Olimpiadi del terrore

L'antiterrorismo russo deve fare i conti con una coperta troppo corta

Daniele Raineri

Ieri a Volgograd è arrivato Alexander Bortnikov, direttore dei servizi segreti federali russi con fama di duro. Fa parte del pacchetto d’emergenza spedito dal presidente Vladimir Putin, che non ha fatto dichiarazioni ma ha mandato lui e quattromila agenti di sicurezza a unirsi alla polizia locale, alle pattuglie di cittadini volontari e anche a duecento cosacchi già impegnati in città per evitare un terzo attentato di fila.

    Ieri a Volgograd è arrivato Alexander Bortnikov, direttore dei servizi segreti federali russi con fama di duro. Fa parte del pacchetto d’emergenza spedito dal presidente Vladimir Putin, che non ha fatto dichiarazioni ma ha mandato lui e quattromila agenti di sicurezza a unirsi alla polizia locale, alle pattuglie di cittadini volontari e anche a duecento cosacchi già impegnati in città per evitare un terzo attentato di fila. Ieri all’alba un attentatore suicida si è fatto esplodere su un filobus uccidendo 14 persone, dopo che domenica a mezzogiorno un altro attentato suicida aveva ucciso 17 persone al controllo bagagli della stazione ferroviaria.

    Le agenzie di sicurezza di Putin stanno facendo i conti con l’effetto “coperta troppo corta” a causa della massima protezione stesa sulla città di Sochi in vista delle Olimpiadi invernali che si terranno fra sei settimane. Se Sochi è superprotetta, allora qualche altro posto deve essere lasciato sguarnito, ed è quello che è successo a Volgograd, la città più grande e popolosa nel distretto federale meridionale e per questo un possibile obiettivo. Il mese scorso era saltato in aria un altro autobus, ma ieri su Euronews un funzionario di polizia locale diceva che di recente seicento agenti sono stati tolti dalla città per essere mandati a sorvegliare i Giochi.

    Mark Galeotti è un inglese esperto di minacce alla sicurezza in Russia e sostiene che il terrorismo islamista in Russia – che è il sospetto numero uno – sia disorganizzato e sparso e che sia falsa la pretesa di un’avvenuta unificazione sotto l’Imarat Kavkaz, l’Emirato del Caucaso comandato da Doku Umarov. “E’ essenzialmente una fiction, non c’è un comando centrale, sono tante jamaat (in arabo: gruppi) che decidono in autonomia”. Un evento mondiale come quello di Sochi però potrebbe aver dato un impulso simultaneo a tutte le fazioni a sincronizzarsi verso un traguardo scintillante: colpire quando l’attenzione internazionale è al massimo livello. Sospetta che non ci sarà un aumento totale degli attacchi – abbastanza frequenti nel Caucaso – ma che si sposteranno tutti nel cono di luce acceso dalle Olimpiadi e quindi varranno di più. Venerdì un’autobomba a Pyatigorsk ha ucciso tre poliziotti e un altro è morto ieri a un checkpoint nel Dagestan quando ha provato a fermare una macchina sospetta, ma non hanno fatto notizia. Qualche contatto comune e sotterraneo tra i gruppi c’è comunque, considerato che domenica i jihadisti ceceni in Siria hanno annunciato in anticipo la notizia del primo attentato.
    Galeotti solleva un secondo punto interessante. Per ora questo tipo di attacchi ha un impatto debole sui russi, che si sono abituati a considerare gli attentati islamisti come uno tra i tanti fattori di rischio della vita moderna. “Considerato che il terrorismo – come la guerra – è una campagna politica per piegare la controparte al proprio volere, se i terroristi non riescono a fare qualcosa di quantitativamente o qualitativamente differente dal solito allora è difficile che la loro violenza abbia un qualche effetto significativo”.

    A settecento chilometri, Sochi vive ormai nella sua bolla di sicurezza putiniana. Le auto con targhe non locali non possono più circolare nelle strade e tutti gli spettatori dei Giochi sono costretti a una procedura online preventiva: assieme al biglietto, devono dare i dati sul proprio passaporto per farsi rilasciare un pass speciale che dovranno mostrare quando saranno in città senza mai lasciarlo. In questo modo le autorità russe possono fare una scrematura preventiva su chi può arrivare e chi no.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)