I raider son tornati
Voleva mettere in scena un mostro e ha ricreato un mito: a Martin Scorsese è successo esattamente quel che era capitato venticinque anni prima a Oliver Stone. Un film di denuncia contro le malefatte di finanzieri d'assalto, squali, locuste, volponi, che s'avventano sui risparmi della povera gente, illudono gli allocchi e poi divorano le loro prede, s'è trasformato nella rappresentazione un po' grottesca di eroi popolari, icone generazionali, modelli per giovani alla ricerca dell'eterno trinomio: soldi, sesso e successo.
“Entrate nella Borsa di Londra, questo luogo più rispettabile di tante Corti… Là il giudeo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della medesima religione, e non danno l’appellativo di infedeli se non a coloro che fanno bancarotta; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero” (Voltaire)
Voleva mettere in scena un mostro e ha ricreato un mito: a Martin Scorsese è successo esattamente quel che era capitato venticinque anni prima a Oliver Stone. Un film di denuncia contro le malefatte di finanzieri d’assalto, squali, locuste, volponi, che s’avventano sui risparmi della povera gente, illudono gli allocchi e poi divorano le loro prede, s’è trasformato nella rappresentazione un po’ grottesca di eroi popolari, icone generazionali, modelli per giovani alla ricerca dell’eterno trinomio: soldi, sesso e successo. Più il bestiario del denaro s’arricchisce di loschi figuri, più si produce l’eterogenesi dei fini. All’anteprima del “Lupo di Wall Street”, ispirato alla vera storia di Jordan Belfort, gli spettatori esultavano a ogni malefatta. Il protagonista, impersonato da Leonardo DiCaprio, tirava di coca, faceva l’amore su un materasso di dollari, s’arricchiva con il meccanismo del pump and dump che consiste nel gonfiare con false notizie il valore delle azioni, per poi venderle e incassare la differenza, lasciando con il cerino in mano i creduloni; insomma Leo-Jordan scendeva rapido e ineluttabile lungo la scala dell’etica borghese, e gli spettatori applaudivano entusiasti, a ogni scalino dell’abiezione un orgasmo collettivo.
Oliver Stone, più engagé e più a sinistra di Scorsese, aveva avuto la sua porzione di eterogenesi dei fini con il Gordon Gekko interpretato da Michael Douglas, un mito per i ragazzotti rampanti allora chiamati yuppies. “L’avidità è buona, l’avidità è giusta”, proclamava Douglas-Gekko e giù ovazioni da stadio. Era il 1987, di lì a pochi mesi sarebbe arrivato un brusco crollo azionario: durò pochi mesi, poi tutto ricominciò come prima. E quel furbastro di Tom Wolfe? Non è diventato un bestseller “Il falò delle vanità”, trasformato anch’esso in un film di successo (il giovane Tom Hanks nelle parti di Sherman McCoy, il Signore dell’Universo)? E’ vero, i cattivi sono sempre più affascinanti dei buoni. La commedia umana mostra sempre lo spettacolo dei vizi, come meglio di ogni altro ha dimostrato Honoré (de) Balzac. E la finanza è l’attività economica più vicina alla natura umana, ai suoi difetti, alle sue manifestazioni, compresa la più alta di tutte che si chiama libertà di scegliere.
Robert J. Shiller, premio Nobel per l’Economia 2013, nel suo elogio critico del capitalismo finanziario (“La Finanza e la società giusta”, il Mulino, 2012) spiega come esso produce l’architettura che consente di raggiungere le mete dell’umanità. Finanza, del resto, viene dal latino finis, che denomina l’obiettivo. Ecco perché dopo la grande crisi, dopo gli eroici furori contro i sacerdoti di Mammona, mentre le vetrine delle librerie sono invase da operette morali sui banchieri, storie del nuovo banditismo globale scritte da ex bocconiani à la page o da ex olivettiani che tessevano gli elogi di Agnelli, con tutto quel che abbiamo passato e tutto quel che ci hanno raccontato, c’è ancora chi s’identifica nel perfido raider, colui che trasforma in bene, per se stesso e per gli altri, il male assoluto che c’è in ciascuno di noi.
