Parla Bombassei
Cari industriali, il successo di Marchionne è una lezione per tutti
La cavalcata di Sergio Marchionne, assieme a John Elkann, che trasformerà Fiat in una multinazionale di rilevanza globale tramite la fusione con Chrysler è “stata un’operazione eccezionale della quale, come italiani, dobbiamo essere orgogliosi; una medaglia al petto”. La speranza è che ciò serva da lezione a politici, sindacati, e industriali che, negli ultimi quattro anni, hanno delegittimato – ma sono stati dribblati – il chief officer transnazionale italo-canadese, al quale invece il governo americano ha affidato la ristrutturazione di quella che è diventata la settima Casa automobilistica del mondo. L’accordo con Obama è stato il “primo e fondamentale risultato politico di Marchionne”.
La cavalcata di Sergio Marchionne, assieme a John Elkann, che trasformerà Fiat in una multinazionale di rilevanza globale tramite la fusione con Chrysler è “stata un’operazione eccezionale della quale, come italiani, dobbiamo essere orgogliosi; una medaglia al petto”. La speranza è che ciò serva da lezione a politici, sindacati, e industriali che, negli ultimi quattro anni, hanno delegittimato – ma sono stati dribblati – il chief officer transnazionale italo-canadese, al quale invece il governo americano ha affidato la ristrutturazione di quella che è diventata la settima Casa automobilistica del mondo. L’accordo con Obama è stato il “primo e fondamentale risultato politico di Marchionne”. E’ questo il pensiero di Alberto Bombassei, ora presidente del partito montiano Scelta civica ma prima ancora capo della Brembo (multinazionale degli impianti frenanti da 1,5 miliardi di fatturato l’anno) e fra i pochi alleati di Marchionne nell’invocare, tre anni fa, la modernizzazione delle relazioni industriali italiane dall’interno di una Confindustria invece arroccata su posizioni conservatrici. Solo l’elezione di Bombassei alla presidenza di Confindustria avrebbe convinto Marchionne a rientrare nell’associazione, ma il patron di Brembo fu battuto da Giorgio Squinzi. Ora sembra che quella posizione minoritaria, difesa dal tandem Bombassei-Marchionne, abbia avuto la sua rivincita a Detroit, o no? “E’ sempre antipatico fare nomi, ma anche in Confindustria qualcuno ironicamente aveva preso in giro l’operazione americana dando giudizi non molto edificanti. Poi però Marchionne si è mosso e vediamo con quale risultato. Credo che un ripensamento debba essere un atto dovuto”, dice Bombassei sorridendo. Marchionne nel 2011 recise il legame confindustriale per avere libertà di fare contratti aziendali (non più nazionali) per gli stabilimenti italiani di Fiat. Si scontrò con con l’astio e le cause legali della Fiom-Cgil. Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, adesso chiede al manager di dare garanzie sugli investimenti in Italia e di riferire in Parlamento. Se ne stia tranquilla Camusso, dice Bombassei, semmai siamo più tutelati dalla stazza globale di Fiat.
“Io, per prima cosa, mi sarei rallegrato per l’operazione – dice Bombassei – ma poi c’è chi si preoccupa dell’occupazione. Però è chiaro che più grande diventa il gruppo, più è facile non solo mantenere i posti di lavoro ma farli addirittura crescere, e forse anche in Italia. Ci dobbiamo sentire molto più cautelati da un gruppo che oggi è presente in tutto il mondo, più che leader a livello solo europeo o nazionale com’era Fiat”. Piuttosto “credo che anziché fare dei distinguo, pur leciti e sostenibili, si debba cercare di fare crescere questo paese e dare risposte serie e praticabili per il lavoro”. Al riguardo Bombassei sottolinea che “l’approccio del sindacato americano (la Uaw, accordatasi con Marchionne per cedere la sua quota in Chrysler, ndr) è sempre stato costruttivo. Al contrario della Fiom, un sindacato antagonista, che penso abbia fatto il suo tempo. Ormai è fuori luogo”, dice il presidente di Scelta civica.
A livello nazionale il distacco di Fiat da Confindustria, l’intransigenza sindacale e, infine, il successo americano del Lingotto sono elementi che “dovrebbero fornire un insegnamento per mettere basi nuove e comuni per una politica tesa alla re-industrializzazione del paese, come sta avvenendo negli Stati Uniti, dimenticando il classico vecchio sistema del consociativismo conflittuale che ci caratterizza”. “Ancora oggi si sciopera sui rinnovi, credo sia ormai un’esclusiva solo italiana. E ci stupiamo se chi deve investire da noi pensi ‘ma chi me lo fa fare, vado altrove’. Certo, se dicessi che questo è l’unico vero problema non sarei sincero, ma è uno degli elementi cui soprattutto gli imprenditori medio-piccoli sono sensibili”. “La politica, ovvio, deve dare risposte di carattere fiscale ma se vogliamo convincere gli investitori a tornare in Italia è chiaro che dobbiamo cambiare le condizioni del mercato per essere più attrattivi, dobbiamo riformare il paese e renderlo più competitivo”.
Il governo di Mario Monti, fondatore del partito di Bombassei, provò a zittire il concerto sindacal-confindustriale proponendo la detassazione del salario di produttività (poi naufragata nei flutti della corporativismo). Serviva a risolvere una criticità strutturale all’origine della desertificazione industriale. Ora il governo Letta avrebbe la forza di fare qualcosa di simile? “Nutro stima personale per Enrico Letta e dopo anni insieme in Aspen (un think tank, ndr) so che conosce bene il mondo industriale e sono convinto che sappia che vere riforme al sistema non possono più aspettare. Ma bisogna che tale convinzione s’allarghi anche ai componenti dei ministeri e ai partiti di governo. Tutti lo dicono, ma non so quanto lo vogliano fare davvero”, dice Bombassei che però preferisce non identificare gli interessati.
Il Foglio sportivo - in corpore sano