Il mio debito con Rigoni Stern e un libro che parla di cose dimenticate
Avere un destino, quale che sia, ma uno. Vivere una sola vita, la propria. Che guaio. Tuttavia, esattamente a quarant’anni, l’anno della maturità, mi sembrò di capire all’improvviso (si capisce sempre all’improvviso) che il primo peccato, il peccato maggiore, o quello da cui nascono gli altri, è il desiderio, è il tentativo di vivere più di una vita, è diventare una specie di turista della vita, uno che non è veramente niente, che non si identifica con niente.
Avere un destino, quale che sia, ma uno. Vivere una sola vita, la propria. Che guaio. Tuttavia, esattamente a quarant’anni, l’anno della maturità, mi sembrò di capire all’improvviso (si capisce sempre all’improvviso) che il primo peccato, il peccato maggiore, o quello da cui nascono gli altri, è il desiderio, è il tentativo di vivere più di una vita, è diventare una specie di turista della vita, uno che non è veramente niente, che non si identifica con niente: è diventare il visitatore temporaneo di possibilità che si riesce a far sembrare vere per un po’, ma dalle quali poi si fugge, si deve fuggire, perché erano solo recite, turismo, finzioni di realtà. Quando non ci si identifica con quello che si fa, si ingannano gli altri anche non volendo. Può essere un bene questo?
Eppure secondo certi precetti di “filosofia perenne” (c’è chi crede che esista) in cui tutte le religioni e le sapienze si incontrerebbero senza differenze né contraddizioni, il solo modo per non ingannarsi e non crearsi idoli e fanatismi, è recitare la propria vita come un attore in scena che indossa l’identità di un personaggio e alla fine della recita ne esce per tornare a essere… A essere che cosa? A essere niente, proprio come succede agli attori quando escono dal teatro e non sanno chi sono, si sentono vuoti, potenzialità pura, senza atti che diano forma a una forma precisa e stabile.
Forse il poeta no (il poeta deve credere nelle proprie emozioni e visioni: almeno sul momento) ma l’attore, il drammaturgo, il narratore migrano da una forma di vita a un’altra, da una psicologia, da una situazione a un’altra. Fanno la prova di che cos’è un destino muovendo dei personaggi. Esplorano destini diversi dal proprio. Esplorano, sperimentano e si dissociano. Entrano ed escono dalla vita (una finzione di vita) per vederla, capirla, sentirla meglio.
Ora devo chiedermi che cos’è un critico. Anche lui non si sazia di entrare e uscire dalla testa di qualcuno, di molti, nel mondo di molti autori e molti libri. Contro un’opinione diffusa e malevola, si può dire che il critico sia il più altruista degli scrittori, il solo che si interessa a quello che scrivono gli altri, che è curioso degli altri. Si mette nei panni degli autori per sperimentare virtù e vizi, capacità e inettitudine, l’istinto di capire e l’istinto di ingannarsi o mentire.
L’ho fatta fin troppo lunga. Può bastare. Ma c’è un contingente e preciso perché. Mi sono chiesto perché leggo con passione (una passione non semplice e diretta, ma indiretta e composita) le interviste a Mario Rigoni Stern uscite da Einaudi a cura di Giuseppe Mendicino con il titolo “Il coraggio di dire no” (238 pp., 12 euro). Con Rigoni Stern sono in debito. Ho letto quarant’anni fa “Il sergente nella neve”, il primo e più famoso dei suoi libri, ma poi nient’altro: ma quando leggo libri-testimonianza di esperienze estreme, mi sento un colpevole voyeur e turista. Ora che ho davanti queste conversazioni e interviste dal 1963 al 2007, mi sembra di avere di fronte un’intera vita, un carattere, un destino, una completa visione delle cose, forse una saggezza. Nel 1963 Rigoni Stern aveva quarantadue anni, nel 2007 ne aveva ottantasei. Che cosa ha pensato questo ex soldato della campagna di Russia nell’Italia e dell’Italia dell’ultimo mezzo secolo? Ogni volta che una vita viene vissuta dopo essere scampata miracolosamente alla morte e poi si avvia a finire, produce un sistema di convinzioni di cui le generazioni più giovani hanno un certo rispetto formale, se ce l’hanno, salvo pensare che quel vecchio che ancora ci parla era diventato pessimista, era legato al passato, non capiva più il mondo attuale e le sue idee non servono più, se si vuole vivere oggi, se si vuole accettare il presente e guardare al futuro. Lui (si pensa) era un individuo vissuto in un’epoca ormai remota: avrà anche avuto “il coraggio di dire no”, ma non crede nei vantaggi del progresso, è malato di nostalgie, è come un bell’orologio fermo, e alla fine si era messo in testa che il mondo, invece di migliorare, peggiora.