Nella periferica Italia, dentro la borsetta di Piazza Affari, fioca ombra di Wall Street o della City, si sono levate grandi lodi al successo di Moncler, alla battaglia di Marco Fossati in Telecom, alla resurrezione dei Bonomi, ai fondi di investimento che raccolgono marchi storici caduti nella polvere, o riportano in vita aziende che tutti giudicavano spacciate per sempre. E nel giro del private equity (l’attività con la quale un veicolo finanziario acquisisce il controllo di una impresa) si è infilato anche lo stato attraverso il fondo strategico della Cassa depositi e prestiti.
La finanza è tornata, ha ripreso il posto che le spetta nel ciclo evolutivo, ultima incarnazione del Proteo-capitalismo. Con essa sono usciti dalle quinte i moderni re Mida e non è detto che sia un male. Jordan Belfort era un imbroglione ed è stato condannato per frode; è un Bernard Madoff per come ha trattato da allocchi i suoi clienti, un Michael Milken, il re dei junk bonds, per come ha saputo manipolare la borsa. Ma non si può mettere tutti nello stesso scatolone. I gattopardi della Borsa (non le iene né gli sciacalli) servono a smuovere le acque, rimescolare la vecchia zuppa, rompere incrostazioni di potere, scongelare aziende ibernate da gruppi dirigenti che pensano solo a proteggere il proprio potere. Anche le classiche operazioni “spezzatino”, troppo spesso demonizzate, sono nella maggior parte casi salutari. Le conglomerate mammut nascondono nella loro burocratica routine dei veri gioielli, imprese che fatte correre da sole mettono meglio a frutto le loro potenzialità e creano ricchezza. Non c’è nulla di più pernicioso che certi moralismi intrisi d’ipocrisia. Dietro quell’accoglienza anche da parte dei giornali italiani, si nasconde dunque un grande ritorno.
Moncler, la società francese di giubbottini impiumati, riportata a nuova vita da Remo Ruffini, al suo debutto in Borsa è stata quotata 3,7 miliardi di euro invece dei 2,55 calcolati all’inizio della quotazione. Nel 2012 ha fatturato 489 milioni e, lavorando un po’ in Italia, un po’ in Francia, un po’ in Romania, ha ricavato profitti per 82 milioni. Dunque, tra valore finanziario e produttivo c’è una differenza superiore anche a quella altissima del settore moda e lusso. E’ vero che la ricchezza rimasta sotto il materasso per cinque lunghi anni ha bisogno di rimettersi in circolo, però, un boom così non se l’aspettava nessuno, forse nemmeno Ruffini che d’improvviso è diventato miliardario (la sua quota pari a poco meno di un terzo circa delle azioni vale 1,2 miliardi di euro). “L’Italia impari da noi a creare valore”, ha proclamato rivolto a Matteo Renzi che nel suo discorso d’investitura da segretario del Pd aveva citato il caso Moncler.
Di valore ne hanno estratto parecchio i finanzieri i quali per fare il botto hanno messo le polveri e la miccia, a cominciare dal fondo Carlyle guidato in Italia da Marco De Benedetti che fino a due settimane fa era il socio più rilevante, insieme al francese Eurazeo che nasconde sotto questa sigla quella parte del blasone di Lazard che non è finito agli americani, guidato da Bruno Roger e Michel David-Weill. De Benedetti è figlio di Carlo, l’Ingegnere, l’uomo dal braccio d’oro al quale tutti correvano a portare i propri risparmi prima che li bruciasse nel 1988 con lo sfortunato assalto alla belga Sgb. Carlyle aveva acquistato nel 2008 il 45,8 per cento di Moncler per meno di 200 milioni. Tre anni dopo Eurazeo aveva speso 418 milioni per comprare il 45 per cento. Con l’Ipo (l’offerta pubblica iniziale) ne ha recuperati trecento.
Per gli investitori istituzionali la domanda è stata 30 volte superiore. Hanno fatto la fila da Bernard Arnault (LVMH) a Amancio Ortega (Zara) e Ferragamo. Anche l’operazione Moncler è avvenuta non senza qualche escamotage da turbofinanza. Tutto nasce nel 2003, quando Ruffini, comasco classe 1961, figlio d’arte (il padre Gianfranco imprenditore della moda a Como, era sfuggito agli anni Settanta rifugiandosi negli Stati Uniti) dopo aver ceduto New England (azienda da lui creata nel 1984) al gruppo Stefanel, acquista il 51 per cento del marchio da Fin.Part, “ereditato” rilevando il gruppo veneto Pepper Industries, cui facevano capo anche Marina Yachting e Henry Cotton’s. Fin.Part fallisce e Ruffini viene aiutato dalla Mittel di Romain Zaleski e Giovanni Bazoli.
