Dio salvi la Regina, ultimo baluardo contro gli eurosussidi verdi

Carlo Stagnaro

Nessuno tocchi il sussidino. Otto ministri europei dell’Ambiente – tra cui quelli italiano (Andrea Orlando), tedesco e francese – hanno scritto una lettera alla Commissione europea chiedendo obiettivi vincolanti sulle energie rinnovabili. Nelle prossime settimane, Bruxelles dovrà infatti svelare il pacchetto energia e clima per il 2030, per dare seguito al cosiddetto 20-20-20. Le politiche in essere impongono, entro il 2020, la riduzione delle emissioni di CO2 del 20 per cento, una produzione verde pari al 20 per cento del consumo totale di energia, e un miglioramento dell’efficienza energetica del 20 per cento, rispetto al 1990.

    Nessuno tocchi il sussidino. Otto ministri europei dell’Ambiente – tra cui quelli italiano (Andrea Orlando), tedesco e francese – hanno scritto una lettera alla Commissione europea chiedendo obiettivi vincolanti sulle energie rinnovabili. Nelle prossime settimane, Bruxelles dovrà infatti svelare il pacchetto energia e clima per il 2030, per dare seguito al cosiddetto 20-20-20. Le politiche in essere impongono, entro il 2020, la riduzione delle emissioni di CO2 del 20 per cento, una produzione verde pari al 20 per cento del consumo totale di energia, e un miglioramento dell’efficienza energetica del 20 per cento, rispetto al 1990. Le grandi manovre lobbistiche si sono messe in moto, insomma.

    Secondo le indiscrezioni, la Commissione avrebbe in mente un obiettivo di riduzione delle emissioni del 40 per cento, con un sotto-obiettivo del 30 per cento per le rinnovabili. E’ contro quest’ultimo che si è recentemente mosso il responsabile britannico dell’Ambiente, Ed Davey, il quale ha espresso la preferenza per un singolo obiettivo ambientale (il taglio delle emissioni, appunto). Davey fa naturalmente gli interessi del suo paese, il quale ha deciso di scommettere sul nucleare, piuttosto che sulle rinnovabili. Ma esprime anche una posizione di fondamentale buonsenso: fermo restando l’impegno a decarbonizzare l’economia europea, gli strumenti per raggiungere tale fine dovrebbero essere lasciati al mercato (che premierebbe le tecnologie più economiche, a parità di risultato) o quanto meno alla discrezionalità degli stati.

    Nel momento in cui viene inserito un vincolo non solo sulle emissioni, ma anche sulle modalità per abbatterle, è evidente che dietro l’agenda ambientale si nasconde una più prosaica agenda industriale: quella, cioè, che ritiene importante (dice) salvare il mondo, ma più importante farlo con le rinnovabili. E’ come se l’obiettivo di andare da Roma a Milano fosse corredato dal sotto-obiettivo di prendere il treno: non è detto che questo sia preferibile all’auto o all’aereo, ma tali alternative sono di fatto precluse. Questa logica, che ha dominato l’approccio europeo al clima nell’ultimo decennio, si è rivelata fonte di extracosti e di benefici di dubbia entità. Dovrebbe esserne ben consapevole il nostro paese: chissà se il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, condivide le idee del suo collega dell’Ambiente, Orlando.

    L’insistenza sulle rinnovabili non pare granché compatibile con le promesse di sconti tariffari e gli sgangherati interventi del governo in materia. E’ forse consolatorio il pensiero che il paradosso non è solo italiano. La Germania lo incarna in proporzioni se possibile ancora più clamorose. Angela Merkel, e con lei la potente industria rinnovabile tedesca, è stata la più convinta sostenitrice della politica ambiental-industriale europea. Almeno finché il motore manifatturiero non si è ingrippato di fronte a costi energetici crescenti, ottenendo la promessa elettorale di un taglio ai sussidi. Berlino, così, ha un sacco di grane sul fronte energetico, che vanno dagli schemi di incentivazione delle rinnovabili (giudicati dalla Commissione anticompetitivi in quanto non si applicano ai grandi consumatori) fino alla surreale vicenda del nucleare.

    Dopo Fukushima, Merkel ha imposto la chiusura anticipata degli impianti atomici. Risultato? Il boom del carbone, il cui consumo, tra il 2009 e il 2012, è cresciuto del 5,7 per cento, a fronte di una domanda complessiva di energia in calo (meno 2,5 per cento). Il trend è proseguito nel 2013 e non accenna a fermarsi. La richiesta degli otto ministri europei, insomma, è vecchia politica industriale vestita di verde. Quanto meno, ciò fa strame di un altro “mito”, quello della competitività delle rinnovabili (la cosiddetta grid parity). Se sono competitive, perché mai dovrebbero ricevere supporto specifico, pur in presenza di un obiettivo generale e di un disincentivo delle fonti fossili (il “mercato dei fumi” europeo)? E perché tale esigenza si proietta addirittura fino al 2030? Fatevi una domanda, e datevi una risposta.