La Casa di sistema
“Posso annunciarvi che la Francia disporrà anche in futuro di una grande industria dell’auto con una grande capacità produttiva sul suolo nazionale”. Era il 9 febbraio 2009, nel bel mezzo della crisi scatenata dal crac di Lehman Brothers, quando Nicolas Sarkozy, con l’orgoglio di un degno discendente di Colbert, annunciava al mondo che lo stato aveva elargito un prestito di 3 miliardi a Peugeot e Renault in cambio dell’impegno a “non chiudere alcun impianto e a non procedere ad alcun licenziamento finché non sarà restituito il prestito”.
“Posso annunciarvi che la Francia disporrà anche in futuro di una grande industria dell’auto con una grande capacità produttiva sul suolo nazionale”. Era il 9 febbraio 2009, nel bel mezzo della crisi scatenata dal crac di Lehman Brothers, quando Nicolas Sarkozy, con l’orgoglio di un degno discendente di Colbert, annunciava al mondo che lo stato aveva elargito un prestito di 3 miliardi a Peugeot e Renault in cambio dell’impegno a “non chiudere alcun impianto e a non procedere ad alcun licenziamento finché non sarà restituito il prestito”. Più o meno negli stessi giorni in cui Carlos Ghosn (Renault) e Philippe Varin (Peugeot) facevano la spola con l’Eliseo e il ministero di Bercy, anche Sergio Marchionne frequentava assai assiduamente gli uffici pubblici. Non a Roma o nemmeno a Bruxelles, dove qualsiasi politica comune sull’auto incontrava veti decisi da parte dei colossi tedeschi. Ma a Washington dove, complice una situazione giudicata dai più disperata, di lì a due mesi Barack Obama avrebbe accettato la sfida più pazza: affidare la guida di Chrysler a Fiat. La trama della crisi, a quel punto, sembrava segnata: Peugeot, forte della protezione di stato e sotto la vigilanza sindacale, avrebbe in qualche maniera superato la tempesta. Non così Fiat, che sotto la guida di Marchionne in questi anni ha rotto con la Confindustria, ridotto all’essenziale i rapporti con il governo, sfidato Cgil e Fiom dentro e fuori i recinti delle fabbriche, comprese le aule giudiziarie. Tanta superbia – è stata la diagnosi più comune negli anni passati – sarebbe stata punita. Con la piena soddisfazione dei colossi tedeschi, che ronzavano attorno all’Alfa (e alla Ferrari) e della stessa Peugeot che in più occasioni si è rifiutata di discutere il “piano Eiffel”, cioè la proposta del Lingotto di mettere assieme l’offerta delle utilitarie per cancellare doppioni, ridurre le spese e, soprattutto, non viziare i clienti a suon di sconti suicidi eppur necessari per fare lavorare impianti in perdita. Ma, cinque anni dopo, il verdetto della sfida premia Marchionne, che ha scelto di confrontarsi con i mercati piuttosto che nei ministeri.
Peugeot, invece, da ieri è ufficialmente nelle mani di Carlos Tavares, già numero due in Renault, l’ultima carta della dinastia Peugeot prima di aprire le porte dell’azionariato ai cinesi di Dongfeng e ai rappresentanti dello stato francese, forse già prima del 19 febbraio, data prevista per l’esame dei conti di un 2013 disastroso in cui, nei primi sei mesi, sono andati in fumo più di 500 milioni. In un certo senso, la parabola dei guai del costruttore sembra un manuale degli inconvenienti di una gestione mista dell’economia. Nonostante il rimborso anticipato del prestito 2009, il président-directeur général di Peugeot ha dovuto sfidare la rabbia dei governi di destra e di sinistra (comprese, pare, furibonde scenate da parte di Arnaud de Montebourg, il ministro del Rilancio produttivo) per poter chiudere il sito di Aulnay-sous-Bois (8 mila dipendenti), ormai di troppo di fronte a una domanda interna in calo strutturale. Nel frattempo, l’azienda, che pure ha messo sul mercato ottimi modelli (a conferma che la crisi non si batte con i nuovi prodotti, se manca la domanda) è entrata in una crisi finanziaria sempre più grave, al punto da dover offrire in garanzia allo stato la banca del gruppo per ricavare i quattrini (7 miliardi) necessari. Particolare non da poco: assieme ai capitali è arrivato in consiglio d’amministrazione l’uomo dell’Eliseo, Louis Gallois, tanto per tener d’occhio i Peugeot. Già, a complicare il cammino della griffe a quattro ruote prediletta dal Generale De Gaulle, che aveva un debole per lo Squalo Citroën, ci sono state le rivalità e le diverse strategie dei cugini Peugeot: una quindicina occupati nel gruppo, tra cui spiccano i cugini-serpenti Robert, cui fa capo la finanziaria che tra l’altro controlla il 19 per cento delle azioni, Thierry, detto “Menhir” per la proverbiale lentezza nelle decisioni, e Jean Philippe. Un pasticcio che non ha certo garantito al management la copertura necessaria verso le pressioni di stato. Ma la situazione, probabilmente, cambierà presto. I Peugeot, che controllano il 25 per cento delle azioni ma hanno il 38 per cento dei diritti di voto, probabilmente scenderanno al 15 o anche meno in occasione dell’aumento per 3-4 miliardi che vedrà presto, accanto al rafforzamento dell’intervento pubblico, l’arrivo del socio cinese, la Dongfeng, guidata dall’ex direttore generale del ministero dell’Industria di Pechino. Sarà lui a mantenere la promessa di Sarko; una grande industria dell’auto con una grande capacità produttiva sul territorio francese. Con una bandierina cinese sul tetto.
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