Dàgli allo sbirro
Questore e colonnello fecero col magistrato inquirente il punto delle loro indagini. Il magistrato assunse aria di greve pensamento e poi disse: ‘Sapete che cosa penso? Che casuale per quanto si voglia, l’uomo della Volvo entrò nell’ufficio del capostazione, vide quel dipinto, se ne invaghì a colpo di fulmine, fece fuori i due e se lo portò via’. Questore e colonnello si scambiarono perplesso e ironico sguardo. ‘E’ un personaggio, questo della Volvo, per cui mi è venuta una immediata affezione. Difficilmente sbaglio, nelle mie intuizioni. Tenetemelo bene al fresco’.
Questore e colonnello fecero col magistrato inquirente il punto delle loro indagini. Il magistrato assunse aria di greve pensamento e poi disse: ‘Sapete che cosa penso? Che casuale per quanto si voglia, l’uomo della Volvo entrò nell’ufficio del capostazione, vide quel dipinto, se ne invaghì a colpo di fulmine, fece fuori i due e se lo portò via’. Questore e colonnello si scambiarono perplesso e ironico sguardo. ‘E’ un personaggio, questo della Volvo, per cui mi è venuta una immediata affezione. Difficilmente sbaglio, nelle mie intuizioni. Tenetemelo bene al fresco’. Li congedò… Uscendo il questore disse: ‘Dio mio!’; e il colonnello: ‘Terrificante!’”. Nel suo ultimo romanzo Leonardo Sciascia descrive così il rapporto fra il magistrato e l’investigatore. Sciascia non amava i magistrati. Solo in un libro, “Porte aperte”, è un magistrato il personaggio positivo, ma lo è proprio perché in conflitto con i suoi colleghi e il suo capo, pronti a piegarsi al regime che vuole esemplari condanne a morte. Per il resto, nei suoi libri, i magistrati sono conclamati imbecilli come questo del suo ultimo romanzo “Una storia semplice” o algidi inquisitori, feroci e sacerdotali come quelli che fa monologare nel “Contesto”, in cui spiegano che il giudice che emette la sentenza è come il prete all’elevazione dell’ostia: la transustanziazione si compie quale che sia la sentenza. Anche se in fin dei conti il criterio della decimazione sarebbe quello più semplice e appropriato. Questo dicono al protagonista, un commissario che cerca la verità, prima di essere uccisi da una loro vittima vendicativa. Sciascia amava gli investigatori più dei giudici e infatti alla fine di quel libro il commissario trova la verità, ma viene ucciso dal “potere” per impedire che possa essere conosciuta.
Sciascia era un pessimista, si sa. Nel primo romanzo in cui parla della mafia per denunciarne le moderne capacità di penetrazione – e non per farne nostalgica apologia come ha scritto qualche cretino al quale si è recentemente allineato anche Camilleri, sempre più ansioso di apparire politicamente corretto – nel “Giorno della civetta”, la magistratura nemmeno compare e la partita si gioca tutta fra carabinieri e mafiosi. Erano gli anni 60 e il codice di procedura penale era diverso. Il ruolo del pubblico ministero “dominus” della polizia giudiziaria in tutte le fasi dell’indagine comincia a proporsi e a crescere via via alla fine degli anni 60, anche se la prima riforma che si muoveva in quella direzione aveva visto la luce già quindici anni prima. Ciò non impedisce al capitano Bellodi di costruire un verbale falso per costringere un mafioso di mezza tacca a incastrare i suoi capi. Sciascia era un cultore dello stato di diritto ma agli investigatori nei suoi romanzi ha sempre concesso molto. Del resto, nessuno viene torturato come ai tempi del fascista “prefetto di ferro” o del repubblicano “nucleo repressione banditismo”. Piuttosto, così finisce il racconto, ci pensano i superiori a trasferire il capitano troppo intraprendente e i magistrati ad assolvere i mafiosi.
