La scommessa di cambiare pelle a Fiat con le auto di lusso
God bless Sergio. L’America compatta applaude Sergio Marchionne, “il negoziatore leggendario” secondo il New York Times. Nessun rimpianto per aver ceduto una delle tre sorelle di Detroit agli italiani. Semmai, un’ammirazione divertita per il prezzo, più o meno un nono di quanto Daimler spese per comprare l’azienda. Da Wall Street arriva una bella fetta degli ordini che hanno fatto schizzare poco meno del 16 per cento i titoli del Lingotto.
God bless Sergio. L’America compatta applaude Sergio Marchionne, “il negoziatore leggendario” secondo il New York Times. Nessun rimpianto per aver ceduto una delle tre sorelle di Detroit agli italiani. Semmai, un’ammirazione divertita per il prezzo, più o meno un nono di quanto Daimler spese per comprare l’azienda. Da Wall Street arriva una bella fetta degli ordini che hanno fatto schizzare poco meno del 16 per cento i titoli del Lingotto. Da Fitch, l’agenzia che vigila sui debiti gemelli di Torino e Detroit, arriva l’assoluzione più attesa: vista la cifra sborsata da Fiat per il 41,5 per cento di Chrysler non è necessario ridurre il rating, l’ostacolo più temuto. Alla fine si pronuncia anche il fondo Veba, il venditore. “E’ stata la scelta migliore”, scrive il presidente Robert Naftaly a nome dei 117 mila dipendenti e pensionati cui il fondo assicura “benefici sanitari vitali”, mica poco in una città in bancarotta come Detroit. Non c’è dubbio alcuno, insomma, che tra pochi giorni, all’apertura del Salone di Detroit, superSergio sarà la vera superstar in vena di stupire. Grazie al made in Italy.
Stavolta, a differenza che nel 2009 quando iniziò l’avventura, la partita per consolidare Fiat-Chrysler – la settima potenza dell’Auto mondiale (88 miliardi di euro di fatturato, 1,2 miliardi di utili) – si gioca più in Italia che negli Stati Uniti. Certo, i profitti che serviranno a pagare debiti e dividendi arriveranno per un bel po’ da Detroit e, si spera, dal Brasile su cui sembrano addensarsi nubi minacciose. Ma la scommessa vera è di rivedere dalle radici l’offerta dei modelli del gruppo: via dagli impianti italiani i modelli basic, quelli che hanno fatto la fortuna della vecchia Fiat ai tempi del boom. L’erede della Punto vedrà così la luce in Polonia, a Tychy, dove la busta paga degli operai dell’impianto più produttivo del gruppo è pari a circa un quarto di quella italiana. Ma le nuove Alfa, così come la linea della 500 più cool e il Suv Maserati, che uscirà dalle linee di Mirafiori, dovranno rappresentare il plusvalore italiano nell’offerta del gruppo.
“Muoversi verso il lusso è l’unico modo per dare un futuro all’industria italiana”, conferma Giuseppe Berta, professore in Bocconi e grande esperto di Fiat. La pensa così anche Roberto Verganti del Politecnico di Milano, autore di “Design-driven innovation”, una piccola Bibbia del nuovo modo di produrre. “E’ un passaggio forte ma necessario – commenta – anche se richiede il coraggio di allontanarsi dalle proprie radici”. Un passaggio che Marchionne prepara da tempo. L’operazione cavia, cioè la nuova Maserati assemblata nell’ex Bertone di Grugliasco, è un grande successo che lascia ben sperare per il Suv Maserati, il Levante, che dovrà ridare vita al deserto di Mirafiori. Il piano Alfa Romeo, il più ambizioso e quello da cui dipende in larga misura il possibile rilancio dell’auto made in Italy, è già decollato: al francese Philippe Krief, un passato in Ferrari, è stato assegnato il compito di mettere a punto una serie di architetture per macchine “cattive”, a trazione posteriore e integrale, da esportare anche sulle linee di Dodge. L’appuntamento è fissato per aprile, data del prossimo piano industriale di cui per ora si sa poco: la cifra prevista (9 miliardi da investire in tre anni), l’obiettivo di riportare gli impianti italiani in utile (tutti quanti) entro il 2016. Per il resto solo poche anticipazioni. I motivi di tanta segretezza? Più d’uno, a partire dalla scarsa visibilità del mercato che solo a dicembre ha spezzato una serie infinita (43) di risultati di vendita negativi. Ma uno su tutti: fino alla firma dell’accordo con Uaw, Marchionne non aveva alcuna certezza di poter impegnare la Fiat in una scommessa così ambiziosa.
Nonostante che, a settembre, si fosse esposto in una dichiarazione ritenuta temeraria: “Finché in Fiat ci sarò io, nessuna Alfa sarà costruita fuori d’Italia”. Il che, con il senno di poi, appare più che altro un monito alla controparte statunitense (all’epoca molto rigida sul prezzo). Ma il manager sapeva che, in assenza della fusione con Chrysler (per cui sono previsti tempi brevissimi), Fiat non avrebbe avuto la forza finanziaria per gestire l’impegno italiano. Non si tratta di metter le mani sulla cassa di Chrysler, come ha notato con malizia il Monde, che al contrario fino al 2016 dovrà restare al servizio dei debiti americani della casa. Bensì di sfruttare la quotazione a Wall Street e la nuova dimensione (senz’altro più americana che italiana) per attingere a un mercato finanziario più ricco e meno oneroso. Insomma, l’affare Chrysler allontana Fiat dalla Borsa italiana ma rende possibile una presenza industriale altrimenti destinata a sicura fine o nazionalizzazione sotto la tutela della politica. Forse è per questo che in Italia affiorano quelle perplessità che non si riscontrano in America. Da parte ad esempio di Susanna Camusso: “Marchionne dica cosa intende fare nel nostro paese”. Stupisce che altrettanta cautela distingua Giorgio Squinzi: l’accordo Chrysler è senz’altro positivo per Fiat, dice il presidente di Confindustria, “ma non ho elementi per dire che sia una buona notizia anche per l’Italia”. Strano modo per commentare la più grande acquisizione nella storia dell’industria italiana.
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