Generazione Y

Annalena Benini

Non hanno colpe. Se sono impazienti, distratti, inconcludenti, indecisi, pieni soprattutto dei diritti che ritengono di avere. Non è colpa loro se non riescono a concentrarsi per più di tre minuti su qualcosa, perché subito devono controllare il cellulare, l’altro cellulare, Facebook, Twitter, Instagram e ogni chat lampeggiante. La generazione Y, quella dei ventenni nati negli anni Novanta, millennials cresciuti con internet, gli acquisti online e la rivoluzione delle email, è stata, secondo il racconto del magazine americano online Salon, segnata per sempre dal baby boom, cioè da genitori classificati come: la prima generazione dell’Io.

    Non hanno colpe. Se sono impazienti, distratti, inconcludenti, indecisi, pieni soprattutto dei diritti che ritengono di avere. Non è colpa loro se non riescono a concentrarsi per più di tre minuti su qualcosa, perché subito devono controllare il cellulare, l’altro cellulare, Facebook, Twitter, Instagram e ogni chat lampeggiante. La generazione Y, quella dei ventenni nati negli anni Novanta, millennials cresciuti con internet, gli acquisti online e la rivoluzione delle email, è stata, secondo il racconto del magazine americano online Salon, segnata per sempre dal baby boom, cioè da genitori classificati come: la prima generazione dell’Io. Gente disinvolta, convinta e narcisista, impegnata nella ribellione, nella distruzione e nella ricostruzione, genitori ingombranti e fragili al tempo stesso, esageratamente attenti ai propri figli ma in un modo pericoloso: avevano l’idea, sbagliata, di doversi specchiare in loro, ma senza provocare, mai, la ribellione.

    La generazione Y, infatti, non si ribella. E nemmeno la X l’ha fatto (gli X, secondo Salon i più dimenticati, trascurati, sottovalutati, sono i nati negli anni Settanta e negli Ottanta, bravi ragazzi che hanno imparato la tecnologia da grandi, e che avevano l’idea in fondo sana e non troppo egocentrica di tenere giù la testa e lavorare). I baby boomers, secondo questa visione, si sarebbero giocati i loro figli più giovani, quelli che vogliono farcela, che danno per scontato di farcela, ma che non hanno idea di come si faccia. Ragazzi che al primo impiego hanno già un sacco di pretese, vogliono il sabato libero, i ticket restaurant, e intanto, qualunque cosa stia succedendo, chiunque abbiano davanti, chattano. Pare che sia una dipendenza, come l’alcolismo: il desiderio insaziabile di controllare il telefono, anche se non stanno aspettando nessuna notizia importante, anche se non ha vibrato, anche se è davvero importante concentrarsi, adesso. Il ding del telefono, o il semplice suo lampeggiare, provocano nel cervello il rilascio di una sostanza che ci fa stare bene, e che vogliamo ancora e ancora: sarebbe questa la droga del Ventunesimo secolo (c’è ancora qualcuno, fra generazione X e Y, che al cinema spegne davvero il telefono, che resiste due ore senza controllare i messaggi?).

    E’ una droga che crea impazienza, insoddisfazione, incapacità di dedicarsi a lungo a qualcosa. Ma, se fosse tutto vero, che colpa ne avrebbero i baby boomers, i genitori che volevano solo cambiare il mondo, che non avevano davvero, come primo obiettivo, quello di creare Whatsapp? Troppo agio, è la risposta, e troppa confusione: la generazione Y confonde i gesti simbolici con quelli reali, pensa che, se manda un sms di un euro in beneficenza alle popolazioni colpite dallo tsunami, ha già salvato l’umanità, crede che, se indossa una felpa con la scritta “Peace”, fa un autoscatto e lo pubblica su Facebook, ha dato un grande contributo al bene del pianeta. E con una bella scarica di dopamina. Scrive Salon che questi giovani adulti hanno esplosioni di entusiasmo e energia che si esauriscono in fretta, perché è tutto astratto, digitale e immediato. Anche la scalata sulla montagna della realizzazione personale deve avvenire più in fretta possibile, ma per loro la montagna non esiste. Vogliono arrivare in cima, ma senza prendere in considerazione il tempo della salita. Soprattutto, non sembrano degni di ricevere responsabilità, vengono giustificati e assolti su tutto, in definitiva messi di nuovo in disparte: non è colpa loro, poveri giovani adulti, ma di quegli egotici dei loro genitori. Di nuovo e per sempre, loro sì, protagonisti.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.