Memorie di caserma

Stefano Di Michele

Si sa, si dice: chi per il re non è buono, pure per la regina è scarso. Ed era nella caserma che il maschio italico – a racconto di reduci, a trame di film, a (in)sensibilità popolare – al meglio e più si palesava. E mica solo l’aviatore che faceva sognare le signorine nei romanzi di Liala, Gianni Morandi soldatino “in ginocchio da te” davanti a Laura Efrikian figlia del maresciallo Todisco, ma pure i marinai che Paolo Poli e Laura Betti andavano a rimorchiare strategicamente a piazza di Spagna – dannunzianamente frementi, “naviglio d’acciaio, diritto veloce guizzante, bello come un’arme nuda…”.

    “E sentiamo un po’, quante donne al giorno vorresti conquistare?”. “Conquistare… mi contenterei di tre… quattro…”. “Ma insomma, vorresti essere un dongiovanni allora, in conclusione?”. “Ma no, il dongiovanni conquista le donne più belle, noi ci… ci accontentiamo anche di quelle più scarse”. (…) “Un dongiovanni proprio no, perché, insomma, non sono proprio un dongiovannone, no, ma comunque un dongiovannino mediocre… insomma, mi piacerebbe”. (Interviste di Pier Paolo Pasolini ai soldati davanti alle caserme in “Comizi d’amore”, 1963).

    Si sa, si dice: chi per il re non è buono, pure per la regina è scarso. Ed era nella caserma che il maschio italico – a racconto di reduci, a trame di film, a (in)sensibilità popolare – al meglio e più si palesava. E mica solo l’aviatore che faceva sognare le signorine nei romanzi di Liala, Gianni Morandi soldatino “in ginocchio da te” davanti a Laura Efrikian figlia del maresciallo Todisco, ma pure i marinai che Paolo Poli e Laura Betti andavano a rimorchiare strategicamente a piazza di Spagna – dannunzianamente frementi, “naviglio d’acciaio, diritto veloce guizzante, bello come un’arme nuda…”: a volersi intendere di metafore e di visioni. “Signorine non guardate i marinai, perché… / Ma perché? / Vi potranno combinare troppi guai…”. Quelle caserme – ora alcune vuote e silenziose come padiglioni di vecchi ospedali: abbandonate, degradate, da vendere, da smaltire, da riconvertire – hanno ospitato quasi quarantasei milioni di italiani: a forza ospitato, si capisce, per lunghi decenni, ché ognuno viveva con il terrore della cartolina precetto, i tre giorni dove ti smutandavano e ti tastavano le palle (ne fece esperienza, e ne dette dettagliato resoconto, in termini di migliaia di testicoli soppesati, persino il giovanile Totò Cuffaro) e magari ti mandavano da uno spicciativo psicologo se allo schioppo sembravi poco portato, e tra il “riparare radio” e il “curare i fiori” più verso la botanica parevi indirizzato. Rito di passaggio, rito d’iniziazione. Rito necessario, si diceva. Rito crudele, pure, rito burlesco. Il “sacro dovere” di difendere il suolo patrio – mai, peraltro, da alcuno realmente bramato – e il sacro terrore del sadismo dei “nonni”, a volte quello dei superiori. Ché se persino il Papa dice che nei seminari “senza cuore” si possono formare “piccolo mostri”, questo solo a sgranar rosari e a compulsare testi di patristica, figurarsi tra flessioni e gavettoni – un po’ necessità e un po’ sadismo, un po’ mito e un po’ rimpianto. “E’ un mondo che non si trova più”, spiegano i meglio e più saggi istruttori, una civiltà in stellette che pure esiste e spesso dà prova di sé. Ma lo stesso – anche adesso che la cartolina precetto non arriva, anche adesso che l’ammassamento nudo e crudo propedeutico all’accasermamento più si pratica – qualcosa persiste, nel buono a giusta ragione rivendicato che esiste.

