Matteo non sforare

Carlo Stagnaro

Si può sforare il 3 per cento e vivere felici? Ne sembra convinto il segretario del Pd, Matteo Renzi. “E’ evidente che si può sforare – ha detto ieri in una densa intervista a Stefano Feltri sul Fatto quotidiano – si tratta di un vincolo anacronistico”. Ha poi chiarito: “Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme costituzionali, con un risparmio sui costi della politica non solo simbolico, un Job act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora ti applaudono anche se sfori il 3 per cento”.

    Si può sforare il 3 per cento e vivere felici? Ne sembra convinto il segretario del Pd, Matteo Renzi. “E’ evidente che si può sforare – ha detto ieri in una densa intervista a Stefano Feltri sul Fatto quotidiano – si tratta di un vincolo anacronistico”. Ha poi chiarito: “Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme costituzionali, con un risparmio sui costi della politica non solo simbolico, un Job act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora ti applaudono anche se sfori il 3 per cento”. La questione non è banale. Dal modo in cui viene interpretata dipende molto delle prospettive di crescita economica del paese.

    Bisogna però partire da tre domande: ha ancora senso il tetto del 3 per cento al rapporto tra disavanzo strutturale e pil? E’ utile romperlo? A quali condizioni sarebbe eventualmente possibile? Per rispondere alla prima domanda, bisogna ricordare che il 3 per cento non nasce dalla cabala, né dal caso né dal cappello di François Mitterrand. Esprime semplicemente il deficit massimo ammissibile per mantenere il rapporto di lungo termine tra debito pubblico e pil al 60 per cento (il livello medio Ue a metà anni Novanta, e un altro dei parametri di Maastricht) in presenza di un tasso di crescita nominale attorno al 5 per cento annuo. Come tale, visti i ripetuti sforamenti in numerosi paesi e l’andamento delle finanze pubbliche europee negli anni della crisi, ha perso il suo significato originario: l’obiettivo di contenere il debito pubblico è stato mancato. Tuttavia, ha mantenuto un valore per certi versi più importante: quello della regola che, finché esiste, va rispettata. Se si ritiene che sia sbagliata, si fa una battaglia per cambiarla: infrangerla deliberatamente è errato. E lo è soprattutto da parte di chi, come l’Italia, ne ha avuto storicamente scarso rispetto. Se anche fosse giusto abolire il semaforo rosso, quanti ascolterebbero le ragioni di un collezionista di multe?

    Certo, questo non significa che superare il limite non possa essere utile, a certe condizioni. Tali condizioni sono piuttosto banali: lo sforamento dev’essere limitato nel tempo, avere un obiettivo preciso e misurabile, e la copertura di garanzie credibili. La chiave di volta è dunque la spending review.
    Lo hanno scritto fino alla noia Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: all’economia italiana serve uno choc fiscale positivo, per esempio abbattere rapidamente le tasse di 3 punti di pil. A ogni euro di minore prelievo tributario deve corrispondere un euro di minore spesa pubblica.  Tuttavia, poiché tagliare le spese (cioè riorganizzare la Pubblica amministrazione) richiede tempo, ha senso invocare da Bruxelles maggiore flessibilità: partire subito col taglio delle tasse, spalmando quello della spesa su un orizzonte (per esempio) triennale.  Il che conduce alla terza questione: l’operazione si regge solo se il piano di tagli è pienamente credibile. Non basta dire “taglieremo”. Occorre fornire dettagli precisi su cosa, quanto, quando e come. Nel pacchetto di riforme che Renzi ha in mente, insomma, non bastano interventi (pure indispensabili) tesi a liberare le forze produttive e attirare capitali esteri, come liberalizzazioni, privatizzazioni e Job act. Serve un percorso a tappe forzate verso la riduzione del perimetro dello stato. Purtroppo, l’Italia è uno dei paesi Ue più indisciplinati, e anche negli ultimi mesi si è resa protagonista di almeno tre possibili infrazioni (il divieto di Ogm, gli aiuti di stato all’Alitalia e quelli ai libri cartacei, più il rischio web tax).

    L’Italia insomma si presenta in Europa come un individuo che chiede un mutuo in banca avendo alle spalle una storia di fallimenti e di “bidoni”. Il capitale politico a sua disposizione non è un “collateral”, una garanzia, accettabile. Renzi può contare su una grande apertura di credito in Europa, ma sconta la bassa credibilità del paese. Bucare il 3 per cento dev’essere semmai il punto di arrivo, non quello di partenza, di un percorso di riforme e responsabilità.