Memore della norma secondo la quale le parti valgono più del tutto, il 31 ottobre, poche settimane prima della quotazione, escono da Moncler gli altri marchi, collocati nella Sportswear Industries. A questo punto si spalanca un labirinto di sigle, uomini e luoghi. Socio di maggioranza di Sportswear è la Isc (già Cavaliere Brands), dove si trova anche la Mcs Italia controllata a sua volta dalla lussemburghese Red & Black Lux della quale sono azionisti rilevanti i Marzotto insieme al fondo Permira, lo stesso che ha venduto all’emiro del Qatar il marchio Valentino e possiede Marlboro Country e Hugo Boss. Risalendo per li rami s’arriva a Emerisque Cavaliere Ltd. di Jersey, l’isola della Manica che è un paradiso fiscale. Gli azionisti di Moncler hanno il 30 per cento della nuova scatola finanziaria. E’ scritto nel prospetto che accompagna la quotazione, a pag. 29: chi investe deve leggerlo fino in fondo e con grande attenzione. Tutto trasparente, questa è la regola.
Trasparenza è quel che Marco Fossati ha chiesto anche a Telecom Italia. Qui siamo in ben altre dimensioni, siamo nel Gotha della finanza e dell’industria, abbiamo davanti Telefónica il cui patron è César Alierta dominus più che manager, finanziere per formazione, figlio dell’ex presidente del Real Zaragoza, fratello di un ex senatore del Partido Popular, insomma ben piazzato nello snodo tra denaro e politica. Insieme a lui le Assicurazioni Generali, Mediobanca, Banca Intesa, insomma l’intreccio che forma la haute finance all’italiana. Fossati sostiene che sono in realtà delle forze oscure le quali hanno collaborato a intorbidire le acque. E Franco Bernabè, ex top manager di Telecom Italia con il quale Fossati non andava d’accordo, ha raccontato la sua verità ai magistrati romani. E’ una lotta di potere di grande portata nella quale entra la magistratura, comme d’habitude. I soci forti di Telecom a loro volta considerano il socio turbolento poco più che un raider. La grande stampa si divide secondo la dialettica dell’amico-nemico alla Carl Schmitt: il Corriere della Sera sta con i suoi azionisti Mediobanca-Intesa-Generali; la Repubblica contro. I giornali, a cominciare dal Fatto, che ogni giorno sparano contro lo strapotere della finanza, tifano per il finanziere.
Fossati, in realtà, viene da una tradizione manifatturiera. Il nonno, Regolo, aveva fondato una piccola azienda alimentare, la Star (perché la moglie si chiamava Stella), sì proprio quella del “doppio brodo”. Finito il boom viene salvata dallo stato. Quando nel 1985 la Iri-Sme viene privatizzata, la ditta torna nella finanziaria dei Fossati guidata da Danilo, il padre di Marco. Quattro anni dopo, la metà finisce alla Danone di Antoine Riboud allora nell’orbita della Ifil di Umberto Agnelli e Gabriele Galateri di Genola. Danilo si spegne nel 1995, i figli si riprendono l’intera società, poi la vendono agli spagnoli di Gallina Blanca. Gli eredi si trovano, così, un patrimonio di circa due miliardi. Intanto nel 2001 muore Luca e gli affari di famiglia finiscono nelle mani del quartogenito Marco che per un po’ gioca al ricco ereditiere pronto a fare di tutto un po’. Quando nel 2007 la Telecom passa da Marco Tronchetti Provera a Telefónica più le banche, Fossati decide di buttarci buona parte del patrimonio, ben un miliardo e duecento milioni. Diventa il primo investitore fuori dal patto Telco. In realtà, scommette su una fusione italo-spagnola e cerca di favorirla esponendo il progetto a Silvio Berlusconi. Invece, tutto resta ibernato nella gestione Bernabè e Fossati capisce presto di essere finito in un cul de sac. Il titolo crolla sotto i colpi della crisi, l’erede Star perde metà del capitale investito. Una catastrofe. L’unica speranza è che si sciolga il sindacato Telco così da creare un nocciolo di azionisti privati nei quali Marco potrebbe giocare il proprio ruolo.