    Adesso i giornali pubblicano i verbali di quella caserma di Ascoli Piceno a onore (a disdoro, si potrebbe dire) delle cronache innalzata dopo il caso di Salvatore Parolisi. Dicono, quei verbali – solo il riflesso di un’ombra di ciò che sotto la pelle e sotto la divisa corre – di tonnare di certi istruttori rispetto alle reclute femmine che si dovevano addestrare, per poi a silenzio suonato forse molestare. L’ossessivo ordine sempre il disordine pare contenere, tra l’ormone e il “signorsì!”, un occhio al muscolo, fosse muscolo di femmina, e l’altro alla tetta. Sempre fanno gli esseri umani quello che meglio aggrada (se liberi di farlo sono) – e c’è letteratura e c’è scienza e c’è cinema che mirabilmente raccontano quale maggiore eccitazione la rottura di una regola sappia regalare. Diversa la prevaricazione, l’abuso, il rapporto gerarchico mutato in rapporto di strapotere. Ma è caserma pure questo – quasi sempre è stato pure questo, la caserma. La canna di bambù sulle natiche, che mesi fa i giornali rivelarono – giornali che ora parlano (Corriere) di “inchiesta monstre su caporali e soldate”. Gli inviti (chiamiamoli inviti), “devi offrire te stessa a me e dopo agli altri istruttori”, i messaggini a contrappello fatto. E sempre qualcuno, qualche caporale (ciò che mirabilmente Totò pose in contrapposizione all’essere uomo – essendo l’ordine, che dovrebbe stare a radicale difesa dall’abuso, a volte perfetto conduttore dello stesso: “Siamo uomini o caporali?”), si fa parodia dell’odioso sergente Hartman, cinematografico persecutore di “Palla di lardo”, davanti alle soldatesse ai suoi comandi adunate, con arcaico rurale impeto: “Vi faccio sputare sangue, mi sembrate delle pecore, lo sapete cosa fa il pastore con le pecore… mi fate schifo… Tu sei una casalinga non idonea alla vita militare, hai i prosciutti al posto delle gambe, chiatta, balena… Siete della galline, siete delle pappe molli, siete tutte z…”. E se pure un ceffone di rimando (vaffanculo la gerarchia, evviva una decente educazione!) sarebbe stato opportuno, ha in qualche modo ragione l’avvocato dell’impetuoso caporale, quando annota che “per una caserma si tratta di un linguaggio istituzionale”. Perché una caserma, ecco, per quanto la mistica dell’ottimo “esercito di popolo” a sinistra e quella di “si formano le schiere e i battaglion” a destra, caserma resta. Linguaggio da caserma. Siamo in caserma. Zona in qualche modo franca – pure la caserma di Ascoli, che ora a nuovo ordine risulta riconsegnata, e ci mancherebbe altro.

    E se lo era assolutamente quando la cartolina precetto non dava scampo (bisognava attrezzarsi: parente maresciallo, colonnello vicino di casa, vescovo all’occorrenza), un po’ lo è rimasto anche ora che volontariamente si varca il portone salutando il piantone. C’è l’ormone e c’è la fragilità psichica, persino sulla strada dell’eroe/eroina. Eroi, poi; possibilità di lavoro, pure – e il Santo Padre nuovamente soccorre: se ha intravisto nell’afflusso massiccio di monache dal terzo mondo il rischio di una “tratta delle novizie”, non meno la contingenza socio-economica potrebbe predisporre alla “tratta del soldato”, a buono e rispettato mestiere: ché se c’è chi compie il peccato dell’abuso, c’è chi la vita perde in qualche desolata landa culo del mondo mediorientale/afghana/irachena.

    Sacrosanto l’arrivo delle donne, ma pur sempre vanno le soldate/esse a planare in un universo dove ancora pochi anni fa l’immaginario era quella commedia tra il “presentat’arm!” e il buco della serratura, un fiorire di evocative pratiche collaterali per ovviare alla carenza in camerata, tra “L’infermiera nella corsia dei militari” e “La soldatessa alle grandi manovre”, tra “La dottoressa del distretto militare” e “La dottoressa ci sta col colonnello” (a lamentela giustificata della truppa tutta), in un fiorire di Col. Anacleto Punzone e Serg. Merode, se s’intende il gioco di parole. Magari molto abbiamo sviluppato l’idea dell’accasermamento come maggior bordello esistenziale, ma poco (per fortuna) quello teutonico della disciplina che sfiora e mescola sadismo e masochismo: la scoreggia in compagnia, la prevaricazione coatta (che pure, lo stesso, il sadismo sfiora e integra), piuttosto che la compatta e combattente falange. Dio, per sua e nostra fortuna, non sta con noi. E infatti, sulla vita in caserma, il cinema italiano è sempre stato stitico dal punto di vista dell’eroismo e piuttosto generoso su quella della farsa: pecoreccia, si è visto; ma pure del tipo “Quattro marmittoni alle grandi manovre” o “Patroclooo! E il soldato Camillone, grande grosso e frescone”, fino al genio radiofonico di Arbore e Boncompagni che mutarono Marenco nel colonnello Buttiglione, poi elevato (essendo un reale col. Buttiglione in attività) di grado a generale Damigiana, e infine in procinto di passare a capo di Stato Maggiore La Botte. A volte, qualche claustrofobico film sulle costrizioni della vita in caserma (“Soldati – 365 all’alba”), ma piuttosto che eroicamente marciare, sempre meglio neanche discretamente cazzeggiare. “Macchinista, macchinista del diretto / metti in moto gli stantuffi / della naja siamo stufi / e a casa vogliamo tornar, / vogliamo tornar” – si cantava, copiando ritmo e necessità persino dai canti delle mondine in rivolta. O il Fiorin “Serafino” di Celentano, regia di Pietro Germi, che se ne va mesto tra due carabinieri verso il suo destino in divisa mentre gli amici intonano: “Mo lu poveru Serafino / te lo schiaffano a fa’ l’alpino / fa l’alpino e il bersagliere…”, e il diretto interessato, mentre rassegnato si avvia: “… E se lo piglia nel sedere!”.

