) per far finta il giorno dopo d’esser duri d’orecchio. E di sicuro con il settennato già passato, e con quello che verrà (in tutto, o in parte: come il presidente valuterà), è stato proprio Napolitano a elevare il monito a pratica quotidiana, a perenne intervento, a esortazione/invocazione/sollecitazione – dopo Tacito, nessuno è meglio di lui. Ora, è chiaro che il problema non sono i moniti, piuttosto gli ammoniti sciagurati: parole al vento, perle ai porci il più delle volte – ma lo stesso la pratica è tanto dilagata da farsi consuetudine, abitudine, paradigma. Nella solennità del Quirinale, nel bailamme di una strada tra scorte e pubblico plaudente, in occasione di un convegno, ecco – in quasi felicissima sovrapposizione con la caricatura (amorevole) che ne fa Maurizio Crozza in televisione: “Con viva e vibrante partecipazione…” – che il monito si appressa, prende forma, vola verso l’apertura dei tiggì. C’è sempre un monito, ché mai manca occasione di ammonimento. Sempre due tratti di parola almeno, non potendo disgraziatamente procedere talvolta con due tratti di corda verso gli inadatti. E’ nel suo ruolo stesso iscritto, il monito napolitaniano. E’ nella formazione stessa del presidente, forse. Magari, persino nel destino.

    Ché potrebbe proprio chiamarsi così, codesto destino presidenziale: Monitore Napolitano. Così si chiamava, e il presidente benissimo lo sa, il giornale fondato a Napoli (da lì il Napolitano, non da Giorgio) nel 1799 dopo la rivoluzione e diretto da Eleonora de Fonseca Pimentel, grandioso personaggio destinato a pendere dalla forca con il ritorno del re. Napolitano, che è napoletano, certo conosce il Monitore Napolitano – una delle poche raccolte sopravvissute dopo l’arrivo delle armate del cardinale Ruffo si trova proprio alla biblioteca “Benedetto Croce”, a Napoli. E fu ricco di moniti, il Monitore Napolitano – non meno, e non meno a ragione – del presidente Napolitano. “Siam liberi in fine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiamo pronunciare i sacri nomi di libertà, e di uguaglianza, ed annunciare alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; a’ popoli liberi d’Italia, e d’Europa, come loro degni confratelli…” (così nel primo numero, addì “2, Febbrajo, 1799”, pure “Sabato 14. Piovoso anno VII della Libertà; I della Repubblica”). Il caso. La coincidenza. La sorte. Monitore, dunque, si fece pure il Napolitano presidente, come lo fu il Napolitano giornale. A dire. A indicare. A esortare. Non che al Monitore Napolitano servì a granché – pochi mesi, e i reazionari tornarono; e chissà se al Napolitano Monitore di oggi, scongiurando scongiurando, andrà meglio. Ché la fatica si vede, con contorni meno definiti appaiono i risultati. Lo stesso, al Monito Supremo del 31 che verrà il presidente si prepara. Né può rinunciare, né vale la pena farlo – è il monito parente stretto, in colleganza di buone intenzioni e di fragili soluzioni, con la presidenziale “moral suasion”, che figurarsi. “A brigante, brigante e mezzo”, esortava il suo predecessore Pertini; mica è lo stesso: “A brigante, monito e mezzo”. Essendo di moniti generoso dispensatore, il presidente ha con il passare degli anni allargato la cerchia dei suoi antipatizzanti: chi per personale convinzione, chi per recente convenienza, chi semplicemente perché è come il biblico popolo: “di dura cervice”. Non ha che l’imbarazzo della scelta, Giorgio Napolitano. E giusto ieri l’ultimo suo monito ai partiti – anzi, come già appuntava il Corriere in presa diretta, “più che un monito è un vero e proprio avvertimento”: bisogna giocare da duri, se il gioco si fa duro.