Dopo le vacanze estive spira aria di battaglia che, come si sa, in Borsa porta sempre bene. Finché c’è guerra c’è speranza. Ma il 23 settembre Alberto Nagel in un incontro a Mediobanca getta acqua sul fuoco: c’è un accordo privato che consente a Telefónica di prendersi la scatola finanziaria liquidando i soci bancari. Le salmerie seguiranno. Fossati cerca di cavalcare gli azionisti di minoranza che si sentono presi per i fondelli. Spera che la riforma dell’Opa proposta al Senato da Massimo Mucchetti per il Pd, ma firmata anche dalla destra, costringa Alierta a lanciare un’offerta pubblica di acquisto, facendo risalire il titolo e spalmando un po’ di burro per tutti. Ha sottovalutato la forza del capitalismo di relazione. “No pasarán”, dice Enrico Letta ad Alierta: la riforma Mucchetti in ogni caso non vale per Telecom. All’assemblea straordinaria voluta da Fossati i ribelli ottengono un grosso risultato, ma non passano. I lupi, che agiscono in branco, in Italia non sono gli stessi che a Wall Street.
Lo ha capito anche Andrea Bonomi, il quale ha ridato lustro alla famiglia grazie al private equity, ma ha visto cadere i suoi sogni a causa degli scontri interni e dell’arrivo del cavaliere “nero” Raffaele Mincione, finanziere italianissimo, ma operativo in Inghilterra (secondo azionista di Bpm con il 7 per cento). La nonna di Bonomi, Anna detta Lady Finanza, è ancor oggi l’unica donna ad aver sfondato a Piazza Affari. Figlia di un immobiliarista e di una portinaia, diventa la regina della Borsa di Milano, fa costruire il Pirellone, crea Postalmarket, si mette in portafoglio Miralanza, Rimmel, Durban’s, Brioschi, s’infila nel Banco Ambrosiano di Guido Calvi e nella P2 di Licio Gelli, finisce in tribunale, patteggia, infine muore nel 2003 a 92 anni. La sua cassaforte, la Bi-Invest, viene scalata nel 1985 dalla Montedison socialista attraverso Francesco Micheli, il principe dei raider milanesi, musicologo, amico emerito della Scala. I Bonomi emigrano. Il nipote Andrea si fa le ossa all’estero prima di tornare con l’aria del gran vendicatore. Interviene a raffica nelle più diverse società, da Coin alla Ducati, da Atkinson alla Aston Martin: compra, valorizza, realizza, come dicono in Borsa. Finché non trova la Banca Popolare di Milano, ricchissima cooperativa del mondo cattolico che non ha trovato pace da quando nel 2008 è stato estromesso Roberto Mazzotta. E’ il salto di qualità. Niente più raid. Fermo, seduto nel cuore della Milano con i danee. Tanto che entra persino nel consiglio del Corriere della Sera.
Ma galeotta fu la banca e la sua corte di piccole e grandi rivalità tra i soci, i dipendenti, i falchi e gli avvoltoi, con la Banca d’Italia che, stufa di quel pericoloso pollaio, spinge la Bpm a diventare una società per azioni come le altre. Bonomi è osteggiato dai sindacati i quali, insieme ad associazioni di categoria come Coldiretti e Confartigianato, il 21 dicembre scelgono Piero Giarda. Sconfitto, Bonomi vanta comunque di aver scosso la pianta considerata da molti, troppi, un albero della cuccagna. Le mele marce sono cadute, i frutti buoni verranno. In fondo non è questa la funzione di un raider? Di fronte alla mortuaria stabilità dei poteri costituiti, viva il soffio destabilizzatore.
La periodica condanna della finanziarizzazione non è che il breviario dei luoghi comuni. L’economia moderna è monetaria, quella futura sarà sempre più finanziaria. Ha ragione Voltaire: meglio la Borsa che la corte, basta non credere a maghi e incantatori. La finanza è uno strumento anche per la società buona nel senso di equa e democratica, come sostiene Shiller. Per questo può e deve essere riformata, all’insegna di una informazione aperta, corretta, simmetrica: “La storia dello sviluppo economico – scrive il premio Nobel – è una storia di molti aggiustamenti tecnici del nostro sistema finanziario, di innovazioni ispirate alle teoria della finanza, ma anche basate sulla realistica considerazione della condizione umana”. E il legno storto dell’umanità possiamo piegarlo e aggiustarlo, ma (per fortuna) non si farà mai raddrizzare del tutto.
Il Foglio sportivo - in corpore sano