Qualche anno dopo in Italia impazzeranno film con titoli come “La polizia incrimina, la legge assolve”. Sono i poliziotteschi che tanto piacciono a Quentin Tarantino, violenti ma non necessariamente reazionari. In parole povere, anche la produzione culturale, alta e bassa, dai libri Einaudi ai B-movie si applicava al rapporto fra magistrati e polizia. L’interrogatorio in questura a metà dei 70 non era più possibile e i magistrati, sempre più importanti nella fase delle indagini, cominciarono loro ad arrestare, o meglio a far arrestare. Fino a che, e siamo arrivati ai nostri giorni, hanno cominciato a mandare in galera o, almeno, a processare i poliziotti. Non solo quelli violenti o corrotti, ce ne sono sempre stati, ma gli investigatori di punta, quelli bravi. Già due volte i tribunali hanno assolto il generale Mario Mori, ma lo stanno processando per la terza volta sostanzialmente per gli stessi motivi. Al capo della squadra mobile di Napoli Vittorio Pisani che, analogamente a quanto ha fatto Mori con Riina, ha catturato due pericolosissimi capi casalesi latitanti da anni, Iovine e Zagaria, è toccata la stessa sorte per le accuse di un pentito. E allo stesso modo di Mori, Pisani è stato assolto. Al prefetto Nicola Gratteri, il poliziotto che ha catturato Leoluca Bagarella, è andata peggio. Ha cominciato pochi giorni fa a scontare un anno ai domiciliari. Certo la vicenda della scuola Diaz fu molto grave ma le sue responsabilità sono risultate controverse, comunque circoscritte e in ogni caso non segnate da atti di violenza. Altri poliziotti meno brillanti ma gravati nello stesso processo da accuse più gravi ed evidenze maggiori hanno avuto da procura e giudici un trattamento migliore. Insomma, i migliori investigatori italiani degli ultimi vent’anni sembrano destinati a passare il tempo della pensione nelle aule di tribunale come imputati.
Una spiegazione deve pur esserci.
La tensione fra magistrati e investigatori non è certo una invenzione letteraria. La dottrina giuridica e costituzionale definisce la nostra polizia giudiziaria come “servente” nei confronti della magistratura. Da molti questo viene letto come una importante attuazione della Costituzione e una conquista democratica. Ci sono stati però nel corso del tempo pareri contrastanti in merito, qualcuno di essi sorprendente. Questa estate sul Post Francesco Costa ha ripescato una intervista di Mario Pirani a Giovanni Falcone pubblicata da Repubblica nel 1991, un anno prima della strage di Capaci. Sollecitato da Pirani sull’argomento Falcone faceva la seguente considerazione: “Vorrei fare una premessa di carattere più generale sul rapporto magistratura-polizia: ebbene io credo che sia profondamente sbagliata la concezione, che si evince anche dal nuovo codice, secondo cui il pm è il capo effettivo, addirittura operativo, della polizia giudiziaria. Si è confuso l’organo investigativo con l’organo dell’esercizio della azione penale. Il controllo di un pm che indica alla polizia i modelli giuridici validi e ne controlla l’applicazione è una norma di civiltà, ma il timore che una polizia giudiziaria troppo indipendente possa ledere l’indipendenza della magistratura si è tradotto nella pericolosa e velleitaria utopia di un pm, magari di prima nomina, superpoliziotto per diritto. E’ questa una delle cause della attuale situazione catastrofica, la polizia giudiziaria è indotta a deresponsabilizzarsi, attende istruzioni e si appiattisce sull’inadeguatezza del pm, divenuto punto di riferimento di ogni possibile errore”. Come spesso gli capitava, Falcone anche su questo tema proponeva una interpretazione empirica, de-ideologizzata, priva di riflessi corporativi. Non si tratta di arruolarlo post mortem in questo o quel fronte, ma certo anche queste sue parole fanno capire perché fosse, nei fatti, così poco amato dai suoi colleghi del Csm e dell’Anm. Naturalmente con alcune eccezioni.
A proposito della deresponsabilizzazione e dell’appiattimento, situazioni che determinano frustrazione e inevitabili tensioni, un altro magistrato molto noto, Piercamillo Davigo, in una recente intervista a Maria Antonietta Colimberti su Europa, individua un altro punto chiave quando nota che “se normalmente il flusso di informazioni va dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria, con la legge sui collaboratori di giustizia il flusso informativo si è rovesciato. Erano i magistrati ad attingere direttamente le informazioni e a mandarle alle forze di polizia con ordine di indagine. E la polizia non poteva non svolgerle”. La riflessione è importante e va però affiancata a quella di Falcone. Certo molto dipende dal funzionamento dell’ufficio e dalla professionalità dei singoli magistrati e investigatori.