    Certo tra i primi, al traguardo più che del suo cuore del suo fegato, si pone Beppe Grillo, che il monito presidenziale ha sulle palle, e verso il Quirinale ha un precedere tellurico da terremoto di Casamicciola (per restare nei pressi). Mentre già preannuncia, con botti e mortaretti, che è quello che verrà l’ultimo Monito Supremo di Napolitano, scongiurando scongiurando, da sempre l’uomo che ebbe caro Yomo, “con una faccia da yogurt magrooooo”, e adesso Casaleggio, con una faccia non meno smilza, ha puntato il dito e il vocione contro il monito presidenziale. “Giorgio, fammi un monito!”, commedia in un atto, si trovava nei mesi scorsi sul suo blog. Già anni fa (siamo nel 2007) ci dava sotto: “Il monito è una battaglia di civiltà, un appello per una convivenza civile. E’ come una folgore di Zeus che colpisce sempre gli stessi alberi e risparmia le discariche”. E quando il monito non arriva, come nel caso del ministro Cancellieri, il monito stesso Grillo invoca: “Nessun monito da parte di Napolitano per questo scandalo…”. Che poi, l’idea di buttare in scena (più esattamente: in berlina, a pernacchia, ad avanspettacolo) la tendenza napolitaniana al monito è venuta anche a Vauro – in forza a “Servizio pubblico” di Michele Santoro – che periodicamente alza il sipario su “il monito di Ninì Napolitano”. “Ninì ’o monito!”, urla il personaggio della vignetta, tale e quale il pubblico che nel film gridava “Ninì ’a mossa!” a Ninì Tirabusciò (interpretata da Monica Vitti), che la conturbante mossa appunto inventò. E sta il presidente, nella vignetta vauriana, tale e quale la Tirabusciò in scena, cosce all’aria e dondolio di bacino e mutanda in vista, a recitare “il monito della settimana” che verrà, poi premiato con una vignetta dello stesso Vauro. Di sicuro, tra i supremi antipatizzanti del Napolitano Monitore c’è il Fatto tutto, all’ammasso, e Marco Travaglio in dettaglio (a Napolitano ha dedicato per intero il suo ultimo manufatto letterario: “Viva il Re!”, edizioni Chiarelettere). Che a monito con articolessa sempre replica, a sussurro presidenziale trombe e campane della Suprema Indignazione fa risuonare. Tra le infinite e non poco travagliate azioni di guerriglia, oltre al cartesiano “Monito ergo sum”, c’è da registrare la recente sua invenzione del Monito Luogotenenziale, “sul modello dei regi decreti del luogotenente del regno Umberto di Savoia dopo l’abdicazione di re Vittorio Emanuele III parcheggiato a Salerno”: sarebbero, i ciarlieri luogotenenti per mandato presidenziale, a dar retta a Travaglio, il fior fiore dei quirinalisti (a partire dall’impeccabile Marzio Breda del Corriere), tramite “l’avallo esplicito del presidente, che concede al luogotenente di turno una frasetta innocua e banale da mettere tra virgolette, simile ai pensierini dei Baci Perugina, a cui il giornalista-medium appende intere colonne di piombo non virgolettate ma ‘ispirate’”. Insomma, l’ora del Monitore Trombettista e Banditore, a sentir Travaglio, in associazione con il Napolitano Monitore.

    Che figurarsi, monito per monito, quanti ne ha da fare allora Papa Francesco – che già fronteggiare un cardinale di curia deve essere un po’ più complicato che fare argine a Brunetta o a Renzi o al grillino di turno. Dalle donne agli immigrati, dalla chiesa ai preti stessi (lì vai col monito e con qualche più definitivo “Motu Proprio”), dai ricchi mai satolli per ingordigia ai poveri mai satolli per indigenza, dalle macchine di piccola cilindrata agli sfarzosi mantelli rossi, ai forconi e ai banchieri, il monito papale Urbi et Orbi si è dilatato con gesuita accuratezza, pugno fermo e cuore commosso. Siccome Francesco gioca d’attacco, più di ogni suo predecessore al monito (e ai fatti, comunque: è sovrano, lui, mica presidente) fa ricorso. Ma lo stesso, appena poco più di un anno fa, Benedetto XVI, a leggere i giornali, rivolgeva “il monito ai politici: dovete farvi amare” (una parola, neanche un ciclo completo di novene basterebbero), e Paolo VI scrivendo al cardinale Pellegrino per l’esposizione a Torino della Sindone, “prezioso cimelio”, nel 1973, sull’immagine di Cristo esortava a fissarsi, “e risuonerà nei nostri cuori il monito evangelico della sua voce”. Moniti da Giovanni Paolo II – non era forse un monito, quello ai mafiosi sul giudizio di Dio che un giorno verrà? – e certo da Giovanni XXIII – quel monito indimenticabile a guardarsi dai “profeti di sventura” che azzannano la vita della gente. Per non essere da meno, anche i prelati hanno giustamente il loro monito da fare. “Un grande monito per il mondo della politica”, commentò così il cardinale Bagnasco l’aggressione ai carabinieri davanti a Palazzo Chigi qualche mese fa. E risulta alle cronache un “monito di Forte: politici, non dite bugie” – ed è Bruno Forte lo stimato arcivescovo di Chieti-Vasto, e il monito suo ha certo fondamento e non meno certa mancata applicazione (pure qui, assisterebbe meglio qualche novena partecipata).