    Eppure, la caserma è stata una costante, nella vita degli italiani. Ossessione/sogno/incubo/svolta/bisogno. Complicato districarsi – quasi come, per i profani che la caserma avevano scansato, il groviglio di Car/appello/adunata/alzabandiera/Pao/ritirata/contrappello/silenzio. Quando, in passato, la cartolina precetto arrivava (a maturità appena compiuta, a primi amorazzi avviati: “Leva e reclutamento obbligatorio nell’Esercito, nella Marina e nell’Aeronautica”, ai sensi dell’art. 1 del Dpr 14 febbraio 1964 n. 237, tremare si poteva), subito scattava l’allarme: più che l’italico petto d’orgoglio riempirsi, lo strampalato cervello provava a elaborare scombinate strategie per evitare di ritrovarsi sulla strada di Fiorin Serafino, da infusi di foglie di tabacco per presentarsi con febbroni degni di don Abbondio a certificazioni di vista calante, piedipiatti insorgenti, ulcere galoppanti. Un’ingenuità strapaesana, così da offrire alla Patria al massimo l’inevitabile toccatina testicolare e nient’altro – il sogno proprio e della mamma di ritrovarsi per grazia ricevuta “militesente” senza partire. Aggrovigliate possibilità, figlio o fratello di deceduto in guerra, orfano, vedovo o celibe con prole, primo figlio maschio con genitore invalido, terzo figlio con due già arruolati… O si poteva ammettere/confessare/mentire di essere omosessuale – adesso figurarsi, dopo che persino l’intelligente generale Fabio Mini ha ammesso: “Nell’esercito italiano resiste il mito del macho, l’uomo duro tutto d’un pezzo. Ma nella mia lunga carriera ho riscontrato moltissimi gay a tutti i livelli, anche tra i vertici come i generali” – ma allora era come mutarsi in Giovanna d’Arco e salire volontariamente sulle fascine pronte per il rogo. Il destino ti poteva portare da Trapani a Villa Opicina sul Carso, là nel nord-est senza miracolo disseminato di caserme (“Un paese di primule e caserme”, il titolo di un documentario che questo fiorire di strutture raccontava), e persino nella temutissima Sardegna. Tra chi sapeva, resisteva il mito del solito Andreotti, che pure lui alla visita di leva si presentò. “Fui scartato per insufficienza toracica. Il maresciallo mi domandò: ‘Quanto pensi di campare con quel torace?’”. Campò benissimo. “Quando, quindici anni dopo, divenni ministro della Difesa lo cercai, ma il poverino era deceduto”. E seppure Little Tony faceva il marinaio nei “musicarelli” e Morandi sul tema “soldatino innamorato” un’intera trilogia (“In ginocchio da te”, “Non son degno di te”, “Se non avessi più te”), che nemmeno “Guerre stellari”, i virgulti nazionali si sentivano persi e timorosi dentro quella sorta di triangolo delle Bermuda tra “idoneo” (la peggio cosa, senza scampo), “rivedibile” (un anno di incerta sorte) e “riformato” (la meglio soluzione). Seguiva, nel caso più infelice, partenza notturna dalla stazione, con gli amici a far da codazzo, e tutti in coro a cantare sul binario triste e solitario: “Nun te ne anda’, nun te ne anda’ / pensa agli amici che hai da lascia’…” – viaggio dentro il buio verso la contenitiva caserma, “la casa del soldato: spoglia di tutto quanto è superfluo e incline alla vita comoda, deve offrire al soldato quel benessere materiale e morale che ne allieta l’animo e agevola così la preparazione guerriera”, stando all’entusiastico decreto per il Regio Esercito (quindi Esercito Italiano).