Eccoci davanti a una questione di lana caprina, benché in apparenza solenne. Il mondo peggiora o migliora? Né l’una né l’altra cosa. Il bene e il male cambiano forma e si spostano. I problemi, più che risolti, vengono superati e dimenticati, sostituiti da problemi nuovi, o sempre vecchi, ma tradotti in un diverso codice e in situazioni inaspettate. Per questo è così interessante leggere i libri del passato e i classici più lontani. Molte cose sono cambiate, molte altre sono le stesse. Quando la società è diventata più sicura e più comoda, più ricca, libera e promettente, sono arrivate l’angoscia, la nevrosi, i desideri illimitati eppure più fiacchi, la frustrazione, la rivolta, i diritti e il diritto di avere diritti. Quando la creatività si è diffusa, è anche diventata più banale e più effimera. Quando la tecnica si è ingigantita, nessuno sa più fare niente, né farlo bene né con le proprie mani: le porte sono automatiche, lo spazzolino da denti si muove da solo, le idee nella testa sono connesse da una serie di connessioni prefabbricate e anche loro automatiche.
Sto sproloquiando, forse perché sono così impressionato dalla lettura di questo libro che parla di cose a cui nessuno pensa più, sparite, cancellate. Accanto a Rigoni Stern nel libro compaiono i nomi e le citazioni degli altri due grandi testimoni, Nuto Revelli e Primo Levi (aggiungerei Fenoglio), persone legate da un vincolo fraterno fortissimo. Parlano di esperienze di cui oggi personalmente nessuno sa più niente, di una realtà che non è più la nostra ed è anche difficilmente immaginabile: la guerra fascista, i campi di sterminio, le ipocrisie patriottiche, le viltà e irresponsabilità degli alti comandi, la ritirata di Russia: trentamila uomini, “una colonna larga 70-80 metri, lunga chilometri, mischiati ungheresi, italiani, tedeschi, slitte, muli, un manicomio” (Nuto Revelli), con una temperatura che poteva arrivare a 40 gradi sotto zero. L’inferno, ma senza Dio e senza peccati di cui essere puniti. L’ultima volta che l’Europa ha vissuto fin dove può arrivare la realtà, dove possono arrivare i suoi confini, che cosa può succedere a milioni di esseri umani nel cuore di una civiltà che si credeva superiore, progredita, raffinata, uscita da secoli di autoperfezionamento morale, scientifico, sociale.
In un’intervista a Eraldo Affinati uscita nel 2005 su Vita e pensiero l’intervistatore chiede: “Va bene, sergente, ma che cosa abbiamo perso?”, Rigoni Stern risponde: “La misura umana. Negli anni Cinquanta la gente cantava: si sentiva fischiettare per le strade, nei campi e nelle cucine. Oggi chi lo fa più? La musica si ascolta nelle cuffiette, ognuno per conto suo. In treno tutti stanno zitti, leggono o fanno finta, pur di non parlare. Poi scendono alla stazione senza dire buongiorno e buonasera. Isolamento e comodità sembrano procedere di comune accordo: è forse il prezzo che dobbiamo pagare al progresso?”.
Io sono qui che leggo, cerco di immedesimarmi, visito altri destini. Non ho mai visto una guerra né certo desidero vederla per arricchire la mia coscienza. Mi alzo, tocco i termosifoni per sentire se sono caldi, mi preparo un caffè, penso con affetto e gratitudine a Rigoni Stern. E penso ai libri che lui rileggeva e amava di più: un’antologia della poesia italiana dalle origini all’Ottocento, “Guerra e pace”, lo “Zibaldone” di Leopardi (“lo leggo da sempre perché è di un’attualità strepitosa”), “La strada di Swann” e “All’ombra delle fanciulle in fiore” di Proust, Cechov (“per il quale nutro una particolare predilezione”), la “Guerra del Peloponneso” di Tucidide e “L’isola del tesoro” di Stevenson.
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