    Ma questo per dire che una stessa parola può indicare infinite cose – e sempre variare di senso e misura. Certo sui moniti, per continuare l’esposizione, non si risparmia Laura Boldrini, presidente della Camera, che anzi con non sempre felice azzardo al monito ricorre. Le cronache ne sono piene. Dalla visita del Papa a Lampedusa, “un monito contro le campagne ideologiche che disgregano la coesione sociale”, alla scomparsa della rimpianta Franca Rame, “sua storia monito contro violenza su donne” (Asca), dalla tragedia di Marcinelle, “il monito della Boldrini” (il Centro) ai forconi in piazza, “monito Boldrini” (Parlamentonews), dal triste caso di un operaio di Taranto, “il suo gesto è un monito disperato per tutti noi che, partendo dalla Sicilia, vorremmo contribuire a cambiare questo paese” (Huffington Post), dall’occupazione giovanile, “è il monito lanciato dalla presidente della Camera” (il Mondo), ai disgustosi insulti al ministro Kyenge, “un messaggio che suona come un monito, quello di Laura Boldrini” (Repubblica.it)… Né sul monito si fa sparagnino il presidente del Senato, Pietro Grasso. Né ogni sorta di politico, da Renzi a Lupi ad Alfano a Letta (nipote, lo zio casomai praticava più il monito privato), da Bersani a Prodi (e contrario: “Il monito di Prodi a Bersani”, intervista a Repubblica) più in là, persino nei giorni che furono e ora svaniti all’orizzonte sono, il monito si affacciava pur senza debordare come adesso. Tipo: “Fanfani: il sondaggio di Repubblica è un monito contro l’astensione”, “Il monito di Forlani: l’alleanza con Craxi per la Dc è decisiva”, “Il monito di Craxi a De Mita: niente leggi senza di noi”. Lancia moniti il governatore della Banca d’Italia: “Monito di Visco, sulla ripresa pesa l’instabilità politica” (RaiNews24), lanciano moniti i sindacati di polizia davanti alle immagini degli agenti che si tolgono il casco in piazza, “speriamo che questo segnale sia da monito ai palazzi del potere, alle caste, al governo, ma anche a tutti i violenti e i professionisti del disordine” (comunicato Siulp). Lancia moniti l’Economist per conto dei moniti di Monti: “La ‘minaccia’ di Monti è un monito al governo”. Lanciano moniti di solito gli economisti (che ormai vanno a coppia, come i carabinieri di pattuglia: sarà per farsi coraggio?). Chi non ha un monito suo, si attacca al monito che gli pare più opportuno. “Cuperlo: facciamo nostro il monito di Napolitano, per ridare speranza al Paese”. E altri che lo stesso un monito loro non hanno, a passati moniti prestigiosi idealmente si associano: fossero di Pasolini, o quelli, sempre messi di mezzo a sinistra, di una figura mito come Berlinguer, da “politica e questione morale: il grande monito di Enrico Berlinguer” a “Berlinguer, attualissimo e profetico il suo monito sulla questione morale”. E magari lo stesso Cav., che del monito non abusa, e casomai di suo avverte e potendo dispone, ogni tanto si fa pure lui luogotenenziale: fosse col falco oggi, fosse con la colomba domani.
    Quasi sempre cronaca – è, il monito, spesso fiocco che addobba risapute banalità – a volte storia. “Un monito”, così si intitolava un articolo di Antonio Gramsci sull’Ordine Nuovo del 15 gennaio 1921, sul congresso socialista di Livorno, “noi vogliamo porre – e ci pare realmente ora, che la coincidenza sia fatidica – l’origine del Partito comunista italiano”. Oggettivamente, lì qualcosa dopo quel monito successe. O tenersi a quello (più poetico, profondo certo, pratico chissà) richiamato da Lee Masters nella sua “Antologia”, sulla lapide di Mrs. Meyers, peraltro per crepacuore spirata e condotta a Spoon River: “Passanti, ecco un antico monito: / se volete che la vostra sia la via della concordia, / e vostri i sentieri della pace, / amate Dio e osservate i suoi comandamenti”. Ma monito per monito – e sempre scongiurando scongiurando – questo forse, per questa pagina, è un po’ eccessivo.