Eredi Agnelli International
L’acquisizione della Chrysler è stata gestita in modo magistrale da Sergio Marchionne, ma serve anche a riposizionare gli eredi Agnelli. Nel momento in cui il capitalismo italiano sembra in ritirata, a cominciare dal capitalismo delle grandi famiglie, John Elkann diventa un giocatore sul tappeto verde della globalizzazione. Il colpaccio comincia nel 2009 quando viene preso il 20 per cento senza sborsare un centesimo, grazie all’Amministrazione Obama e ai sindacati con i quali il manager italo-canadese ha negoziato a muso duro.
L’acquisizione della Chrysler è stata gestita in modo magistrale da Sergio Marchionne, ma serve anche a riposizionare gli eredi Agnelli. Nel momento in cui il capitalismo italiano sembra in ritirata, a cominciare dal capitalismo delle grandi famiglie, John Elkann diventa un giocatore sul tappeto verde della globalizzazione. Il colpaccio comincia nel 2009 quando viene preso il 20 per cento senza sborsare un centesimo, grazie all’Amministrazione Obama e ai sindacati con i quali il manager italo-canadese ha negoziato a muso duro. E finisce il 1° gennaio 2014 quando il manager riesce a far pagare all’azionista meno del previsto per il 41,5 per cento dell’azienda ancora in mano al fondo Veba che fa capo alla Uaw: 1,75 miliardi di dollari in contanti su un valore complessivo pari a 4,3 miliardi. Si è evitata una offerta iniziale in Borsa, che avrebbe messo a rischio il controllo, e per comprare Chrysler sono stati utilizzati i soldi della Chrysler stessa: un dividendo straordinario da 1,9 miliardi e 700 milioni in quattro tranche che sono premi di produzione dovuti. Exor, la holding finanziaria degli Agnelli, ha venduto nel giugno scorso la sua quota nella Sgs, la società di certificazione dalla quale proviene Marchionne, incassando 1,5 miliardi di euro, proprio per concludere l’incompiuta americana. L’azionista, dunque, respinge l’accusa di non aprire mai abbastanza il portafoglio.
Il Wall Street Journal avverte che, per quanto abile, l’operazione non risolve i problemi. E’ la Chrysler, infatti, ad aver tenuto in piedi la Fiat: l’intero gruppo, ricorda Automotive News, nel 2012 ha portato a casa un reddito netto di 1,41 miliardi di euro, senza le attività americane avrebbe dovuto registrare una perdita di 1,04 miliardi. A partire dal 20 giugno, quando avverrà lo scambio di azioni, si potranno fondere anche le due casse: Chrysler ha liquidità per 11,5 miliardi di dollari, anche se porta in dote un extra debito. Ed entro il 2014 il gruppo punta a quotarsi a Wall Street, ha rivelato ieri il Financial Times online che cita fonti bancarie. In ogni caso, ci saranno le condizioni per creare una nuova entità da 28 miliardi di euro con vendite per 88 miliardi, magari con una capogruppo e diverse controllate, oppure scorporando i marchi e trasformandoli in vere società operative: l’Alfa Romeo in vista del suo ritorno negli Stati Uniti, la Maserati capofila delle vetture di lusso come già annunciato, la 500 che sta diventando un prodotto multiplo (dall’utilitaria fino al Suv).
Giorgio Cremaschi, l’ideologo della Fiom, se la prende con chi non ha capito che la fusione avverrà in senso inverso, lasciando le briciole in Italia. Una lamentela nostalgica, perché la vecchia Fiat è finita da anni, adesso la scommessa è creare una realtà multinazionale. Tutto questo richiede strategie, investimenti, un impegno degli azionisti e fa pensare che gli eredi Agnelli saranno avvinti ancora a lungo all’automobile. Tempo fa circolava la convinzione di un loro progressivo disimpegno, una volta fusa Fiat con Chrysler e quotato il tutto a Wall Street. Oggi non sembra più scontato; anzi, è probabile che il futuro della dinastia torinese assomigli a quello dei Ford i quali, pur possedendo soltanto un pacchetto del 2 per cento nel colosso creato dal vecchio Henry, mantengono la presa con il 40 per cento dei diritti di voto.
Oltre alle auto ci sono i giornali. L’editoria è una vera passione per John Elkann, tanto che “l’ingegnere” ha giocato e vinto in prima persona una dura partita al Corriere della Sera. Ha battuto Diego Della Valle, ha rovesciato l’intero consiglio e l’assetto azionario, ha acquisito una quota di controllo e nominato un manager di suo gradimento, Pietro Scott Jovane, prendendolo da Microsoft. Non solo. E’ entrato nel consiglio di Pearson (Financial Times ed Economist) e in quello di News Corporation (Rupert Murdoch) con l’intento di farsi le ossa e studiare un progetto simile all’operazione Chrysler: cioè inserire le attività editoriali che fanno capo alla famiglia direttamente o indirettamente, cioè la Stampa e Rcs, in un gruppo a dimensioni internazionali. Per il Corriere era circolato il nome di Axel Springer, anche se poi l’ipotesi s’è appannata.
Ma chi sarà il Marchionne dei media? Jovane o un uomo venuto dall’altro mondo, come il manager dal maglioncino nero? Il destino degli Agnelli, insomma, è legato ai due rami industriali che li accompagnano da un secolo, senza trascurare un’attività finanziaria non irrilevante per un gruppo che, con un fatturato di 110 miliardi di euro è al secondo posto dopo l’Eni. Tutti gli altri sono lontani, c’è un abisso con Luxottica, Pirelli o il resto delle imprese private. La famiglia Agnelli resta al vertice del capitalismo italiano e dell’Italia non può fare a meno. Nel caso dell’auto, è evidente che la Fiat non si risolleva se non decolla un mercato interno depresso anche per i produttori tedeschi. Ma un problema di domanda esiste anche nell’Unione europea. Dunque, aumenterà la pressione sul governo Letta e crescerà la critica alla cancelleria tedesca. Marchionne è un uomo di mondo, però ricorda bene lo schiaffo del 2009, quando voleva acquisire Opel, moribonda diramazione di Gm: Berlino tenne nascosti i veri dati e il manager allora parlò di “soap opera brasiliana”. Il disincanto verso Enrico Letta può essere già visto in filigrana sui giornali. La Stampa non nasconde la sua attenzione per Matteo Renzi. Il Corriere ha chiuso l’anno con un editoriale del direttore nel quale Ferruccio de Bortoli definisce il nuovo contratto di governo “ultima occasione per non fallire”. E’ prevedibile che saliranno i toni sulla gestione tedesca della Ue, mentre s’avvicinano le elezioni e il semestre di presidenza italiana; non per dare spazio all’euroscetticismo populista, ma per sostenere un europeismo meno fiacco e convenzionale.
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