    Si capisce che l’animo, Regio o Italiano che fosse l’esercito, poco si allietava. Tra noia, addestramento, qualche ordine parente del “Comma 22”. Al peggio, quel fenomeno di bullismo (gerarchico) che andava sotto il nome di “nonnismo”, e se ne trova ancora vasta memorialistica, ammasso di riti e abusi, nonno e stecca, block e schiumata, juke box (chiuso in un’armadietto, lo sfigato di turno doveva cantare a richiesta dei commilitoni gradassi) e piedi coperti di lucido, pincione e gavettone e stronzate simili. Cane morto/muto/rospo/ zanzara/missilaccio/spina/scheggia/burbetta/capospina. E il silenzio omertoso – essendo infame ogni delazione di prepotenza. Cantare/cazziare/radionaja. Pure davanti al superiore bene intenzionato, si legge in rete in un mirabile assemblaggio di frasi fatti e modi (sgarrupati) di dire che sfiorano il capolavoro letterario: “Se avete qualcosa da dire la dicete tranquillamente. Venite e la dicete”. “Dovete essere minchiosi! Non coglionosi!!”. “La cinghia del vostro fucile deve essere tesa come le vostre minchie!”. “Se sbatto la minchia a terra fa più rimore dei vostri tacchi!”. “Questo è il classico momento in cui non si riesce a cavare un ragno dalla caverna”, ecc. ecc. Il genio involontario. Della vita (vite) in caserma, negli anni Ottanta, dopo la stagione dimenticata dei “Proletari in divisa” a caratura lottacontinuista, raccontò un libro che fece scalpore, “Pao Pao” (sta, Pao, per Picchetto armato ordinario), scritto da Pier Vittorio Tondelli. “Tutti hanno un generale che li protegge, uno zio maresciallo che li sorregge, i napoletani hanno i compà, i sardi i fratelli della lega sarda, i milanesi hanno amici altolocati, i romani hanno gente, i bolognesi fingo di non sentirli, i calabresi hanno sorrete e mammete, i pugliesi non si capisce che cazzo abbiano se una confraternita o una congrega di zitelle, i toscanacci hanno una parlata da ghigliottina, antipaticissima e sbracata, i livornesi poi questa ‘s’ che par tutta uno scivolo lascivo, i piemontesi hanno grandi occhi spalancati…”. E la sorte mesta del triste soldatino ha cantato Enzo Jannacci, nella sua bellissima “Soldato Nencini”, quella che fa: “Soldato Nencini, soldato d’Italia / semianalfabeta, schedato ‘terrone’, / l’han messo a Alessandria perché c’è più nebbia; / ben presto ha capito che a volergli bene / c’è solo quel cane che mangia la stoppa / fra i vecchi autoblindo, pezzato marrone…”.

    E’ la famelicità del sesso – ché il marciare e il flettersi e il chiudersi dello stomaco davanti al rancio nulla potevano contro gli ormoni ancor più marcianti di addestrati e addestratori. Si è visto nella caserma di Ascoli, è storia nota e leggenda aurea quella del soldato: che però, più che essere predatore, quasi sempre riserva di caccia appare. Se sul monumento al bersagliere a Porta Pia per anni, sotto l’epica e grottesca esortazione “Nulla resiste al bersagliere!”, un bersagliere forse dall’attesa stremato attestò col pennarello la meno consolante realtà, “tranne Rosina!”, le meglio ragazze sfuggivano (essendo quelli in transito e queste da accasare), e la disponibilità puttanesca pur numerosa era sempre esercizio di stentata contabilità. Così l’immaginario di molti gay – sospeso tra rimembranza di pettoruti alla Tom of Finland, rimasugli di “Querelle de Brest” e qualche nota dei Village People – prendeva la rincorsa. Basta chiedere, per avere giusta informazione, all’illuminata saggezza di Paolo Poli. “Maestro, scusi, lei ha fatto il militare?”. “No, caro, ho fatto i militari” – e tra caserme pattugliate e navi alla fonda scrutate, persino trenta per sera ne potevano attruppare in teatro. “Prima li seducevo, poi diventavamo amici. Mi portavano a conoscere la fidanzata”. Storie di tutti i giorni, si potrebbe in sanremese cantare. “Ricordo un bell’aviatore. Lo incontrai un tardo pomeriggio in Galleria, lo avvicinai, disse di chiamarsi Vitellino. Un nome che non si dimentica… Quando fummo a casa, per fare migliore figura, andò in bagno e si fece uno spruzzo di acqua di colonia sull’uccello. Puah! Quel giorno non si combinò niente. Nel prosieguo tornò e avvenne”.

    Nei verbali di Ascoli, però, non c’è allegria. Niente del genere. Dal nonnismo al gallismo condotto sino alla prepotenza ingiuriosa, evoluzione zero. Ma che la caserma, avendo adesso avvicinato uomini e donne, sia un po’ fuoco che arde vicino a un pagliaio è inevitabile. Il rischio si corre, il rischio è da correre. Se un certo tipo di linguaggio in caserma è, appunto, istituzionale, la decenza certo non può essere da seminario (riformato, però). Sapersi però civilmente e intelligentemente regolare. Nell’assalto, almeno – sennò a che cavolo serve tanta esercitazione e sudare così? Niente zelo, diceva un saggio. Nemmeno troppo impeto tra il porco e il guerriero. Rompere le righe, sempre. Però senza rompere le vite (e le palle altrui).