Contagio fatale

Così in Libano alleati e nemici del siriano Assad dialogano a colpi di bombe

Carlo Panella

La crisi siriana sta debordando in maniera sempre più pericolosa e sanguinosa verso il Libano. Gli attentati con autobomba che si susseguono a Beirut segnalano l’incancrenirsi del contagio e rappresentano ormai l’unica forma di “dialogo” tra il fronte filo Assad e quello antisiriano. Ieri una autobomba è esplosa nel quartiere meridionale della capitale libanese, egemonizzato da Hezbollah, sventrando gli edifici della stretta strada in cui è stata fatta esplodere, uccidendo cinque passanti e ferendone alcune decine.

    La crisi siriana sta debordando in maniera sempre più pericolosa e sanguinosa verso il Libano. Gli attentati con autobomba che si susseguono a Beirut segnalano l’incancrenirsi del contagio e rappresentano ormai l’unica forma di “dialogo” tra il fronte filo Assad e quello antisiriano. Ieri una autobomba è esplosa nel quartiere meridionale della capitale libanese, egemonizzato da Hezbollah, sventrando gli edifici della stretta strada in cui è stata fatta esplodere, uccidendo cinque passanti e ferendone alcune decine. E’ stata la evidente – e prevedibile – “risposta politica” all’attentato che il 27 dicembre, nel centro di Beirut, ha ucciso assieme ad altre cinque persone Mohamad Chatah, ex ministro delle Finanze e fiduciario in Libano di Saad Hariri.

    Attentato che il leader della coalizione antisiriana “14 marzo”, così come l’ex premier e suo alleato Fouad Siniora, hanno subito addebitato a Hezbollah. L’attentato contro Chatah, a sua volta, è stato la “risposta” all’attacco esplosivo che il 23 novembre scorso aveva colpito l’ambasciata iraniana a Beirut, provocando 23 morti e un centinaio di feriti. Uno sfregio diretto contro gli ayatollah di Teheran, padrini sia di Hezbollah sia di Bashar el Assad. Il tutto, in un paese che da nove mesi è privo di governo e alla vigilia di un processo penale istituito dall’Onu che sarà causa di ulteriori lacerazioni. Dopo le dimissioni nella primavera scorsa del premier Najib Mikati non è stato possibile ricostituire quel governo delle “larghe intese” che reggeva dal 2008, per la semplice ragione che Saad Hariri (esule a Parigi, per il giustificato timore di attentati) e il suo Fronte 14 marzo hanno sempre posto come precondizione a una rinnovata coalizione il ritiro delle migliaia di miliziani di Hezbollah che combattono in Siria. Condizione che Hezbollah ha sempre rifiutato, anche perché senza l’apporto determinante dei suoi uomini armati, affiancati da migliaia di pasdaran iraniani, tutti sotto il comando del generale Qassem Suleimani, Assad vedrebbe immediatamente capovolgersi a suo danno le sorti del conflitto.

    Soltanto grazie a queste “Brigate internazionali sciite”, infatti, il regime baathista siriano è riuscito a invertire le sorti della guerra civile in corso da tre anni, a partire dalla riconquista di al Qusayr, nel luglio scorso. Proprio da lì passano ora tutti i rifornimenti logistici e i combattenti di Hezbollah che provengono dal Libano. Ma oltre all’evidente sprofondare del Libano nelle dinamiche della crisi siriana, la causa ulteriore degli attentati di Beirut è il processo che si aprirà il 13 gennaio contro cinque dirigenti di Hezbollah accusati di essere mandanti ed esecutori dell’attentato che il 14 febbraio 2005 uccise a Beirut Rafiq Hariri, ex premier libanese antisiriano e padre di Saad Hariri. Il processo è stato istruito e verrà celebrato dal Tribunale internazionale per il Libano costituito ad hoc dall’Onu; tribunale presieduto da Antonio Cassese, nella fase determinante della chiusura dell’istruttoria e dell’emissione dei mandati di cattura (mai eseguiti), e ora sotto l’autorità di David Re.

    Hezbollah ha sempre rifiutato di consegnare i suoi uomini alla Corte dell’Onu, definendo le accuse “una manovra imperialista di Israele e degli Usa”. In realtà, le prove a carico degli imputati sono schiaccianti perché si basano sulle registrazioni dei cellulari degli imputati sulla scena dell’attentato e nella sede di Hezbollah. L’elemento ancora più preoccupante della crisi che devasta il Libano è l’atteggiamento rinunciatario, alle soglie dell’ignavia, degli Stati Uniti e dell’Ue nei confronti dell’impegno militare della libanese Hezbollah e dei pasdaran iraniani nella guerra civile siriana. Il fronte antisiriano di Hariri soffre oggi infatti non solo di una marcata inferiorità militare nei confronti di Hezbollah, ma anche di un sostanziale isolamento politico. Nonostante la presenza di 12.000 militari di Unifil nel sud del Libano, l’impegno dell’occidente nei confronti del gorgo di violenza che sta inghiottendo Beirut è solo verbale. Nel condurre la trattativa sul nucleare con Hassan Rohani, infatti, America e Europa hanno scelto irresponsabilmente di chiudere gli occhi sul marcato impegno militare in Siria, pienamente avallato da Rohani, dell’Iran e di Hezbollah (che ha nel presidente iraniano Ali Khamenei la sua dichiarata Guida Suprema). Impegno militare che smentisce di per sé tutte le disponibilità alla pacificazione che Barack Obama e la Ue hanno invece scelto di riconoscere a Rohani. Nella ricerca a tutti i costi di un accordo sul nucleare con Teheran, di fatto, Obama, ha deciso di “dimenticarsi” delle conseguenze sul Libano dell’impegno militare di Hezbollah e Iran in Siria. Una scelta che rischia di avere conseguenze disastrose.