Memorabile quello che successe a Napoli all’epoca del blitz che portò in carcere non solo Enzo Tortora ma diverse centinaia di altre persone. Va detto che si era agli albori dell’estensione delle leggi premiali per i collaboratori imputati di fatti legati alla criminalità organizzata e non solo al terrorismo. Non si sa bene che indicazioni avessero dato i magistrati alla polizia giudiziaria, sta di fatto che l’esecuzione degli arresti portò in galera poco meno di un centinaio di persone che erano solo omonimi dei destinatari degli ordini di carcerazione. Non avevano controllato bene nemmeno le generalità. Quanto alle indagini, risolutiva fu la testimonianza di un ufficiale dei carabinieri quando rispose a una domanda che solo un tribunale, che giudicava un piccolo gruppo di imputati stralciati dal processo principale, si ricordò di fargli. “Maggiore, prima degli arresti avete fatto delle intercettazioni telefoniche o ambientali?”. “Nossignore!”. “Indagini bancarie?”. “Negativo!”. “Forse pedinamenti?”. “No, no, per carità!”. “Vada pure!”. Per la cronaca, il maggiore ha poi fatto una brillante carriera, terminata da generale dopo aver rivestito importanti ruoli di comando.
Quella che però qui più interessa è la situazione opposta, quando l’investigatore prende iniziative e i magistrati lo infilzano a esse. Quando venne arrestato Bruno Contrada, la vigilia di Natale del 1992, furono colpiti in molti fra gli addetti ai lavori, diciamo così, da una assai tempestiva dichiarazione di Luciano Violante, allora presidente della commissione parlamentare Antimafia, che certo non era ritenuto un estimatore del poliziotto palermitano. Eppure Violante tenne a dichiarare che occorreva fare attenzione perché le vicende per le quali Contrada era stato arrestato risalivano a un’epoca nella quale i pentiti non esistevano e i poliziotti lavoravano con gli informatori. Una zona grigia dove il raccordo coi magistrati è essenziale. A patto di fidarsene, e viceversa. Se non è così possono sorgere equivoci incresciosi. E dubbi sulla colpevolezza di Contrada sono rimasti a parecchie persone, al di là della sentenza definitiva. Un caso quasi analogo a distanza di vent’anni, ha avuto un esito diverso per il capo della squadra mobile di Napoli anche se molto simile era il clima di tensione fra la procura e Pisani e gli investigatori che lavoravano con lui.
Differente, e forse il più interessante di tutti, il caso di Mario Mori e del Ros. Sono finiti davanti ai giudici, per motivi diversi e con esiti diversi, altri due comandanti del corpo speciale dei carabinieri, i generali Giampaolo Ganzer e Antonio Subranni. E poi il colonnello De Caprio e i maggiori Obinu e De Donno. Per capire di cosa sostanzialmente sia accusato Mori, e per capire l’accanimento giudiziario sul Ros, occorre lasciare perdere gli sterminati atti giudiziari sulla questione e leggersi un capitolo di un corposo libro sul caso Moro. L’autore è un recente parlamentare del Pd, il professore Miguel Gotor, storico, sicuramente non sospettabile di ostilità nei confronti della magistratura e altrettanto sicuramente caratterizzato nei confronti di Sciascia da una idiosincrasia che nei suoi scritti tracima nell’insulto. Ma il secondo capitolo del suo libro “Il memoriale della Repubblica” è la migliore lettura per comprendere il modus operandi di Mori e del Ros. Si parla della scoperta del covo Br di via Monte Nevoso, ma conviene qui lasciar perdere la faccenda del doppio ritrovamento, differito nel tempo, dei verbali dell’interrogatorio di Moro. Basta ricordare che tre, scrive Gotor, io ne ho contati quattro, alti ufficiali dei carabinieri, compreso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, hanno fornito, di fronte all’autorità giudiziaria e a commissioni parlamentari d’inchiesta, quattro versioni diverse di come erano arrivati a scoprire il covo. Se state pensando che non è una bella cosa il fatto che tre alti ufficiali dell’Arma abbiano mentito alle autorità potreste sbagliarvi. Probabilmente ha mentito anche il quarto. E’ ben possibile che la storia del documento ritrovato in due tempi c’entri, ma Gotor, giustamente a mio avviso, alimenta il dubbio che il motivo principale sia nella copertura delle loro fonti e soprattutto dei loro metodi che erano un po’ il marchio di fabbrica di Dalla Chiesa poi ripreso dal Ros, guidato da ufficiali che erano stati ai suoi ordini. Metodi che potrebbero non essere apprezzati dai magistrati. Chiedo perdono ma a questo punto è assolutamente necessario citare un articolo del codice di procedura penale, l’articolo 347 che nel primo capoverso recita: “Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero”. Sta tutto in quelle due parole: “Senza ritardo”.
