“95 tesi” di destra per rilanciare il lavoro in America e non solo
Michael Strain è un economista che si occupa di mercato del lavoro all’American Enterprise Institute, think tank conservatore di Washington dove si pratica il culto dei princìpi del mercato. Il suo presidente, ArthurBrooks, è un indefesso sostenitore della identità tendenziale fra mercato e moralità e nel tempo della “jobless recovery” americana ha propiziato un’ampia riflessione dei conservatori sul tema del lavoro. Strain ha assolto il compito, con qualche sorpresa.
New York. Michael Strain è un economista che si occupa di mercato del lavoro all’American Enterprise Institute, think tank conservatore di Washington dove si pratica il culto dei princìpi del mercato. Il suo presidente, Arthur Brooks, è un indefesso sostenitore della identità tendenziale fra mercato e moralità e nel tempo della “jobless recovery” americana ha propiziato un’ampia riflessione dei conservatori sul tema del lavoro. Strain ha assolto il compito, con qualche sorpresa. Sulla rivista National Affairs, ha pubblicato un paper che propone un’agenda conservatrice per rilanciare l’occupazione, immediatamente chiamato da David Frum, ex consigliere e speechwriter di George W. Bush, le “95 tesi” per il suo carattere eterodosso e persino provocatorio. Detto da Frum, che fa della sua cacciata dai circoli del conservatorismo ufficiale un punto d’onore, è un gran complimento, ma già a sinistra si sprecano le accuse di ipocrisia per via di certe ricette di ascendenza liberal e keynesiana che l’economista sdogana a destra. Innanzitutto, gli investimenti pubblici.
In tempi di massima avversione per il big government e tutto ciò che sa di centralismo, Strain sostiene che “i conservatori non dovrebbero opporsi dogmaticamente a qualunque piano per aumentare l’occupazione tramite gli investimenti pubblici”, perché non tutti gli investimenti sono creati uguali. Ci sono “gli stimoli a breve termine per tamponare la recessione”, misure largamente praticate dall’Amministrazione Obama con risultati incerti, e “investimenti reali a lungo termine”, il rinnovo delle infrastrutture, per esempio, che possono essere perseguiti con profitto. Specialmente se hanno un’utilità sociale intrinseca: “I progetti selezionati devono riguardare cose che vogliamo fare o migliorare anche in assenza di un crollo della domanda”. E investimenti del genere esistono, dice Strain, basta viaggiare su un’autostrada del Missouri o salire su una scala mobile alla stazione della metropolitana di Washington per scoprirlo. Strain, insomma, elegge l’investimento pubblico per creare posti di lavoro e rinnovare le infrastrutture a ricetta digeribile per lo stomaco conservatore.
Nelle “95 tesi” si trova un attacco al cuore del problema occupazionale americano, quello che riguarda i disoccupati a lungo termine, ovvero chiunque non abbia avuto un lavoro negli ultimi sei mesi. Questa categoria non compare nelle statistiche che parlano capziosamente di un tasso di disoccupazione al 7 per cento; la verità dei numeri va cercata fra il 13 e il 14 per cento, laddove vengono correttamente aggiunti ai dati i milioni di americani che hanno smesso di cercare un lavoro perché disperano di trovarlo. Strain chiama il fenomeno della disoccupazione a lungo termine “una catastrofe umana ed economica” e uno studio del Mit sottolinea che le probabilità di trovare lavoro per chi è disoccupato da oltre sei mesi sono attorno al 5 per cento. Se si parla poi di giovani che si affacciano sul mercato, non è difficile vedere la cronicizzazione della malattia.
E qual è il modo conservatore di affrontare il problema? Prima di tutto, dice Strain, abolire la barriera del salario minimo per chi è in cerca della prima occupazione. Un incentivo per i datori di lavoro potrebbe trarre milioni di giovani fuori dalla marginalizzazione; per farlo occorre riformare il rapporto con i sindacati secondo un modello già praticato in giro per gli Stati Uniti da vari governatori repubblicani. Il nume tutelare della mercato flessibile contro i sindacati disposti a testuggine è quello di Scott Walker, governatore del Wisconsin, il quale avrebbe lezioni da impartire anche in un paese come l’Italia, dove il successo finanziario e industriale arriva per chi sconvolge le consuetudini sociali, cambia le regole della contrattazione e trova una via (americana, non a caso) d’uscita dall’immobilismo.
L’economista conservatore sostiene anche – e qui gli ortodossi storcono il naso – che la Fed deve pompare liquidità nel sistema, come effettivamente fa con il Quantitative easing, ma deve ignorare l’inflazione più di quanto abbia fatto finora e fissare obiettivi occupazionali più ambiziosi prima di procedere all’accelerazione del “tapering” annunciato timidamente alcune settimane fa. L’inflazione è in grado di badare a se stessa, sostiene Strain, mentre il paese deve rilanciare l’occupazione a tutto vapore, lasciando che gli strumenti monetari facciano effetto: “Il programma di Quantitative easing deve continuare fino a un effettivo miglioramento del mercato del lavoro”, quota fissata dall’economista al 6 per cento di disoccupazione. E alle tesi di fondo Strain aggiunge due proposte sulle quali il movimento conservatore fatica a raggiungere un consenso politico: immigrazione e sussidi per la ricollocazione dei disoccupati. “Riformare l’immigrazione e aprire i confini è un buon programma per il mercato del lavoro”, e lo stesso vale per gli incentivi ai disoccupati per spostarsi dove c’è lavoro. Un programma vasto e realista per un movimento conservatore in cerca di soluzioni.
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