A spiegare il problema ci pensa Dalla Chiesa in persona, citato da Gotor nell’audizione davanti alla commissione Moro nel febbraio 1982, sei mesi prima di essere ucciso. Non parla del covo di via Monte Nevoso ma del primo arresto di Renato Curcio e prima anche di mafia: “Forse questa sarà spregiudicatezza, saranno azioni che non si fanno, ma se io confermassi per esempio che a Corleone, da capitano, non arrestai subito il capomafia Navarra pur di sapere tutto quello che dovevo sapere, non vi dovete meravigliare se non l’andai a dire ai miei superiori, per non coinvolgerli in una responsabilità piuttosto grave. Ora che il reato è prescritto ne posso parlare. Così è successo quando dovevo arrestare Curcio. L’ho detto prima. Ho visto che era Curcio ma non l’ho arrestato. Ho commesso un reato di omissione. Avrei dovuto arrestarlo e invece per tre volte sono andato avanti ma non ho detto niente ai miei superiori. Sono stato zitto. Però se questa spregiudicatezza di chi opera in questi settori può essere considerata una deficienza – ed è una deficienza dal punto di vista formale e procedurale – non ho niente da dire; ma da questo a passare al resto, io mi ribello”. Bastò. Nessuno “pensò al resto” o comunque non lo dette a vedere. E il generale e i suoi ufficiali non ebbero noie giudiziarie.
Sostituite Navarra e Curcio con i nomi di mafiosi contemporanei e troverete una singolare disparità di giudizio nei magistrati di allora e di oggi sui metodi dei carabinieri. A spiegarla potrebbe forse essere di qualche utilità tenere conto di quanto il giudizio della magistratura palermitana sia mutato a proposito dei metodi del generale Dalla Chiesa. C’è un momento di svolta ed è rappresentato dal processo Andreotti. Per aver seguito le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e di qualche altro pentito e quelle di un agente di custodia che aveva reclutato come informatore, Dalla Chiesa, fino ad allora considerato un ufficiale integerrimo e un martire, veniva descritto nelle carte processuali come spregiudicato uomo di potere e perfino infido ricattatore. I familiari se ne dolsero pubblicamente. Anche nel giudizio su Mori vi fu una torsione da parte della procura di Palermo o almeno di alcuni magistrati dell’ufficio. La crisi esplose nel 1999 ma la causa scatenante risaliva all’ultimo periodo di permanenza di Falcone a Palermo. Il suo ultimo atto da procuratore aggiunto fu la consegna al procuratore capo Pietro Giammanco di un rapporto del Ros, il famoso dossier “mafia e appalti” che gli aveva consegnato Mori. Vi erano citati politici, imprenditori e mafiosi fra i quali Siino che risultò confidente del capitano De Donno del Ros. Il rapporto rimase a lungo fermo sul tavolo del procuratore, poi comparve a puntate su un giornale locale. Al Ros sospettarono che un magistrato avesse organizzato la fuga di notizie per bruciare l’indagine. Finì a querele fra Mori e il procuratore aggiunto Lo Forte e fra Siino, nel frattempo divenuto pentito e De Donno. Non ne uscirà nulla ma intanto era sceso nella mischia in appoggio al Ros il Corriere della Sera con una serie di articoli di Peppe D’Avanzo. Per uno di essi intitolato “C’è del marcio in Procura?” Lo Forte querelò giornalista e testata. Non ne uscirà nulla anche in questo caso. Ma c’è un ultimo aspetto che merita di essere segnalato. Dopo l’articolo querelato da Lo Forte, D’Avanzo ne scrisse un altro in cui sosteneva che la strage di via D’Amelio rispondeva alla necessità di accelerare la morte di Borsellino, perché aveva preso lui in mano l’indagine sul rapporto del Ros dopo un incontro segreto con Mori.
La tesi dell’accelerazione dell’omicidio Borsellino è ancora tutta da dimostrare, ma nel frattempo è mutata di segno ed è sostenuta da chi la mette in relazione con la vicenda della trattativa tra stato e mafia. Nasce così la saga della agenda rossa mentre iniziano i guai giudiziari per Mori. Fosse così, e del resto si sono lette ipotesi molto più azzardate, tutto deriverebbe da un comportamento opposto a quello di Dalla Chiesa. Invece di nasconderlo ai magistrati, Mori ha insistito per depositare un dossier su un’indagine ancora in corso. Però se gli chiedete qual è il suo metodo può essere che vi risponda: “A un certo punto la rete bisogna per forza tirarla. Ma si deve stare attenti a non prendere tutti. Uno lo devi far scappare. Ti porterà dagli altri”.
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